Lo schermo tangibile che ti ricostruisce col Kinect

inFORM

Tocca e strofina, ingrandisci, riduci, scorri di lato e dopo passaci un panno, tanto per pulire. Se c’è una cosa che ormai facciamo sempre, è parlare con il nostro cellulare. Non intendo soltanto rivolgendosi a chi c’è dall’altra parte, ma proprio con lui, l’oggetto stesso, comunicando attraverso un linguaggio che, per necessità, si articola in gesti manuali, piuttosto che parole. E manovrando quell’interfaccia utente semplice e intuitiva, comunemente detta touch, in cambio noi riceviamo dati, informazioni virtuali. Però c’è pure il caso, grazie all’esperimento tecnico di un dipartimento del famoso M.I.T, che prima o poi, miniaturizzazione permettendo, i nostri dispositivi abbiano la capacità d’espandersi o contrarsi nell’asse della profondità, a proprio piacimento. Potendo finalmente contrapporre l’ideale dito-casa-telefono, loro propaggine bio-luminescente, contro quell’insistente palmo umano. Dieci o mille volte…Senza limitazioni contestuali, appendici in quantità! Ebbene, quanto pesa un pixel? Dipende. Se del tipo tradizionale, inteso come unità minima di luce e tiepido colore, sarebbe difficile da misurare. Un micro-nano-grammo di atomi, o a seguire. Ma se invece si trovasse sopra questa matrice a quadrettoni, il rivoluzionario inFORM, quanto basta. Ovvero l’entità immanente sufficiente ad esserci, poter toccare, spostar le palle rosse, o altre cose.
Più che essere un semplice tavolino da caffé, questa ridotta superficie fuoriesce da un mondo di sfrenata fantascienza. In particolare, rilevante è l’immagine del classico ponte ologrammi, fornitura standard di ogni nave di Star Trek, in grado di dare forma fisica alle sue realistiche simulazioni, che siano serie o d’intrattenimento. Ovviamente, qui siamo in una fase ben più primitiva. La risoluzione, perché in fondo stiamo parlando di uno schermo, è davvero limitata: siamo ad un minimo stimato di 2 cm. Abbastanza per poter creare una riduzione del Selciato dei Giganti (basalto d’Irlanda) o il modellino di un edificio in stile Minecraft, poco più. Però, in fondo, non è questo il punto: stiamo parlando soprattutto di un meccanismo dotato di risposta rapida, quasi paragonabile al concetto di refresh. Più che ricrear le cose con assoluta precisione questo, praticamente, si muove alla velocità dell’occhio, del prestigiatore.
Tanto che in mancanza di teletrasporti, il quali forse ci arriveranno un po’ più in là, ci può fornire dell’assistenza nella cosa più prossima che abbiamo: la tecnologia per esserci, quando non ci siamo. Vediamo come.

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Tecnici marittimi nostalgici degli anni ’80

Peridot

Questo video non è che l’ennesima proposta di un filone classico, ovvero la canzone in playback, recitata da un gruppo di figure professionali, goliardicamente, proprio sul posto di lavoro. Però le circostanze, in questo caso, sono davvero inusuali. Prima di tutto, non ci troviamo sulla terra ferma. E i simpatici interpreti, alle prese con lo storico pezzo Africa dei Toto, sono l’equipaggio della Peridot, tecnologica nave di proprietà del gruppo multinazionale Bourbon, compagnia operante in molti campi di supporto all’industria energetica, petrolifera e delle comunicazioni. Tale battello di 80 metri, capace di ospitare fino a 74 persone, si occupa normalmente dell’installazione di strutture sommerse, della loro manutenzione ed effettua le rilevazioni dei fondali. Può inoltre trasportare prodotti liquidi, come il petrolio, o apparecchiature di trivellazione. In questo caso, invece…Canta.
Riesce particolarmente difficile, per noi abitanti dei saldi continenti, immaginare la vita di bordo sopra un simile gigante. Viaggiare per il mondo, verso missioni di fondamentale importanza, senza un attimo di riposo, sempre a disposizione 24 ore al giorno, ciascuno specialista inquadrato nel ruolo che gli spetta da contratto. O forse no, chi può dirlo! Di sicuro, c’è il fatto che, all’inizio di ottobre, la nave si è ritrovata a largo dell’Africa Occidentale, presso la Guinea Equatoriale, temporaneamente senza la preoccupazione d’istruzioni urgenti. E che proprio a causa di questo, almeno per qualche ora, l’equipaggio di bordo ha ricevuto il dono imprevisto di un segmento di tempo libero, da smaltire lì, fra i flutti. Lontano dagli svaghi offerti nella stereotipica città portuale. Le opzioni non erano tantissime. Si poteva leggere un libro o guardarsi un film tutti assieme, nell’immancabile saletta per la pausa caffé (luogo costante, quest’ultimo, in tutti gli ambienti professionali). Ma loro, fedeli al credo social del moderno web, hanno deciso di mimare il più eclettico dei video sbarazzini. La triplice giustapposizione fra seriose tute da lavoro, chiavi inglesi e profondi sentimenti, crea un’atmosfera inesplicabile, che in qualche modo, petrolio permettendo, scalda i cuori.

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Il software Disney per creare pupazzetti meccanici animati

DisneyMech

Così funziona la mente del vero ingegnere: dove noi vediamo un buffo giocattolo, per lui, solo ingranaggi, cremagliere, viti senza fine o piccoli pignoni. E questa è una fortuna, perché altrimenti chi mai potrebbe costruire il prossimo Furby deambulante, l’ET-che-telefona o Pikachu parlante-salterino? A sentire la Disney Corporation, beh, potrebbe anche bastarci un “semplice” computer. Uno su cui sia stato installato, però, questo incredibile programma di grafica, in grado di creare movimenti, pure parecchio sofisticati, a partire da un gruppo di ruote dentate interconnesse, girate a motore o manovella. Proviene da un progetto della divisione Disney Research, una fondazione a parte, collegata con il mondo della scienza pura.
Molto si parla, ultimamente, del metodo di lavoro applicato dalle moderne compagnie tecnologiche, in particolare quello di Google. Dice la leggenda, e quando si tratta di quest’azienda c’è sempre un che di mitologico, che le più insigni menti creative di ciascuna sede, circondate dai divertimenti e dai balocchi, ricevano quotidianamente il dono di una, due, tre ore di tempo da dedicare a un progetto a piacimento. E da questa iniziativa sarebbero scaturite le cose più diverse: giochini per cellulare, iniziative come quella dei cosiddetti doodle (i loghi variati per occasioni e ricorrenze) e, inevitabilmente, qualche creatura malriuscita, come il programma di workflow Google Wave, chiuso dopo appena un anno di onorato servizio. Però, sempre tramite quell’approccio, sarebbero nate anche cose utili, usate ad oggi in tutto il mondo, quali ad esempio Google Mail, la ricerca per immagini oppure l’utilissimo traduttore automatico multilingue. “Siamo così bravi che creiamo le cose belle, divertendoci” Quando una compagnia acquisisce questo tipo di reputazione, in genere, diventa l’antonomasia stessa di un eroe dei nostri tempi. Nel campo videoludico, tanto per andare fuori tema, è la misura stessa del successo: tutti odiano Electronic Arts, per la sua noméa di essere un ambiente di lavoro pieno di stress, mentre la Valve, che governerebbe i suoi dipendenti tramite una sorta di teocrazia anarco-illuminista sotto il grande Gabe, viene osannata da tutto l’ambiente, qualunque cosa faccia o fuoriesca dalle sue splendenti sale. Diversa, come è noto, risulta essere la storia della Disney Corporation. Ecco un gigante dell’intrattenimento, un tempo amato da grandi e piccini, oggi ricordato soprattutto per le sue pratiche velatamente anti-concorrenziali, come l’acquisto in blocco di brand o proprietà intellettuali (vedi Star Wars) e la ferrea gestione dei suoi stringenti copyright. Ma Disney non è solo questo, come appare lampante in questo caso. Qui le sue risorse, umane e finanziarie, vengono reinvestite a sostegno di un qualcosa che probabilmente non avrà un ritorno d’investimento, se non remoto, e non farà nulla di utile, se non stimolare l’immaginazione. Da tutti ce lo saremmo aspettati, tranne…

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Auto anfibie sotto il sole della California

Panther

C’è un modo di dire tipicamente americano che fa così: “To Make a Splash!” Si richiama al gradevole tintinnio di un sassolino gettato in mezzo a un lago, piuttosto che al rombo di un macigno che rotola imponente dalla cima del Niagara. Si attribuisce, come una metafora, a tutti coloro che si ritrovino improvvisamente al centro dell’attenzione, in seguito ad un gesto eclatante, oppure per un cambiamento favorevole di stile. Al contrario del nostro buco nell’acqua, lo splash anglofono è per analogia un classico segno di trionfo, che può anche rappresentare il culmine di una carriera o l’atteso realizzarsi di un grande capolavoro artistico-letterario. Se quel suono sarà nei fatti meritato, a favore o discapito dei soldi spesi, le onde concentriche si estenderanno da un lato all’altro dell’alta, media e bassa società. E nonostante l’importanza che riveste in tale processo l’acquisto dell’automobile sportiva, per molti l’estensione di garanzia per un prestigio ormai svampato, neanche le più splendide Ferrari, Lamborghini, Porsche o Pagani potranno mai increspare l’acqua allo stesso modo dei veri meriti individuali, ricreando l’impatto di quel sonoro splash. A meno che non si tuffino, in senso letterale, giù da una strada demi-paludosa, come successe a quell’eroico signore che affondò la sua Bugatti, per schivare un pellicano. Non tutto è perduto! L’allegoria fantastica del massimo carisma, ormai da 60 anni a questa parte, è James Bond. Intere generazioni hanno tentato d’imitarlo, affettando quell’atteggiamento, l’eleganza nei modi e soprattutto acquistando il suo orologio, le sue cravatte, i suoi mezzi di trasporto. Con un grosso segno minus, s’intende: per voi nababbi niente raggi laser, arpioni segreti o seggiolini eiettabili nascosti. Neanche l’iconica Lotus Esprit S1, quell’auto resa famosa dal film La spia che mi amava, avrebbe potuto realmente immergersi fra le acque del porto di Palau. Qualcuno ci sarà rimasto male. Peccato non vivesse in California.

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