Non c’è un modo migliore, per prendere atto della situazione relativa alla progressione di un complesso progetto architettonico, che liberare uno dei nuovi cavalieri plasticosi dei cieli, il ronzante velivolo telecomandato che dovremmo chiamare semplicemente “quadricottero” ma le cui limitate capacità di autonomia operativa, spesso ingigantite dal marketing e dall’opinione pubblica, gli sono recentemente valse la dubbia definizione di “drone”. Ma persino nella tipica situazione così riassunta, presso il cantiere dell’ultimo grattacielo o di un qualche altro grandioso monumento, difficilmente si potrebbe dire di trovarsi al cospetto di una simile gravitas, per l’importanza di quanto sta in questo caso letteralmente prendendo forma sotto l’irrinunciabile telecamerina GoPro: la struttura ad arco, alta 108 metri (più della Statua della Libertà) e con una base di 250 metri (più della Torre Eiffel) che prende il nome di NSC (New Safe Containment) e dovrà proteggerci, per almeno i prossimi 100 anni, dalla cosa innominabile che si trova lì sotto, la cui letalità supera facilmente lo sguardo della mitica Medusa.
Dopo un lungo periodo di esattamente trent’anni, presso i verdeggianti recessi d’Ucraina siti al confine con la Bielorussia, tra le città di Pryp’jat’ e quella di Černobyl’, la pace che impera è pressoché totale. Ed in effetti non resta pressoché nulla nell’aria, tranne la memoria, del feroce disastro che si verificò il 26 aprile del 1986, a causa di quel fatale test di sicurezza che prese la via sbagliata, rivelando orribilmente ed in assoluta contemporaneità tutte le problematiche latenti dei sistemi progettuali in uso, procedurali e di addestramento. Tutti palesemente inadeguati, come apparve fin troppo evidente, a fronteggiare il demone dell’energia nucleare, che prima di esaurire la sua furia, arrecò danni spropositati ai sui custodi, agli immediati vicini e ad una percentuale statisticamente rilevante di persone estremamente distanti, che di un simile luogo non avevano mai neppure sentito parlare. Fa dunque una certa impressione, oggi, vedere i turisti che si aggirano tranquillamente nella zona proibita, scattando foto e registrando dei video, qualche volta con telecomando di quadricottero alla mano, di quello che è diventato un luogo, per quanto irradiato, forse addirittura in funzione di ciò, straordinariamente ameno: cervi, caprioli e cinghiali… Oltre 57 diverse specie di uccelli, tra cui alcuni migratori. Un’intera popolazione di pesci gatto siluro, che hanno prosperato e si sono moltiplicati, addirittura, nelle pozze stesse del liquido di raffreddamento della centrale, grazie all’acqua piovana caduta al loro interno. Per non parlare delle costanti regalìe alimentari ricevute da chiunque avesse il coraggio di passare di lì.
Perché la natura, nonostante quanto siamo spesso indotti a pensare, non è poi così delicata; presenta, piuttosto, notevoli capacità di adattamento. Cancri e leucemie, per noi esseri dalla vita artificialmente prolungata e dunque estremamente coscienti della nostra mortalità, sono una vera tragedia. Ma dal punto di vista di una creatura più semplice e selvaggia, come un qualunque animale, non costituiscono altro che gli ennesimi avversari alla propria sopravvivenza, due fra i tanti, come il falco, la volpe, lo pneumatico di camion sul ruvido asfalto della propria improvvida fine.
Nei giorni immediatamente successivi al disastro, un fronte ventoso portò una corposa quantità di polvere di grafite irradiata ad impattare contro una pineta, posizionata a circa 10 Km dalla centrale. Immediatamente colpiti dai derivanti fasci di radiazioni beta e gamma, molti degli alberi assunsero un’inquietante colorazione rossa, morendo in pochissimi giorni. Ma le betulle e i pioppi, egualmente esposti al disastro, non subirono letteralmente alcuna conseguenza rilevante. Così, nonostante il panico collettivo e l’eroico, collettivo sacrificio dei cosiddetti liquidators, gli addetti alla messa in sicurezza del nocciolo del reattore, l’idillio continuò indisturbato. Ed oggi, eccoci qui. Al sicuro?