Ogni nazione, ogni regione ha i suoi monumenti: artificiali, frutto dell’ingegno e l’opera transitoria dell’uomo, oppur naturali, prodotti dall’incessante potere scultoreo degli elementi. Ma cosa fare quando il più importante simbolo di un luogo, per sua implicita predisposizione, torna soltanto una volta a stagione ed è sempre pronto a volarsene via? Per il suono improvviso, per il lampo di un flash lasciato distrattamente attivo, per il rombo di un motore distante o anche soltanto a causa di un movimento eccessivamente brusco di un qualche incolpevole turista. Grote stern, questo è il tuo nome, assegnato direttamente dalle genti che vivono in prossimità dell’Haringvliet olandese, da sempre strategico punto d’incontro tra i fiumi Reno, Mosa, Schelda e il gelido Mare del Nord. Ma in Italia ti chiamano beccapesci o più scientificamente Thalasseus sandvicensis da Sandwich, il nome della località britannica, situata nella regione del Kent, da cui proveniva il conte inventore dell’eponimo panino. All’altro capo estremo del vasto areale riproduttivo dove, occasionalmente, capita di scorgere il nido col grande uovo, candido e curvilineo, evidente segno in anticipo della prossima generazione di questo attraente uccello col becco aguzzo e una riconoscibile livrea bianca e nera. Ciò che ragionevolmente non ci saremmo aspettati, tuttavia, è di vedere un altro oggetto grossomodo simile, ma svettante oltre 15 metri e con superficie interna di 120 mq, comodamente adagiato sulle sabbiose rive di un tale luogo ma costruito con legno e paglia, letteralmente incoronato da quello che potrebbe sembrare, a tutti gli effetti, un nido costruito da aviari colleghi del succitato visitatore. Grazie all’opera del celebre architetto ecologista Thomas Rau, grande promotore del concetto di economia circolare, e le congrue risorse finanziarie stanziate dal governo per il progetto di rivalutazione del territorio Dream Fund. Con un obiettivo, alquanto prevedibilmente, in grado di andare ben oltre la semplice decorazione del paesaggio. Poiché basta avvicinarsi dalla direzione dell’unico sentiero capace di condurci fin quassù, all’apice dell’Europa continentale, per ritrovarsi circondati dalle pareti di un tunnel seminterrato simile a una trincea nascosta, concepito per raggiungere la parte inferiore della struttura. All’ingresso dentro la quale, improvvisamente, essa dimostra immediatamente la sua struttura eclettica dall’alto grado di spettacolarità, con un sovrapposto incrocio di assi in legno di pino, ricoperte secondo l’antica metodologia dei costruttori dei caratteristici tetti di paglia olandesi, sovrastata da un oculo (foro verticale) da cui filtra la luce attraverso l’appariscente “nido” superiore, circondato da un alto camminamento circolare racchiuso dalle curvilinee pareti, oltre il quale scrutare grazie alla presenza di un’angusta nonché funzionale feritoia. Verso… Le acquose distese infinite… Le isole artificiali costruite ad uopo… E le affascinanti case di quei magnifici pennuti, in direzione dei quali sarebbe stato parecchio difficile, normalmente, avvicinarsi fino a un tal punto. Davvero un fantastico modo, per approcciarsi al concetto contemporaneo del tipico reality show…
natura
Chi è davvero lo scimpanzé che riesce ad usare Instagram?
In quel fatidico 8 gennaio 2007, colui che sarebbe stato definito un profeta salì sul palco del Moscone Convention Center di San Francisco, indossando un paio di jeans e il familiare golf nero a collo alto. Il pubblico, trattenendo il fiato, sapeva che stava per succedere qualcosa di trascendentale. Dopo la breve introduzione celebrativa di rito, Steve Jobs tirò fuori dalla sua tasca un misterioso oggetto rettangolare. “Bene, oggi stiamo per presentare tre prodotti senza precedenti. Il primo è un iPod con controlli touchscreen.” Un sussurro iniziò a correre tra la gente. “Il secondo, un innovativo sistema per la comunicazione su Internet.” Strilli sottovoce e timidi accenni a un applauso anticipato. “Il terzo, un rivoluzionario telefono cellulare” I giornalisti del mondo tecnologico che trattengono il fiato, con le nocche sbiancate per la forza con cui stringevano i braccioli delle poltrone. “… Però questi non sono tre dispositivi separati, bensì uno soltanto. Lo chiameremo… iPhone!”. Silenzio, per un interminabile attimo ricco di pathos. Quindi un suono unico che monta dai bordi della platea, per poi diffondersi in tutte le direzioni allo stesso tempo. Un boato a metà tra voci che si sovrappongono, sussulti eccitati, ululati lupeschi e il chiacchiericcio indistinto di una vasta famiglia di scimpanzé. Ciò che la gente in quel primissimo momento non poteva ancora comprendele, tuttavia, è che la forza epocale del nuovo cavallo di battaglia di Apple non risiedeva tanto nella miniaturizzazione e l’integrazione tecnologica, aspetti nei quali risultava inerentemente simile a molti dei suoi rivali, quanto nel rivoluzionario funzionamento della sua interfaccia: con icone grandi non più concepite per essere usate con il pennino, quanto piuttosto perfette da toccare coi polpastrelli, spostare, far scorrere sopra, sotto e di lato. Un’approccio alla gestione delle funzionalità digitali talmente facile che persino un bambino avrebbe saputo usarlo istintivamente. Un bambino, oppure…
Da quel momento e come sappiamo fin troppo bene, l’universo dei dispositivi informatici personali fu cambiato per sempre. E in un certo senso, dovremmo affermare che l’altro ieri ha subito la stessa mutazione anche nel mondo di quegli animali particolarmente intelligenti che ci assomigliano, nella composizione del loro codice genetico, fino a una percentuale di un clamoroso 96%. Ebbene nella maggior parte dei casi e fatta eccezione per esigenze poetiche, nessuno sarebbe propenso ad affermare di essere tanto simile a uno scimpanzé. Tranne in casi come quello comparso ieri sulla pagina Instagram del naturalista e proprietario dello zoo/riserva di Myrtle Beach anche detto T.I.G.E.R.S. (The Institute of the Greatly Endangered and Rare Species) Bhagavan “Doc” Antle, in cui l’esemplare maschio di nome Sugriva appariva intento a maneggiare con straordinaria maestria un odierno discendente di quel dispositivo con schermo che aprì la strada ai moderni smartphone, mentre scorre agilmente e quasi “per caso” i contenuti sul profilo di un altro promotore della conservazione animale, l’influencer statunitense Mike Holston. Ecco dunque una creatura animale, dotata di due mani e altrettanti pollici opponibili, che sembra perfettamente a suo agio nell’impiegare un dispositivo concepito per un umano, anch’esso dotato di due mani ed un pollice opponibile. Niente di così strano, in effetti, se non andassimo ad aggiungere il modo in cui la scimmia sembra comprendere quello che vede aprendo le foto più interessanti, ponderare per qualche secondo il loro significato, quindi premere back per tornare alla pagina principale. Con una sveltezza ed assenza di errori che in molti si sono dimostrati pronti a giudicare persino superiore a quella di un cittadino anziano dell’odierno villaggio informatico, ovvero uno di quegli individui nati, per sua sfortuna, ancor prima di quel vasto crepaccio che viene normalmente chiamato il digital divide. Ora io personalmente ho una teoria sullo svolgersi effettivo di una così sorprendente sequenza, ma prima di esporla, preferirei approfondire un attimo le ragioni e modalità del suo contesto. In merito al quale, come spesso capita, non manca un nutrito coro di accesi detrattori…
La società degli straordinari cactus incoronati
Attraverso le alterne peripezie del mondo, molto è cambiato: alcune cose le abbiamo perse, altre trovate. Talune, nel frattempo, hanno affrontato l’arduo sentiero del cambiamento, diventando radicalmente diverse nei loro fattori esteriori, pur avendo mantenuto la preziosa linfa custodita all’interno. Come il meristema cellulare di un alto arbusto, soggetto alle modifiche non sempre evidenti imposte dal suo contesto d’appartenenza, il sottile nastro del tempo si è esteso in ogni direzione possibile, spesso diametralmente opposte, trasformando i mostri in eroi. E viceversa. Eroi come il Carnegiea gigantea, l’impressionante cactus saguaro dei vasti deserti di Sonora e del Mojave, convenzionalmente paragonato a una mano aperta dall’altezza di 10-13 metri, protesa ad invitare lo sguardo imperituro dei cieli. Quale richiamo e quanti significati, nella stolida forma della sua vegetale esistenza, capace di estendersi e superare fino i due secoli di permanenza tra il consorzio dei viventi! E quante difficoltà, da superare: le radici parassitarie della pianta chiamata da queste parti prickly pear (Opuntia ficus-indica), il becco che scava per costruire i profondi nidi del picchio di Gila (Melanerpes uropygialis) e colpi di fulmine, gelo notturno, insetti divoratori e malattie batteriche, per non parlare della mano impietosa dell’uomo, pronto a sottrarre spesso abusivamente intere “braccia” o rami da vendere, al fine di trapiantarli altrove. Tanto che diventa lecito aspettarsi, tra gli esemplari abbastanza forti da aver raggiunto l’età in cui produrre frutti & fiori, che esista una classe di cactus in qualche modo diversi da tutti gli altri, mutati nella loro profonda essenza da una qualche specifica, misteriosa esperienza. William Peachey, scienziato indipendente dell’Arizona, li chiama in questo video prodotto dall’Ente Pubblico per il Turismo dell’Arizona “Icone che crescono sopra altre icone” per la loro capacità di attrarre nutrite schiere di curiosi e turisti, particolarmente quando si presentano caratterizzati dalla (s)fortuna di crescere in luoghi dignitosamente collegati dal punto di vista della viabilità. Ma il loro nome formale, per quanto ci è dato comprendere, riceve piuttosto l’aggettivo anglofono di crested (crestati) per analogia con una particolare casistica che il caso vuole, sia stata documentata nelle più diverse specie vegetali. Almeno, in linea di principio: poiché non c’è altra pianta al mondo che, sperimentando un simile processo di cambiamento, possa dirsi altrettanto spettacolare. Un tronco centrale ricoperto di spine che sorge dal suolo terroso, per estendersi in maniera del tutto convenzionale. Finché, a un’altezza variabile, qualcosa non cambia nella sua geometria della convenzione: i solchi caratteristici, creati dall’evoluzione per consentirgli di gonfiarsi nei rari periodi di pioggia nel suo ambiente di provenienza, che cessano di scorrere paralleli, iniziando intrecciarsi nel disegno di occulte figure celtiche dall’apparente arcano significato. Ricorrendosi l’un l’altro, mentre la forma stessa del saguaro diventa confusa ed incerta, ricordando quella di un candelabro tortuoso se non talvolta, una vera e propria corona. Il che resta, incidentalmente, ancora del tutto inspiegato dalla scienza. Sarebbe perciò assurdo pensare che soltanto una persona, per quanto eclettica come Mr. Peachey, possa aver scelto di fare omaggio di una parte considerevole del proprio tempo a studiare, e tentare di decodificare il mistero, di simili strani giganti. Laddove l’evidenza dei fatti, in effetti, finisce per raccontare una storia ben diversa…
L’impossibile primo balzo dell’oca artica dalla faccia bianca
Ciò che permette alla vita di evolversi, migliorare se stessa e adattarsi alle necessità primarie dell’esistenza. Dura lex, sed lex: poiché non può esservi alcun tipo di clemenza, dinnanzi al severo tribunale della natura. L’intangibile istituzione, più o meno divina, la cui direttiva principale può giungere a prevedere che anche il pulcino dell’oca artica, più graziosa ed inoffensiva delle creature, debba nascere col compito di affrontare un esame necessario al guadagnarsi il diritto di esistere in questo mondo. Ma non all’età di un anno, di un mese oppure una settimana. Bensì soltanto 24 ore (48 al massimo) dal momento stesso in cui mette la testa fuori dall’uovo, al fine di poter accedere alla sua unica, drammaticamente remota forma di sostentamento: la valle erbosa. E quando utilizzo siffatta metafora di tipo scolare, sia chiaro che intendo la più difficile prova sul sentiero di qualsivoglia creatura dotata di piume, becco e un gran paio di piedi palmati: staccarsi da terra e… Volare. Con un apertura alare di qualche centimetro? Senza neanche l’accenno di quegli alettoni direzionabili che sono le piume remiganti? In assenza di correnti ascensionali, reti di sicurezza o una piccola piscina per attutire il colpo, come avveniva in alcune esibizioni circensi dei primi del Novecento? Proprio così. Al punto che un termine maggiormente descrittivo, volendo, potrebbe essere individuato nell’espressione “cadere”. Come la scintillante sfera metallica di un flipper, con la scogliera al posto dei respingenti, e il numero di contusioni a influenzare il bonus dell’high score finale.
Il problema essenzialmente è sempre lo stesso: che per ciascuna nicchia ecologica o ambiente, lo stesso accennato processo genera non una, bensì un pluralità creature profondamente intenzionate a raggiungere il momento fondamentale dell’accoppiamento. Incluse specie carnivore, s’intende. Proprio come, nel caso dei remoti luoghi usati come siti riproduttivi dalla specie aviaria Branta leucopsis, “piccoli” problemi quali la volpe artica, l’orso polare e uccelli carnivori (ad es. gabbiani e stercorari). Il che ha portato ogni aspirante madre di un tale consorzio biologico a ricavare lo spazio per il nido in recessi progressivamente più inaccessibili della scogliera, lassù in alto, la dove il vento ulula e il sole abbaglia gli occhi di chiunque tenti di arrampicarsi attraverso l’impiego di metodi convenzionali. Ecco dunque, l’origine del dramma: poiché contrariamente al quasi ogni altra tipologia di uccello, l’oca non conosce alcun modo per trasportare la materia vegetale commestibile a portata del becco della sua prole, generalmente composta da 4-5 piccoli a stagione, il che comporta che essi, fin dal primissimo momento, debbano procurarsela da soli. Ma non c’è nulla, sulla scogliera, tranne sogni infranti e il vertiginoso baratro che sembra chiamarli, con insistenza potenzialmente assassina. Che cosa fare, dunque? La risposta è soltanto una. Le chance sono poche, pochissime. Ma sempre superiori allo 0% di qualunque pulcino dovesse essere abbastanza prudente, o folle, da scegliere di restare passivo fino all’inevitabile deperimento e lenta morte d’inedia…