Guardatevi, aspiranti visitatori di regioni centro-americane, dalla guida forestale honduregna che dovesse raccomandarvi di “cogliere il bianco frutto della pianta di heliconia“. Arbustiforme o erbacea dalle caratteristiche infiorescenze a cascata, spesso situate nella tipica configurazione della brattea, ovvero subito al di sotto delle sue grande foglie. Tanto che non sarebbe apparso niente affatto assurdo, per non dire improbabile, che quel caratteristico piccolo assembramento di forme tondeggianti e candide, ricoperte di peli, dovessero costituire l’equivalenza locale di un kiwi, pesca o rambutan. Provate soltanto ad avvicinarvi a questo ammasso, tuttavia, per scorgere qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi previsti: un indistinto, diffuso senso di movimento e non del tipo indotto da un’accidentale folata di vento. Bensì paragonabile al moto indotto da una qualche specie artropode simbiotica o parassitaria, come bruco, vespa o bestia similare. Se non che, all’analisi più approfondita, scoprirete come sia in effetti TUTTO il “frutto” a muoversi, non soltanto la sua scorza brulicante come nel caso di un fico, ancorché si tratta, nella sua interezza, di un qualcosa che dei fichi è solito mangiare la sua giusta dose. Un vero, bianco, irsuto pipistrello! Con il naso a foglia di un colore giallo paglierino (non per niente sono soliti chiamarlo Ectophylla alba) come le sue orecchie, così replicato in (minimo) cinque o sei esemplari, che all’avvicinarsi della vostra mano male informata, potrebbe anche scegliere di sollevarsi in volo. In quanto insolito rappresentante, con i suoi massimo 50 mm di lunghezza, dell’unico ordine di mammiferi a cui l’evoluzione abbia insegnato a farlo.
Mentre ciò che non tendiamo ad associare verso simili creature della notte, è l’innata propensione a costruire un qualche tipo di struttura, il più basico strumento di una qualsivoglia specie aviaria: il nido che protegge, nasconde e qualche volta, offre riparo, a queste latitudini battute dalla pioggia per moltissimi, umidi centimetri ogni anno. Ciò soprattutto perché, contrariamente ai tipici pennuti con i loro aguzzi becchi, non depongono le uova e non necessitano quindi del canestrello di rami e sterpaglie, in genere sostituito dal soffitto sdrucciolevole di una caverna. Ma che dire del pipistrello bianco dell’Honduras, che proprio in funzione della sua regione geografica di provenienza, non dispone di una simile opportunità? Si potrebbe persino affermare che il suo metodo sia l’UNICO possibile: librarsi fino al trespolo di una delle succitate foglie, lunghe generalmente tra gli ottanta centimetri ed il metro e venti. E quindi cominciare, con i propri denti piccoli ma aguzzi, a masticare lungo l’estendersi della sua venatura centrale. Finché quest’ultima, ormai del tutto priva dell’originale solidità strutturale, non finisca per piegarsi su se stessa in forza della gravità terrestre. Formando quella che viene definita in gergo una “tenda” ovvero il più perfetto rifugio dalle intemperie e in molti casi, anche lo sguardo pericolosissimo dei predatori. Senza mai dimenticarsi, ad ogni modo, del proprio ruolo nell’economia dinamica di tali circostanze…
natura
Spiagge rosse: l’esercito di mini-aragoste che sta invadendo la California
Per un tempo assai lungo si è pensato che la Luna, astro più grande e facilmente osservabile della volta celeste, potesse ospitare intere popolazioni di creature in qualche modo appartenenti al mondo della leggenda. Rettili o crostacei striscianti negli oscuri recessi dell’altra Faccia, con le caratteristiche di esseri più o meno intelligenti, capaci di prosperare in maniera totalmente distinta rispetto alla multiforme, brulicante società degli umani. Mostriciattoli che avrebbero un giorno, per ragioni largamente difficili da immaginare, disceso il lungo ancorché tenue collegamento costituito dal vasto spazio vuoto che ci separa, discendendo fili diafani come ragnatele, per venire a chiederci il conto dei molti secoli, o millenni di solitaria soddisfazione dei nostri bisogni. Ma la Luna non agisce soltanto in maniera diretta, possedendo in se stessa il potere d’influenzare, con la propria massa relativamente notevole, il moto ondoso delle maree. Ecco dunque il modo in cui da svariate decadi, a ogni volgere di un giorno propizio sul calendario, l’armata degli esseri d’oltremondo compare non più sulla cima di remote montagne, bensì presso la località di spiagge altamente rinomate, dove al ritirarsi della spuma oceanica questa presenza inusitata compare in tutta la sua orribile moltitudine. Più morta che viva e proprio per questo, maleodorante.
“Amico, com’è il mare oggi?” Chiede il giovane surfista al collega di ritorno da un pomeriggio di svago sotto lo sguardo attento di Nettuno: “Piacevolmente mosso ed accogliente. Ma sappi che sono tornati di nuovo i tuna crabs” Orrore. Dispiacere. Seguito da raccapriccio. Soprattutto per tutti coloro che amando ogni tipo di animale, non possono restare indifferenti dinnanzi al fascino lungo 9-10 cm di una creatura tanto sotto-dimensionata rispetto alla convenzione e proprio in funzione di ciò, capace di suscitare istintivamente il senso di perdita per molte, segmentate quanto incolpevoli vite. Stiamo parlando di un fenomeno, capace di fare la sua comparsa ancora una volta in questo periodo di giugno-luglio del 2019, già sperimentato da queste parti nel corso delle ultime due decadi (e forse anche prima) ogni qual volta la temperatura sale al di sopra di una certa soglia, spesso per il ritorno del fenomeno atmosferico noto come El Niño-Oscillazione Meridionale, che allenta almeno per mare il fatale confine percepibile tra la confederazione dei cinquanta Stati Uniti e l’assolata nazione messicana. Per cui spingendosi a settentrione della lunga striscia di terra della Baja California, enormi quantità del crostaceo composito denominato scientificamente Pleuroncodes planipes subiscono quindi le conseguenze di uno shock termico e la mancanza di cibo rispetto alle abitudini pregresse. Finendo spiaggiati, nonché morenti, a pochi metri di alcuni punti di aggregazione particolarmente cari alla popolazione locale. Vedi ad esempio la spiaggia dell’eponima Redondo Beach, cittadina ormai abituata a convivere periodicamente con il problema, facendo persino buon viso a cattivo gioco. Un po’ come gli astronomi del Mondo Antico, che in assenza di ausili ottici, dovevano supplire alle proprie manchevoli conoscenze mediante l’impiego della fantasia…
L’orso dello spirito, fantasma candido della foresta canadese
Totalmente solo nelle sue costanti peregrinazioni, l’orso nero americano è una creatura che non corre rischi, tranne quando necessario. Predatore/Raccoglitore/Pescatore, per cui il preciso andamento delle stagioni può fare la differenza tra la vita e la morte, mentre il mero movimento ai margini del proprio ambiente, di quella figura bipede con il fucile sottobraccio, può segnare l’attimo e il momento al termine del proprio viaggio tra i viventi. Ma vuole la leggenda, o totemica credenza delle antiche tribù, che una diversa manifestazione di questa creatura possa raramente rendersi apparente, tra i tronchi secolari di conifere svettanti, dal mantello candido come il lenzuolo che, per lo stereotipo internazionale dell’epoca contemporanea, rappresenta convenzionalmente un fantasma. Assolutamente terrificante. Poiché, per quanto ne sappiamo, non puoi uccidere ciò che è già morto. Del resto questo non significa che alcuni tentino di farlo, in maniera forse più indiretta, ma non meno priva di attenzione per le conseguenze di un tale gesto…
Uno dei momenti più importanti nella storia della più grande foresta temperata al mondo nonché l’immediato o meno prossimo futuro di questo intero pianeta può essere individuato probabilmente nell’estate del 2015, nella provincia nordamericana della Columbia Inglese, presso il corso argenteo del ruggente fiume chiamato dai nativi Wedzin Kwah. L’intero incontro, registrato per i posteri, si svolge come la sequenza di un film: da una parte gli ingegneri della Chevron, compagnia incaricata di costruire il controverso oleodotto transcontinentale da 1,23 miliardi del PTP, con gilet arancioni da lavoro, ed al seguito il tradizionale dono di acqua imbottigliata e tabacco, pronti a perorare la causa del progresso dinnanzi al popolo dei Wet’suwet’en, abitanti storici di questo luogo. Dall’altro gli anziani del clan Unist’ot’en, diventato in questi anni un importante baluardo dell’integrità naturale di un simile luogo, che ancora una volta rifiutano ogni proposta messa sul tavolo delle trattative, per quanto possa essere economicamente allettante, mentre la loro portavoce eletta elenca le molte ragioni per cui preservare l’integrità della natura dovrebbe essere un sacro dovere di tutti, non soltanto chi ne abita i recessi più incontaminati, ancorché puri. Entrambe le parti appaiono calme, eloquenti e straordinariamente dignitose, almeno fino al momento conclusivo in cui agli uomini venuti dalla grande città non viene lasciata altra scelta che riprendersi i propri ingombranti “regali” e caricarli con umiliazione dentro il fuoristrada, seguendo un copione molto chiaro nella mente di chi aveva posto una così anacronistica condizione prima del confronto.
Ora, per quanto ci è dato di sapere, nessuna grossa sagoma osservava un simile frangente dalla riva più distante, perfettamente immobile per non risaltare come un telo catarifrangente color crema chiaro. Eppure, se così fosse stato, mi piace immaginare in questo ruolo un vecchio e saggio esemplare di Ursus americanus kermodei, comunemente denominato moksgm’ol, o spirit bear. Benché in determinati ambienti accademici, la sua definizione preferita sia stata cristallizzata in Kermode (pron. Kermo-dee), dalla storpiatura fonetica del nome del naturalista e responsabile del Royal B.C. Museum della città di Victoria, Frank Kermode, primo a descrivere scientificamente le specifiche caratteristiche di un tanto raro, nonché relativamente sconosciuto animale. Capace anch’esso di pronunciare, con i gesti ursini se non le ringhianti parole, frasi sulla falsariga di: “Phew, almeno quest’oggi mi è andata bene. Ora, dove avevo visto ieri il più vicino casello di quell’autostrada per salmoni…?”
L’armatura della Tigre dentro una crisalide dorata
Per alcuni un frutto, secondo altri, una verdura. Ma per noi che ci viviamo sopra, 30, 35 bruchi a macchie bianche e nere, il pianeta ed una stella al tempo stesso, che permette di raggiungere il momento della verità. Duri e molli proprietari, al tempo stesso e in base alle diverse circostanze, delle alterne foglie della pianta di pomodoro. Per trasformazione/metamorfosi ovvero l’effettiva messa in essere, dello spirito dell’animale che realizza il sogno contenuto nel copione sussurrato nelle nostre antenne dalla voce impercettibile della natura: “Mangia, mangia e cresci, lepidottero dei territori tropicali, finché il tuo corpo non diventa inamovibile cristallo. Quindi diafano, poi traslucido e Volante.” Eppure statemi a sentire, miei fratelli dalle corte protozampe e quei sericeri grondanti filo appiccicoso, quando dico che il pericolo si annida selle nostre teste. In modo totalmente letterale, soprattutto al principiar d’estate, quando i piccoli d’uccello si trasformano in fameliche creature, pronte per piombare ai margini della coscienza, facendoci a brandelli l’uno dopo l’altro, fino a sazietà. E soprattutto ricordate di essere brillanti. Splendidi ed appariscenti, come furono, prima di noi, innumerevoli generazioni dei predecessori. Poiché là dove il volatile o il nemico ragno, la scimmia insettivora del Centro America e altre orribili creature, mangiano una cosa verde o gialla senza nessun tipo d’esitazione, un tutt’altro tipo di racconto può venire dall’avvistamento di costoro della nostra schiatta, che raggiunta l’era della prima metamorfosi, presentino la loro stessa immagine riflessa grazie allo splendore… Del metallo!
Sulle crisalidi d’oro Internet si è espressa in vari tipi di frangenti, con il classico stile memetico e approssimativo delle “immagini shock” create per i social, blog e gli altri enumeratori di piccole pillole d’intrattenimento. A partire dall’affermazione, totalmente priva di senso, secondo cui le larve delle farfalla Mechanitis polymnia o Tithorea harmonia possiederebbero l’inusitata capacità di consumare particelle di metallo (prelevate non si sa da dove) per integrarle nella costruzione del loro “bozzolo”. Benché tale tipo di pupa protetta dal filo di seta, totalmente differente dalla crisalide che è frutto dell’indurimento del bruco stesso, sia piuttosto associata alle specie imparentate alla lontana che rientrano nella categoria delle falene. Come altrettanto illogica sembrerebbe, senza neppur tentare l’impossibile ricerca scientifica in materia, l’utilizzo leggendario di simili piccoli animali, usati a guisa di valuta da un presunto e non meglio definito “popolo antico” (forse dovrebbe trattarsi degli Olmechi?) Quando l’evidenza c’insegna come, una volta che il bruco ha completato la propria trasformazione, la crisalide diventa estremamente fragile, tanto da andare in pezzi non appena viene presa in mano senza la necessaria cautela. Ecco, dunque, l’effettiva verità: determinate tipologie di farfalle neotropicali originarie di Nicaragua, Costa Rica e Panama si vestono d’oro nel periodo maggiormente statico della loro vita, non per attirare sguardi ammirati, bensì al fine di respingere tutte quelle creature che, immediatamente sospettose, le scorgono al di sotto delle foglie delle soleneacee (patata, pomodoro, melanzana et similia) sotto le cui foglie riescono a schiudersi le rilevanti uova. Il che del resto, sembrerebbe in effetti riconducibile a un valido senso d’autoconservazione…