L’albero capace di uccidere 80 uccelli nel corso di una sola stagione di fioritura

Una delle principali tendenze della natura è l’evoluzione: superata è l’immagine del demonio con la coda, il forcone e un ghigno malefico semi-nascosto dalla folta barba, ormai troppo facile da identificare per tenersene a una rispettosa distanza di sicurezza. Tutto scorre. Al punto che oggi, un competente accompagnatore di esseri malcapitati oltre le porte fiammeggianti dell’inferno può trovarsi nascosto in ogni contesto, con la capacità di mimetizzarsi perfettamente tra i fattori delle circostanze ed il paesaggio. Prendi quindi ad esame le isole rigogliose delle Seychelles, nella parte orientale del mare della Somalia, e troverai il principio esiziale inframezzato proprio con ciò che qui ha una maggiore presenza tra queste terre, sotto la corteccia protettiva di un tronco flessibile, non troppo alto e resistente, dal nome piuttosto singolare: Pisonia grandis in lingua latina o più comunemente “grande artiglio del diavolo” per la sua capacità di accompagnare, agevolare ed in qualche modo aprire il passaggio a vantaggio della Morte. Ma non è lui l’angelo bensì ciò che agguanta e consuma incolpevoli creature alate, ovvero quegli stessi pennuti marini che tanto spesso figurano sulle guide naturalistiche, come specie preziose da custodire e catalogare con la maggior cura. Ma invero il fato è ineluttabile, così come spietati sono i suoi agenti su questa Terra che includono l’imprescindibile rapporto tra causa ed effetto; che immancabilmente condanna a una fine lenta ed orribile, tutti coloro che si trovano presi all’interno di una simile ragnatela.
Il paragone aracnide non è del resto per nulla inappropriato, benché l’intento inerente possa essere individuato in un’area soltanto… Simile. In altri termini, l’albero dalla natura piuttosto malvagia non “mangia” gli uccelli, ma piuttosto sembrerebbe cercare di sfruttarli con uno zelo a dir poco eccessivo, per portare a termine il suo principale compito nel corso dell’esistenza: propagarsi al di là del mare. E poiché gli alberi non possono spostarsi è del tutto prevedibile che ciò sottintenda, come di consueto, il reclutamento più o meno volontario di coloro che hanno l’intento ed un valido incentivo a farlo. Ma in qualche momento della sua storia biologica pregressa, qualcosa di molto significativo deve aver imboccato una strada sbagliata, se è vero che il sistema usato dal Pisonia per far trasportare i suoi semi include baccelli oblunghi appartenenti alla categoria dei falsi frutti (come la fragola, il fico ed il cinorrodo della rosa) caratterizzati da un involucro letteralmente ricoperto di piccoli uncini e una resina mostruosamente appiccicosa. Talmente terribile che non può fare a meno, una volta toccata accidentalmente da un volatile, di diventare un tutt’uno sostanzialmente inscindibile dalle sue piume, per un periodo variabile tra qualche giorno e svariate settimane. Ora di conseguenza, ogni qualvolta i poveri volatili come la terna bianca di mare (Gygis alba) la sterna stolida nera (Anous minutus) o la berta cuneata (Ardenna pacifica) si ritrovano ricoperti di uno, due o tre contenitori di semi, le cose possono anche andare bene. Ma se si stabiliscono col proprio nido, come spesso capita, alla biforcazione dei rami più alti, l’artiglio del diavolo otterrà immantinente la più crudele e terribile delle soddisfazioni. Con il volatile che gradualmente diventa più pesante e meno capace di librarsi, finché nell’ora della sua sventura finale cadrà in terra, finendo a contatto diretto con lo spesso strato di pseudo-frutti deposti tutto attorno all’albero madre. Assieme alle piccole ossa cave, piumate e sbiancate dall’aria salmastra, di tutti quei volanti che già sono tornati a incontrare il loro disinteressato creatore. Grazie all’aiuto di carnivori e spazzini di queste parti, come i sempre famelici granchi del cocco (Birgus latro) o della foresta (Seychellum alluaudi)…

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Nasce forte nello zoo di Naples (FL) lo striato cucciolo del bongo

Cervocapra è lo strano connubio di termini, a suo modo esplicativo, che ci aspetteremmo di trovare tra i bestiari di una serie fantastica come Harry Potter o il Signore degli Anelli. Nonché la traduzione letterale, dalla lingua latina, del nome generico Tragelaphus, che assieme alla dicitura eurycerus, identifica la specie notturna cui appartiene questa distintiva creatura, immediatamente riconoscibile tra il gruppo variegato delle antilopi africane. Naso a punta di colore nero, corna geometriche e ritorte, zampe forti, grandi orecchie con la parte frontale a macchie, un folto pelo di colore rosso attraversato da una serie irregolare di candide strisce, con l’evidente scopo di assistere l’animale nel mimetismo. Nient’altro che un’antilope, e nient’altro che la più imponente e rara in tutto il continente africano, soprattutto nell’accezione rappresentata dalla qui presente varietà T. e. isaaci o bongo di montagna, che sul finire di febbraio ha visto la sua intera popolazione mondiale aumentare in un sol colpo di circa lo 0,7%. Per una collettività distribuita, prevalentemente, all’interno degli zoo e riserve disseminate per il mondo, mentre soltanto pochissimi esemplari restano allo stato brado tra i nativi massicci del Kenya, causa lunghi anni di caccia, persecuzione e soprattutto abbattimento sistematico delle dense foreste d’altura che costituiscono il suo naturale habitat d’appartenenza. In questo senso il rigoroso programma di tutela della principale istituzione zoologica della cittadina statunitense di Naples, sobborgo meridionale di Fort Myers in Florida, si trova qui ampiamente messo in mostra grazie all’ultimo successo conseguito nel far riprodurre in cattività, ed in tal modo prolungare l’esistenza di una simile leggenda vivente tra i ruminanti del nostro insostituibile pianeta.
La piccola femmina di nome Amali, parola che significa “speranza” in lingua Swahili, viene quindi mostrata mentre interagisce con la madre soltanto uno o due giorni dal momento della nascita, con un peso complessivo già in grado di aggirarsi attorno ai 20 Kg e un’altezza non trascurabile di 0,6 metri. Evidentemente pronta, qualora se ne presentasse la necessità, a fuggire istantaneamente tra i cespugli che da tempo immemore hanno offerto ai suoi antenati l’occasione di nascondersi o far perdere le tracce, che includono leopardi, iene e in qualche caso più raro, i leoni. Benché questi ultimi, data la preferenza per la vita di pianura, siano soliti nutrirsi piuttosto della varietà assai più diffusa di quest’antilope, quella T. e. eurycerus dal colore meno acceso, e dimensioni lievemente superiori, di cui restano in vita una quantità stimata tra i 15.000 e i 25.000 esemplari adulti. Non che ciò basti a renderla particolarmente famosa al di fuori del suo vasto territorio d’appartenenza, che include il Congo, la Costa d’Avorio, la Guinea Equatoriale, Gabon, Ghana e Sudan meridionale, facendone essenzialmente soltanto uno tra i molti animali trascurati del più biodiverso continente globale, continuando a far salire il grado di minaccia per un mantenimento complessivo degli spazi necessari alla sua continuativa sopravvivenza. Che tendono a presupporre, causa la specifica collocazione ecologica dell’animale, caratteristiche ed un’estensione tutt’altro che flessibili, incrementando ulteriormente le inerenti problematiche di una specie che potrebbe vedere peggiorare a breve la sua classificazione nell’indice delle specie in pericolo classificate dall’ente internazionale dello IUCN…

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Lo svelto animale che poteva nascere soltanto sotto il sole abbagliante della Patagonia

Perfetta unità di tempo e luogo. L’astro allo zenith illumina dall’alto le cocenti rocce della montagna. L’aria sferzante del vento proveniente dai mari del Sud, formando vortici, rincorre se stessa con casualità evidente tra le asperità consequenziali del paesaggio. Eppure l’aria sembra carica di aspettativa, a dimostrazione che qualcosa d’importante stava per accadere in quel novembre attentamente individuato sull’inesorabile marcia del calendario. Come se la sagoma marroncina dal lungo collo posizionata in modo da stagliarsi contro l’azzurro cielo, concentrando tutte le sue forze ed ottime speranze per l’estate, stesse per celebrare un rito fondamentale ed antico: quello che avrebbe condotto, senza falle né contrattempi, verso l’immortalità della sua stessa specie.
Cammello? Pecora alta due metri? Cervo? Cavallo? Adesso provi ad ascoltarmi per qualche minuto: le sto dicendo che non troverà una soluzione migliore, neanche si facesse costruire l’animale su misura. Quanto stiamo per mostrarle è snello, agile, ma anche grosso e resistente. Al punto che nessun predatore, neanche il più temibile, potrà pensare di sfidarlo, senza rischiare letteralmente l’osso del collo. Il Lama guanicoe, come sono soliti chiamarlo nel Dipartimento Erbivori, è talmente ben adattato alla vita nell’ambiente andino da poter quasi affermare che gli sia stato cucito letteralmente addosso, alla stessa maniera in cui gli occasionali “clienti” umani erano soliti realizzare abiti, cappelli ed ornamenti con la sua pregiatissima lana. Almeno fino alla trasformazione in animale domestico e la graduale deriva genetica verso quello che oggi siamo soliti chiamare Lama glama o più semplicemente IL lama. E lei potrà decidere di fare altrettanto, in base alle specifiche esigenze del caso, ma è importante notare come ciò in effetti rappresenti al massimo il 50% delle potenzialità sul piatto di questa rara offerta. Poiché come creatura selvatica conforme al progetto originario, ancora oggi diffusa nelle ampie distese meridionali del Nuovo Mondo, il guanaco è perfettamente in grado di sopravvivere sfruttando unicamente le proprie forze, in un vasto areale che si estende in modo naturale tra Perù, Bolivia, Cile, Patagonia e Paraguay. Senza che niente o nessuno possa efficacemente porsi innanzi alla prolungata esistenza della sua efficiente specie. A parte il freddo, s’intende. Nient’altro che un rischio calcolato, s’intende, lei non deve assolutamente preoccuparsi! Trattasi di una caratteristica di poco conto, o se vogliamo addirittura una questione affascinante, che distingue il guanaco dai quadrupedi suoi concorrenti nella grande marcia dell’evoluzione quadrupede sul pianeta Terra. Perché ecco, vede, pare che la lunghezza della sua lingua sia stata calcolata secondo linee guida non del tutto conformi alle norme imposte dal progetto. Ovvero in altri termini, osservando la questione dal lato opposto, le sue labbra sono un po’ troppo prominenti, impedendo alla madre di leccare il cucciolo successivamente al parto. Il che significa che soltanto una, tra le possibili forze innate della natura, può contribuire effettuando questo importantissimo passaggio successivamente alla sua caduta nella valle dei viventi. Ciò che ci saluta, da lassù in alto, all’inizio di ogni infuocato giorno della nostra complicata esistenza…

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La vera storia delle pulci che si affollano sui cumuli di neve

Fresca, dolce, chiara ed attraente stracciatella. Chi non ama dare un morso a quel gelato? Chi non vuole assaporare il voluttuoso gusto dell’estate? Ma in inverno il ghiaccio è solamente quello: ciò che guardi ma non tocchi, mantenendo quel contegno gelido e distante. Acqua congelata, vade retro, piuttosto che subire lo scivolamento resto a casa! Io, l’umano… Ma se fossi nei tuoi panni chitinosi, in linea puramente ipotetica, piccolo collembolo del sottobosco offuscato dall’effetto della luce che riscalda, non esiterei ad emergere in siffatto modo. Strisciando, danzando, amando nel mio modo la stagione. Assieme a qualche migliaio, se non dieci volte tanto, dei miei simili dagli occhi spalancati, scagliosi e zampettanti come il mostriciattolo di un vecchio sparatutto della sala giochi.
Il bello di questi entognati esapodi facenti parte del gruppo dei Paraentoma, assieme ai Protura e Diplura, è che nonostante le apparenze non appartengono affatto alla grande classe degli artropodi che prende il nome d’insetti. Né a quella degli aracnidi, benché abbiano abitudini ragionevolmente comparabili a quella dei cari amici acari, inquilini inevitabili delle nostre case. Giungendo quindi ad occupare, piuttosto, un ramo meramente parallelo del grande albero della vita, che nonostante le apparenze vanta un periodo d’esistenza almeno abbastanza antico, se non addirittura antecedente al resto del consesso artropode macroscopico. Databile, in buona sostanza, fino al periodo Devoniano (416 – 359 milioni di anni fa) come ampiamente dimostrato grazie al ritrovamento di esemplari fossili all’interno dello strato geologico del Lagerstätte di Rhynie, in Scozia, perfettamente immortalati alle alte pressioni dei processi trasformativi del sottosuolo. Del tutto riconoscibili, coi loro tre segmenti toracici, sei addominali del il protorace sporgente, simile alla testa di un vertebrato quadrupede dei nostri giorni. Ponendo le basi per un valido termine di paragone occasionalmente ripetuto, che vedrebbe i detritivori springtail (nome comune anglofono significante “coda molleggiata”) associati ai conigli della tranquilla campagna inglese, tanto inoffensivi quanto prolifici, che senza nessun predatore a regolamentarne il numero popolerebbero semplicemente l’intero spazio disponibile, replicando ad infnitum la loro perfettisima identità evolutiva. Il che assume proporzioni nettamente più serie, quando si considera come questi esseri costituiscano in maniera collettiva una delle biomasse maggiormente significative dell’intero pianeta Terra, con una densità capace di aggirarsi occasionalmente attorno ai 100.000 esemplari per metro quadro. Riuscendo a sostituire l’immagine della stracciatella con la visione fantascientifica della temibile “poltiglia grigia”, l’ipotetico agglomerato di nanomacchine sfuggite al controllo, destinate ad invadere e divorare tutto quanto. Esagerato? Senz’altro. Ma non privo di una certa base nella percezione ecologica di questi animali, che dal nostro punto di vista ci sono sempre stati, e senz’ombra di dubbio riusciranno a sopravvivere alla nostra transitoria civiltà umana. I collemboli sono del resto, a diffusione cosmopolita, benché i loro ambienti preferiti debbano necessariamente sottintendere un certo grado di umidità, a causa del loro sistema respiratorio basato sulla traspirazione, particolarmente inefficiente durante i periodi successivi alle frequenti mute. Però posseggono almeno un utile strumento per resistere all’assalto dei predatori: l’arto mobile posizionato al centro del loro addome, simile a una coda ma girato in avanti, che prende il nome di forcula e si trova normalmente posizionato a ridosso del corpo. Finché la creatura non rileva un qualche tipo di pericolo e senza particolari esitazioni, lo fa scattare in modo estremamente rapido verso il basso, balzando in aria per un’altezza nell’ordine dei 10-20 centimetri, pari a svariate centinaia di volte la lunghezza del loro corpo. In altri termini, un’impresa paragonabile a quella di uno di noi che all’improvviso decidesse di scavalcare in un sol balzo la torre Eiffel. Per poi far ritorno, senza attarsi, nel suo esatto punto di partenza. Poiché primaria è per questi esseri, la distribuzione in determinati recessi dello spazio naturale…

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