La silenziosa torre meccanica dell’eterno riposo edochiano

Non è soltanto una questione di nutrire gli stereotipi, benché qualcuno proverà soddisfazione nel trovarli perpetrati in questo genere di soluzione: la società del Giappone contemporaneo, costituita da un popolo che ama coniugare tecnologia e tradizione, che vive in terre anguste, traendo il massimo dall’integrazione degli spazi e soluzioni abitative. Che riesce a individuare il lato positivo dalle situazioni spiacevoli, finendo sempre per costruire qualcosa di nuovo, funzionale ed altrettanto utile allo scopo di partenza. Come quando nell’ottobre del 2017, il grande terremoto del Giappone Orientale non distrusse parzialmente l’antica struttura lignea del tempio di Shinkyoji a Kuramae, distretto periferico della colossale megalopoli di Tokyo, nota come Edo all’epoca dei samurai. Occasione presto colta dal clero Buddhista incaricato di custodirlo, evidentemente non privo di risorse pecuniarie o validi presupposti di finanziamento, per costruire nello stesso sito un imponente condominio multi-piano, quasi totalmente privo di finestre fatta eccezione per quelle della scala principale. Ciò in funzione dello scopo principale a cui aveva il destino di essere adibito: custodire, proteggere e rendere raggiungibile la più alta quantità di ceneri dei defunti, intesi come venerande spoglie mortali nell’intero contesto interreligioso del Sol Levante. Non che chicchessia abbia mai pensato di esprimere dubbi, sul fatto che la dottrina fondata sugli insegnamenti di Siddhārtha Gautama sia da sempre la più valida in Estremo Oriente, nel presentare un approccio nel relazionarsi coi propri cari defunti grazie all’ampia serie di rituali, discipline e ricorrenze dedicate alla loro celebrazione imperitura. Non ultimo il più semplice ed universali tra i passaggi, di recarsi a visitare il sepolcro regolarmente, un dovere che comunemente viene attribuito al figlio maggiore di ciascuna generazione, benché ciò tenda a costituire un’impossibilità nell’incedere complesso del moderno stile di vita urbano. Ed è proprio per rispondere a tale contraddizione, che entra in gioco l’ingegnosa nuova concezione iper-tecnologica dello Shinkyoji, istituzione già famosa per il proprio cimitero tradizionale, ormai sovraffollato da tempo. Grazie al suono roboante che riecheggia nell’interno delle sue pareti, la diretta risultanza di un articolato braccio meccanico, guidato da un sistema informatizzato paragonabile a quello di un centro di smistamento postale. Una similitudine che non vuole certo sminuirne la sacralità, quanto piuttosto introdurre il discorso di COSA e COME diventa oggi realizzabile, grazie al superamento di determinati stereotipi o gravosi preconcetti ereditati.
Così la signora Masayo Isurugi, protagonista del servizio che accompagna l’internazionale trattazione giornalistica di tale luogo, saluta la reception per recarsi all’ascensore, tramite cui raggiungerà il piano deputato. Quindi percorrendo un lungo corridoio, farà il suo ingresso nella stanza con il lettore automatico di QR Code: finché una voce registrata “Prego scansionare la tessera” (prima d’iniziare a ricordare) sarà il segno chiaro d’iniziare l’intrigante e innovativa procedura. A seguito della quale, il grande mostro meccanico che vive nell’ossario provvederà a recuperare l’urna contenente le ceneri di suo marito. Per posizionarla convenientemente dietro la tradizionale lapide in pietra di Ōya, del tutto indistinguibile da quelle di un cimitero. Immagini del caro estinto appariranno sullo schermo apposito. Mentre l’incenso, fornito in automatico dal tempio, provvederà ad avvolgerla nel fine aroma della preghiera. Davvero molto conveniente…

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L’avveniristico robot umanoide creato per effettuare la manutenzione delle ferrovie giapponesi

“Le gambe… Sono soltanto una decorazione, ad ogni modo” affermava con la canonica sicurezza l’eroe oscuro Char Aznable, rivale del protagonista terrestre Amuro Ray, poco prima della battaglia per porre fine alla guerra durata un anno, presso la base asteroidale di A Baoa Qu. Di fronte a lui, il titanico mobile suite da combattimento MSN-02 Zeong, costruito al fine di massimizzare i suoi riflessi e potenzialità mentali superiori, tipiche degli umani geneticamente adattati all’assenza di gravità noti come Newtype. Un mezzo da combattimento che sarebbe stato imbattibile in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo di completarlo. Ma che pur completamente privo degli arti inferiori, avrebbe dato notevole filo da torcere al nemico fluttuando nello spazio cosmico, finendo per distruggersi a vicenda col temuto RX-78-2 Gundam, eponimo robot della serie. E dopo tutto, anche in linea di principio, come dargli torto? Dopo gli oltre 40 episodi, in cui più volte il co-protagonista Hayato Kobayashi era venuto in aiuto della causa comune, ai comandi dell’ormai obsoleto Guntank, macchina d’artiglieria umanoide capace di spostarsi unicamente su una coppia di cingoli, secondo le linee guida di un comune carro armato. Ma il concetto che una tale soluzione debba necessariamente costituire un compromesso, rispetto alle movenze più “eroiche” dei robot dotati della stessa quantità di arti degli esseri umani, deriva da sensibilità tipicamente appartenenti al mondo creativo e fantastico, dove una particolare estetica dei partecipanti al dramma determina il destino delle loro gesta nel dipanarsi della vicenda. Laddove nel mondo artificiale come quello creato dall’evoluzione della biologia, ogni essere viene al mondo con uno scopo, da cui deriva l’ottimizzazione delle proprie caratteristiche inerenti.
Il che è compreso molto bene nell’ambito della moderna società giapponese, dove fin dall’immediato dopoguerra la tecnologia dei nostri giorni è vista come uno strumento privilegiato, utile a risolvere i problemi di questo mondo ed agevolare l’inizio di una nuova epoca, il cosiddetto Secolo Universale immaginato da Yoshiyuki Tomino, autore ed ideatore della serie pluri-generazionale del robot Gundam. Perciò chi meglio di loro, le Ferrovie di Stato (JR – Japan Railway) poteva mostrare l’andamento futuro di un tale percorso, grazie all’implementazione dimostrativa di un sistema che non è soltanto marketing, ma una sincera applicazione utile a risolvere un ostacolo per nulla trascurabile allo svolgimento delle sue mansioni: la quantità statisticamente rilevante d’incidenti annuali, che tendono a verificarsi durante gli interventi per la sostituzione e riparazione della segnaletica, delle stazioni e i tratti di ferrovia soggetti a maggiore usura, fino ad oggi effettuati con notevole dispendio d’energia umana, proprio perché il tipo di precisione richiesta risulta essere maggiore di quella posseduta da una macchina… Convenzionale. Ed è qui che entra in gioco la Kabushikigaisha hito-ki ittai (株式会社人機一体 – Letteralmente: Human Machinery Inc.) compagnia startup nata in grembo all’Università di Kyoto Ritsumeikan nell’ormai remoto 2007, originariamente al fine di creare macchine robotiche per la manutenzione nel vuoto spaziale. Almeno fino all’approdo in tempi recenti ad una collaborazione con la Nippon Signal, importante fornitrice di servizi della Japan Railway. Per la creazione di un nuovo, perfetto (gigantesco) tipo di operaio ferroviario…

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L’occhio museale finalmente inaugurato per scrutare verso l’indomani di Dubai

In una scena che pare prelevata direttamente da un film di fantascienza, l’oggetto toroidale sorto all’ombra del grattacielo più alto del mondo viene avvicinato progressivamente da un velivolo dall’aspetto inconsueto. Simile ad un drone, ma dotato di propulsori direzionabili a piacere, che in base al rumore si capiscono funzionare grazie ad una qualche applicazione avveniristica del principio aeronautico del jet. Quando giunti a una distanza sufficientemente ravvicinata, la parte superiore dell’anello si solleva, letteralmente, poco prima d’iniziare a scorrere di lato: l’edificio, a questo punto, è aperto. L’oggetto volante non meglio identificato vi atterra all’interno. Dopo qualche attimo di attesa particolarmente pregna, l’elemento apribile ritorna al suo posto. Non v’è alcuna traccia di eliporto, sulla sommità dell’ultimo edificio stravagante della capitale del divertimento, Dubai. E se vi sembra una visione lievemente troppo avveniristica, direi che siete sulla strada giusta per quanto concerne l’aspetto logico, ma non quello tematico o concettuale. D’altra parte quello che stavate immaginando è un trailer ufficiale, largamente sanzionato dalle autorità cittadine, del nuovo, spettacolare Museo del Futuro nel Distretto Finanziario, creato per incrementare ulteriormente le attrattive turistiche di uno dei luoghi già più visitati al mondo. Le ricchezze date dal petrolio, d’altra parte, debbono esaurirsi a un certo punto degli eventi. Non così la fama è la celebrità di un luogo, se ciascun tassello di un preciso piano scivola al suo posto, realizzando l’effettiva forma di un gioiello inimitabile dall’una o l’altra parte dell’intero Mondo Arabo, e non solo… Brillante che necessità, come da copione, la possibile collocazione di un anello, che sia sufficientemente grande, o significativo, da poter riuscire a sostenerlo. Ecco a voi, per questo, l’opera dell’architetto Shaun Killa, al debutto col suo studio cittadino Killa Design e che parrebbe essere riuscito a far partire la carriera indipendente dalla vetta, che può provenire unicamente dalle conoscenze, la bravura e la validità delle proprie idee, capaci di sconfiggere ogni possibile proposta alternativa ad un concorso di portata internazionale. Coi meriti di un risultato che, in maniera certamente soggettiva, può essere ammirato dagli occhi di noi tutti ma difficilmente mancherà di suscitare un certo senso di stupore e meraviglia. Quanto spesso capita di vedere una creazione simile a una vera e propria stazione spaziale, ricoperta d’improbabili iscrizioni calligrafiche in lingua araba, che costituiscono nei fatti le sue uniche finestre aperte verso l’esterno? Una struttura possibile soltanto tramite l’applicazione di tecniche architettoniche assai particolari, capaci proprio in tal modo di offrire una via d’accesso alternativa, pratica e tangibile, all’argomento principale trattato all’interno dell’edificio stesso. Ovvero: (se tutto continua come dovrebbe) dove saremo tra 100, 1.000, 10.000 anni? Non il mero incipit di un testo da romanzo di genere, in questo caso. Bensì l’apprezzabile base di partenza per una serie di allestimenti e mostre multimediali di robotica, ingegneria, urbanistica e l’occasionale accenno trasversale al transumanesimo, che non guasta mai. Dopo tutto, quale miglior modo esiste per riuscire a superare le attuali fisime del mondo contemporaneo, che modificare le stesse limitazioni biologiche della nostra esistenza sulla Terra?

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Un artiglio porto dal minuto formichiere per cambiare il triste fato della tigre tasmaniana

Nei diari scritti all’epoca dal celebre studioso della cultura aborigena George Fletcher Moore, tra i primi coloni d’Australia, è possibile leggere in corrispondenza del giorno 22 settembre 1831 presso la valle del fiume Avon: “E poi vedemmo un magnifico animale; ma, mentre scappava nel cavo di un albero, non fu possibile accertare se si trattasse di uno scoiattolo, una donnola o un gatto…” E il giorno successivo, nel suo racconto di una grande spedizione naturalistica sotto il comando dell’esploratore Robert Dale: “Ne abbiamo inseguito un altro esemplare fino alla sua tana, dove l’abbiamo catturato. Dalla lunghezza della lingua pensiamo possa trattarsi di un formichiere. Ha strisce bianche e nere sulla schiena; misura circa 12 pollici (30 cm)”. Ma difficilmente osservando il suo rudimentale disegno, incluso ai margini della narrazione, avrebbe potuto rendere l’idea, per chi non lo conosceva direttamente, dell’aspetto strano e strabiliante di quello che cinque anni dopo avrebbe ricevuto l’appellativo scientifico di Myrmecobius fasciatus, sebbene non mangi affatto formiche bensì termiti e tutti siano oggi soliti chiamarlo più semplicemente numbat, dal suo nome aborigeno e per una possibile analogia con il ben diverso marsupiale wombat (Vombatidae) con cui risulta d’altra parte imparentato soltanto molto alla lontana. Laddove la sua specifica collocazione all’interno della famiglia dei dasiuridi o “topi marsupiali” lo colloca nel grande albero della vita, quasi paradossalmente, come creatura vivente più vicino ad una delle più rinomate e compiante vittime dei multipli progressi d’estinzione dell’Olocene: il povero tilacino, T. cynocephalus o tigre tasmaniana. Dal che un’idea, senz’altro avveniristica, pubblicata in questi giorni dall’Università dell’Australia Occidentale grazie al laboratorio Aiden della Scuola Baylor di Medicina (BCM) capace di sfidare l’immaginazione letteraria di un romanzo sulla falsariga del celebre Jurassic Park. In senso pratico e assolutamente letterale: creare geneticamente dal nulla un essere scomparso dal pianeta Terra. Grazie al DNA imperfetto ricostruito da un esemplare preservato nel museo di Victoria, completato e perfezionato da una fonte certamente imprevista. Ed è qui che entra in gioco il piccolo formichiere incontrato da Moore, due secoli dopo anch’esso a rischio d’estinzione con appena 1.000 esemplari allo stato brado e tutti concentrati in una parte minima del suo antico areale. Perché grazie alla nuova mappa creata del suo genoma, con strumenti moderni, efficienti e precisi, si giunti alla sorprendente conclusione di un codice effettivamente identico a quello del suo defunto cugino per un buon 95% del totale. Ovvero abbastanza da poter dare in pasto ai tecnici delle sofisticate tecnologie CRISPR, basate sulle manipolazione batterica, capaci di modificare ed instradare il normale sviluppo genetico di una creatura. Il che ci porta all’incombente possibilità futura, analoga a quanto sta per accadere nell’ibridazione e conseguente ritorno del mammut con l’elefante asiatico, a una possibilità superiore allo zero di poter riuscire a “de-estinguere” un essere che avevamo dato per perduto ormai all’umanità. Qualcosa di al tempo stesso esaltante e ecologicamente utile, per il ruolo un tempo avuto dal più grande ed importante tra i carnivori dell’intero continente d’Oceania…

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