L’eleganza dell’uccello che calpesta i serpenti del Serengeti

Provate ad immaginare un’aquila senza la capacità di piombare dall’alto sulle sue prede, per afferrarle mediante l’impiego di forti e affilatissimi artigli. Che cosa resta? Un uccello di grosse dimensioni e scaltro, agile nei movimenti. Dal becco impietoso e la vista particolarmente acuta. Ora poiché una simile creatura, che nei fatti esiste veramente, non è il prodotto di una mistica stregoneria, essa deriva da una linea ereditaria di millenni, che l’hanno portata a sviluppare altre caratteristiche di primaria rilevanza: di cui la prima, e la seconda, sono zampe lunghe come quelle di una cicogna, ma molto più spesse, forti e muscolose. Siamo nell’Africa subsahariana, in un vasto areale che si estende dalla Mauritania al Capo di Buona Speranza, benché l’uccello segretario (Sagittarius serpentarius) non abbia propensioni migratorie nonostante l’abilità nel volo, né una particolare capacità di diffondere la propria stirpe alla nascita delle nuove generazioni. Esso semplicemente esiste, con enfasi invidiabile, grazie ai particolari adattamenti di cui dispone per la vita nelle vaste pianure aride o la vera e propria savana. Si potrebbe, essenzialmente, affermare che il suo ruolo ecologico corrisponda a quello del roadrunner (Geococcyx) dell’entroterra americano o il pavone (Pavo/Afropavo) d’Asia, nutrendosi primariamente d’insetti e piccole creature che camminano, strisciano oppure scavano nel sottobosco. Con una significativa differenza, che in effetti finisce per cambiare molte cose: la necessità di riuscire a gestire i serpenti. Perché il tipico rettile strisciante, come principale metodo di autodifesa, sfrutta il suo stesso corpo lungo e sinuoso, la cui morfologia rende inerentemente complesso qualunque tentativo di ghermirlo e farlo a pezzi prima che riesca a colpire almeno la prima volta. Il che nei fatti, può anche risultare sufficiente a spuntarla grazie allo strumento del veleno; ci vorrebbe un approccio totalmente diverso. Sarebbe necessario un metodo d’attacco che consenta di tenere ogni punto debole a distanza.
E come le popolazioni di questi luoghi fin da tempo immemore, ma anche il suo primo osservatore occidentale Vosmaer, A. (Arnout) nel 1769 ebbero di volta in volta modo di osservare, il cosiddetto “uccello cacciatore” (in arabo saqr-et-tair) di grazia guerriera ne ha da vendere, così come di quel tipo di prudenza animale che permette a chi caccia per sopravvivere di spuntarla nei suoi più difficili scontri. Così che il nome scientifico sopracitato, che fa riferimento alla figura classica dell’arciere, non è che una metafora per il passo attento e cadenzato dell’animale, nel frequente momento in cui dovesse ritrovarsi a combattere per la sua vita, in un’altra giornata nell’impietoso territorio dell’Africa nera. Se pure visto da lontano, risulta innegabile la sua capacità di presentare una figura maestosa; alto fino ad 1,3 metri, con una massa complessiva di fino a 5 kg e una strana coda portata dritta e parallela al suolo, che contribuisce a renderlo il più lungo (oltre che alto) nell’intero ordine degli accipitriformi che include, per l’appunto, la grande maggioranza degli uccelli rapaci. Ma ciò che colpisce maggiormente l’occhio e la fantasia dell’osservatore, finisce quasi sempre per essere la suggestiva cresta piumata posta dietro alla testa, vagamente simile a quella dell’aquila delle Filippine, il cui aspetto ha finito per giustificare ulteriormente la traslitterazione delle sue metafore preferite. Questo perché, nell’opinione dei primi naturalisti, avrebbero ricordato i pennini del segretario portati dietro l’orecchio, o in alternativa una vera e propria faretra piena di dardi da scoccare all’indirizzo del proprio nemico. E quando viene il momento, altrettanto straordinarie risultano essere le sue movenze, con veloci e precisi balzi, seguiti dall’attacco fulmineo vibrato mediante l’impiego delle straordinarie zampe. È un approccio al combattimento che secondo recenti studi, potrebbe corrispondere nei fatti a quello impiegato dagli uccelli preistorici cosiddetti “del terrore” (fam. Phorusrhacidae) la cui enorme presenza, rapidità e ferocia riusciva a rendere i più temuti predatori del tardo Giurassico, nonché nemici di molte delle specie più celebri di dinosauro: ergersi sopra la preda e colpire, colpire ancora con una forza di fino a quattro volte superiore al proprio peso corporeo. Essenzialmente, sarebbe come se un essere umano potesse veicolare la propria aggressività con una pressione di due quintali e mezzo. Abbastanza per eliminare, con un po’ di fortuna, alcuni dei più pericolosi serpenti del pianeta Terra.

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La spiaggia che assorbe la luce assieme al mare d’Islanda

È soltanto una volta scesi dall’aereo e lasciata Reykjavík, percorrendo la grande Hringvegur, o strada ad anello che circonda un’intera nazione nel mezzo dell’Oceano Atlantico verso la costa meridionale della terra vulcanica per eccellenza, che si acquisisce realmente la sensazione di trovarsi su un’altro pianeta. Tra zone verdeggianti e montagne pietrose, parallelamente a ruscelli che trasformano in sottili e scintillanti cascate. Dove lo sguardo rapito non può che lasciare la strada asfaltata, verso i rilievi che formano l’anfiteatro distante da cui provengono quelle misteriose nebbie cineree, esalazioni dalle viscere stesse del Profondo. In luoghi come il vulcano di Katla, ospitante il ghiacciaio di Mýrdalsjökull, al cospetto del quale si estende il singolo insediamento più vasto dell’isola, per lo meno dal punto di vista dell’estensione. Quel “villaggio” di Vík í Mýrdal, misurante circa 70 Km da un’estremità all’altra, secondo quanto definito dalle disseminate case dei suoi appena 291 abitanti. Ed è soltanto fermandosi in questo luogo, presso una delle stazioni di ristoro o rinomati piccoli alberghi a disposizione del fiorente turismo locale, che il visitatore potrà iniziare la propria escursione più memorabile, di un viaggio e probabilmente, fase intera della sua stessa vita. Verso una striscia nera di sabbia vulcanica che pare attraversare l’Atlantico, incorniciata tra il promontorio (fjall) di Reynir, nome del primo vichingo che chiamò questo luogo “casa”, e la maestosa formazione rocciosa denominata Dyrhòlaey, un’arco abbastanza alto da permettere il passaggio di un’intera nave.
È Reynisfjara, unica spiaggia non tropicale a figurare regolarmente nelle classifiche di tali luoghi, un territorio battuto dal vento gelido e le onde incessanti provenienti dal Settentrione, dove il visitatore tende a dimenticare la propria identità e luogo di provenienza, mentre si sperimenta la furia possente della natura. Finché una vista assurda e apparentemente illogica, d’un tratto, non lo riporta ad interrogarsi sulla meccanica di quello che sta vedendo; la risacca che sale con insistenza, spingendolo a ritirarsi verso le scoscese pareti basaltiche del promontorio antistante. E poi… Piuttosto che ritornare indietro, sparisce senza lasciare traccia. Sembra di assistere all’effetto grafico di un imperfetto videogame. Poiché ciò che sale, dovrebbe prima o poi percorrere la strada inversa. Non trasformarsi in materia invisibile, ovvero sostanzialmente, lasciare la piena esistenza di questa Terra! Possibile che al di là della nebbia, quel giorno, fossero in atto forze mistiche o sovrannaturali… Come la notte lungamente narrata, in una leggenda folkloristica locale, durante la quale tre giganteschi troll attaccarono una nave da trasporto a largo del Reynisfjall, cercando di trascinarle a riva per trafugarne il carico. Se non che la coraggiosa resistenza dei marinai, spinti dalla forza della disperazione, finì per impegnare i mostri fino al fatidico sorgere dell’astro solare, il cui potere sui vagabondi capaci di rigenerarsi è fin troppo noto; pietrificazione, senza nessuna pietosa via di scampo. Tanto che essi campeggiano, tutt’ora, a largo della spiaggia e in forma di faraglioni erosi dalle onde, tra cui il vento sibila con un velato senso di scherno. Reynisdrangar, è il loro nome, e in alcune versioni del racconto si tratterebbe invece di due giganti e un’incolpevole fanciulla lasciata a trasformarsi in pietra con loro da suo marito, in cambio della promessa da parte dei bruti di non nuocere più all’esistenza e la vita degli umani. Di certo un fato tutt’altro che invidiabile, benché non privo di una certa solennità immanente.
Eppure, strano a dirsi, la spiegazione del gioco di prestigio con l’acqua tra i grani cupi è una commistione di fattori estremamente logici, nient’altro che l’espressione di quel rapporto tra causa-ed-effetto che fin dall’alba dei tempi, ricevette il compito di governare il mondo. Se soltanto una simile astrusa scenografia, così diversa da ogni esperienza pregressa, non facesse tutto il possibile per trasportare la mente a pensieri distanti…

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Gli straordinari pesci fantasma del Mar dei Sargassi

Sospesa nel centro esatto dell’Oceano Atlantico, Madre Natura tratteggia figure appena visibili mediante pochi tratti del suo fine pennello. E ciò facendo, riesce a creare una giustapposizione del tipo più inaspettato: poiché non succede, generalmente, che entro il giorno di Ognissanti si posi già la neve su questa Terra. Halloween, tempo di mostri, vampiri e notte infestata, più di ogni altra cosa, dagli spiriti e i resti ectoplasmici di chi ha vissuto. Ed invece adesso non abita più… In questo mondo. Ma come potrete facilmente immaginare, gli spettri che permeano il mondo abissale appaiono fondamentalmente diversi da quelli che tendono ad aggirarsi nella brughiera, nascondendosi dietro o all’ombra dei vecchi alberi rimasti privi di fronde. Trasparenti, questo può dirsi ampiamente scontato, in ogni loro parte tranne il sottile tubo che costituisce l’apparato digerente, e la scatola cranica situata nell’estremità anteriore del loro corpo allungato lungo fino a 30 cm, piatto quanto il nastro di un’antica videocassetta. Usato, ancor più che allo scopo di proteggere un cervello, per sostenere una serie di lunghi e fragili denti acuminati, sulla cui funzione la scienza ha intrapreso un lungo dibattito privo di conclusioni; questo perché non serve saper masticare, per fagocitare, un poco alla volta, le candide particelle sospese tra l’onde. Neve marina, come accennato, ovvero la soluzione colloidale di residui biologici e vegetali, prodotti da creature più grandi, alla base dell’alimentazione pelagica di esseri ancor più semplici e primitivi, dei predatori di plankton, pirati di minuscoli gamberetti e larve di vario tipo. Del resto, esiste la solidarietà, persino tra i dannati.
Per la cronaca non si tratta ancora di “pesci” benché potreste essere perdonati nel definirli tali. Dopo tutto, cos’è un Leptocefalo, se non la forma giovanile di quegli esseri talvolta definiti serpenti del mare profondo! Tra le cui specie costituenti, ve ne sono alcune da tempo a rischio critico d’estinzione, esattamente come il panda gigante o la tigre di Amur. E potrebbe anche lasciare stupiti, l’idea che una creature simili, capaci di produrre a ogni stagione riproduttiva migliaia e migliaia di eredi possano trovarsi in pericolo, finché non si considera come il complesso svolgersi del loro ciclo vitale, assolutamente unico nel mondo degli animali, porti alla sopravvivenza in media di un solo esemplare su 500. Una volta presa quindi ad esempio la specie Anguilla anguilla, comunemente detta anguilla europea, ci si trova di fronte a un essere la cui vita raggiunge il culmine nell’entroterra del Vecchio Continente, all’interno di fiumi o laghi dove ha trascorso gran parte dell’età adulta. Percepito quindi il segnale biologico più importante della propria esistenza, il pesce nuota fino alla distante foce che soltanto una volta, oltre 40 o 50 anni prima, aveva visto quando era ancora un tenero ed argenteo virgulto. Lasciatosi alle spalle ogni terra emersa per sempre, l’animale comincia quindi a nuotare con tutta la forza concessa dalla sua forma sinuosa, per un’epica trasferta fino ai luoghi del suo accoppiamento finale: i verdeggianti pascoli di quella particolare zona settentrionale dell’Atlantico, situata tra le Azzorre e le Grandi Antille, dove deporranno le loro uova. Uova di spettri che non hanno scaglie, apparizioni stranamente mostruose dei mari…

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La Nuova Zelanda ha votato: l’uccello dell’anno è il piccione ubriaco

Come la terra fantastica che al cinema ne ha tratto l’ispirazione (benché sia comprensibile dubitare, tutto considerato, che Tolkien avesse in mente la Nuova Zelanda) il paese composto da due grandi isole e 600 più piccole verso i confini Sud-Est d’Oceania possiede i suoi popoli, le sue leggende, le sue regole totalmente diverse dal resto del mondo. È l’usanza ad esempio, tra i suoi recessi più o meno urbani, che tra la primavera di settembre e ottobre si cammini sempre con un occhio rivolto verso l’alto, agli alberi che sovrastano il proprio sentiero. Questo perché tra i loro rami, molto spesso, può trovarsi un nido di Gymnorhina tibicen, la temutissima gazza australiana, i cui genitori sono soliti piombare in picchiata e attaccare gli umani, temendo per il benessere della propria prole. Il pericolo di cui meno si parla, tuttavia, perché indubbiamente meno frequente, è quello di essere colpiti da un diverso e più variopinto uccello, a causa di una ragione totalmente diversa: la mera perdita dell’equilibrio. “Attenti al kereru appeso per le zampe, crede di essere un pipistrello!” grida allora qualcuno. Il pacifico, persino bonario colombo dei boschi (o colombaccio) il cui nome latino recita Hemiphaga novaeseelandiae sin da quando il nipote di Napoleone in persona, il naturalista francese Charles Lucien Bonaparte, ne ricevette un campione nel corso dei suoi viaggi in Italia e negli Stati Uniti. Eppur non avendo mai visitato il suo habitat naturale, neppure questo uomo di scienza avrebbe potuto comprendere il fondamentale problema del solo ed unico piccone di Nuova Zelanda: la sua tendenza ad alzare il gomito, nonostante neppure quella parte del corpo, sostituita da un paio di variopinte ali.
In fondo, bisognerebbe fare il possibile per capirlo. Non è particolarmente facile farsi strada nei cieli e ricevere pezzi di pane dagli umani, quando si è circondati da alcune delle specie più caratteristiche e riconoscibili del mondo intero: pappagalli iridescenti guidati dal chiassoso quanto candido cacatua. La risata penetrare dell’adorabile kookaburra. E sulla terra magnifiche creature a rischio d’estinzione ma prive di capacità aviarie come kea, kakapo e takahe. Così che, attraverso i secoli, questa particolare genìa di messaggeri della pace (di non-biblica memoria) ha continuato a sopravvivere grazie a una dieta ereditata dai propri antenati, composta al 99% di frutta. Ma fattori come il mutamento climatico, la progressiva riduzione delle specie endemiche e l’abbondanza dovuta alla tutela del patrimonio vegetale, hanno accresciuto in maniera esponenziale le loro possibili fonti di nutrimento. Con il risultato che la frutta in eccesso, rimasta troppo a lungo sotto il sole, inizia spontaneamente a fermentare. E soltanto per questo, il povero kereru dovrebbe smettere di mangiarla? Rinunciare al gusto inconfondibile della più naturale, per quanto aspra approssimazione di un buon bicchiere sidro?
Il risultato di tutto questo, ritengo, è ormai sotto gli occhi di tutti. Tanto che lo stesso ente di protezione naturalistico Forest & Bird, scrivendo una nota a margine di questa beneamata specie, è arrivato a definirlo “Goffo, ubriaco, ingordo e appariscente” in un contesto il quale, tuttavia, appariva funzionale ad allontanare le connotazioni apparentemente negative di almeno tre dei termini scelti. La notizia si è infatti diffusa, rapidamente, attraverso la blogosfera: come ogni anno, la suddetta associazione aveva annunciato il vincitore dell’annuale iniziativa finalizzata ad eleggere l’uccello migliore degli ultimi dodici mesi. Evento abbastanza prestigioso, in patria, da motivare almeno un notorio tentativo di hacking pregresso, eseguito da un disonesto fautore della garzetta facciabianca. Mentre il popolo ancora una volta, come accade sempre più spesso di questi ultimi tempi, aveva democraticamente eletto il più improbabile dei partecipanti…

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