Jimmy Tajik, il sitar umano

Jimmy Tajik

I pastori di buoi latini, nel caso in cui fossero dediti all’arte, erano soliti comporre soavi canti sull’esempio di Teocrito, l’inventore greco della poesia bucolica. Da questa sentita celebrazione dell’idillio di campagna, della natura e di tutte le sue meraviglie, tra cui l’amore, nacque la tradizione letteraria cui appartengono i versi immortali di Calpurnio Siculo, Nemesanio e soprattutto quelli del sommo Virgilio, famoso accompagnatore delle anime sperdute, in modo particolare tra le ardenti fiamme dell’Inferno dantesco. In altri luoghi ed epoche, dalle inclinazioni meno contemplative, in cui forzate restrizioni culturali avevano interrotto il contatto l’antichità, la musica del sublime ha sempre e comunque trovato un suo abile messaggero, in grado di esprimerla e rilanciarla verso il futuro. Anche a costo di andarla a prenderla da un sub-continente lontano. Forse nessuno, tra questi preziosi individui, ha una storia più travagliata di questo fenomenale interprete, in grado di guadagnarsi una fama internazionale a partire da un singolo video, casualmente rubato qualche anno fa da un suo collega magazziniere.
Jimmy era il ragazzo di origini tagike che, durante gli anni dell’Unione Sovietica, teneva d’occhio le 1.700 pecore di un ricco affarista Uzbeko. Alla fine di ogni mese, come unico pagamento, riceveva un agnello. Per passare il tempo, cantava. In quegli anni, racconta lui, c’era una stringente censura su quali argomenti fossero adatti al grande pubblico e sui film che potessero giungere nelle sale. Naturalmente, tutto ciò che proveniva dall’Occidente non era particolarmente ben visto, specie se di matrice statunitense, lasciando un grande vuoto che poteva essere colmato soltanto in un modo: l’infinita ed eterna fecondità di Bollywood. La musica è una parte fondamentale di ogni buon film, qualunque sia la nazione di provenienza, e questo fatto appare più che mai evidente guardando i fantastici allestimenti del tipico film indiano. Ispirate commistioni fra i canti tradizionali di più lingue (hindi, urdu, persiano, bhojpuri, braj, rajasthani e punjabi) con le metodologie dei musical di Broadway e altre forme teatrali moderne, le canzoni di questo gotha cinematografico hanno un fascino che trascende le nazioni e riesce a coinvolgere gli abitanti di ogni parte del mondo, soprattutto i giovani pastori in cerca di un modo per mettere a frutto il tempo. Che poi, crescendo….

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Azzannatrice, la tartaruga fumatrice

Tangs Turtle

Il metabolismo di ciascun essere vivente assorbe e reinterpreta l’atmosfera che lo circonda. Prenderlo e spostarlo da un lato all’altro del globo può dare risultati inaspettati, ricombinare i presupposti e cambiare tutte le carte in tavola, le ambizioni e le più comuni aspettative. A Changchun, nel nord-est della Cina, c’è una tartaruga azzannatrice comune (chelydra serpentina – specie originaria del nordamerica) che si fuma dieci sigarette al giorno. E le strane circostanze attraverso cui si è giunti a questa fuorviante situazione, in grado di ricevere ampi spazi nei TG locali e online, meriterebbe l’attenzione di un menestrello viaggiatore, per trarne una fiaba precauzionale contro il pericolo delle sostanze assuefacenti e le pungenti ossa di pollo. Tutto inizia con Tang, il padrone della tartaruga, che stava svolgendo serenamente il suo lavoro di chef, in un ristorante appena fuori città. La regione di Jilin, come del resto ogni altra parte della Cina, è famosa per alcune notevoli specialità culinarie. Fra queste ne spiccano in particolare due: il pollo al ginseng e quello insaporito con il liquore maotai, un sublime nettare, così costoso da far nascere il detto “chi lo beve, non lo compra; chi lo compra, non lo beve”. Dall’ingrediente di base, però, ha origine il problema, perché se l’adorabile mangiatrice di pesci e ranocchie sul di sopra è durissima, il suo ventre è morbido e vulnerabile; così, un giorno sfortunato, mentre camminava in giardino resta infilzata dai resti di un pennuto recentemente cucinato, in una sorta di vendetta postuma contro un rivale sopravvissuto, ingiustamente amato e riverito dagli umani. Il padrone, mentre è fuori in pausa fumatori, nota il comportamento della tartaruga indolenzita, capisce il problema e tenta immediatamente di aiutarla, girandola sul dorso. Se questa fosse una favola di Esopo, estratta la spina dall’inconsueto leone, sarebbe nata un’amicizia destinata ad entrare nella leggenda; ma il cervello dei rettili, come è noto, non è grandissimo, e tende ad affrontare i problemi uno per volta, senza elaborare connessioni a lungo termine. Così l’incosciente essere bitorzoluto, accecato da un piccolo dolore, decise che era ora di staccare qualche dito.

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Rhex, lo stunt-robot che fa il parkour

Rhex

La gamba umana è un sistema complesso, dotato di quattro muscoli anteriori, due laterali, sette posteriori e 60 ossa differenti, piede incluso. Ci sono, è ovvio, modi più semplici per andare in giro. Basti guardare l’agile e scattante Rhex, robottino esapode prodotto dall’Università della Pennsylvania, mentre fa le capriole, salta da un tavolo all’altro, scala i muretti ed esegue le posizioni tipiche dell’aerobica per scarafaggi. “Nonostante la presa che hanno sulla fantasia popolare, i robot umanoidi stanno tardando ad entrare nella nostra vita” Esordisce così la tesi di presentazione, nominata dal prestigioso ateneo come una delle migliori di quest’anno. Quanto accennato, probabilmente, non avverrà tanto presto. Imitare la natura è difficile, persino per noi, e i meccanismi dell’evoluzione introducono problemi quasi impossibili da risolvere, almeno allo stato tecnologico attuale. Ci sono i progetti, mancano i prodotti. E mentre i robot virtuali volano nello spazio fantastico e scacciano le più diverse mostruosità aliene, questo lontano cugino percorrerà ben presto le regioni più inospitali del pianeta, destreggiandosi con sei emicicli flessibili, in grado di fare presa su ogni tipologia di terreno. L’interessante soluzione, usata come metodo sperimentale finalizzato ad applicazioni successive, nasce grazie alle ricerche tecniche di Aaron Johnson, studente per il PhD e Daniel Koditschek, professore d’ingegneria e sovrintendente del Kod*lab. Il loro dipartimento, dedito alla costruzione di macchine autonome per lo svolgimento di una varietà di mansioni, potrà da oggi contare sul carisma di questo scattante ambasciatore, degno di entrare a pieno diritto nel tortuoso immaginario popolare, più solito all’apprezzamento delle cose graziose, va detto, eppure in grado di provare simpatia per ogni tipo di essere (quasi) vivente. Specie quando, come appare evidente in questo caso, il soggetto in questione dimostra tutta l’adorabile incoscienza di una cavalletta impazzita.

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Come costruire una barchetta a vapore

DaveHax

Mezzo cartone del latte (senza il latte) una lattina di Coca-Cola (senza la Coca-Cola) due cannucce, dello scotch, una confezione di Blu Tack, ovvero le pasticche di sostanza adesiva usate per i lavelli, e una candela-lumino. Questo è tutto ciò che serve, secondo le modalità creative di questo divertente esperimento, per mettere insieme un piccolo piroscafo funzionante, in grado di navigare grazie all’energia meccanica del vapore: chiamatela Pop Pop Boat. Si tratta dell’ultima creazione di Dave Hax, titolare dell’omonimo canale, l’eloquente inventore di numerosi giocattoli fatti in casa, trovate curiose o persino educative, nel modo in cui può esserlo soltanto ciò che realizziamo con le nostre stesse mani, senza passare per le pagine di un catalogo tradizionale o sul web. Il principio è quanto di più semplice si riesca ad immaginare. Si costruisce con la latta una sorta di piccola caldaia, ripiegata su se stessa e bloccata ai lati con la sostanza impermeabilizzante, tranne che in un punto, quello in cui vengono fatte passare le due cannucce, fianco a fianco. Quindi si riempie d’acqua il contenitore, si fanno passare le cannucce in un buco del cartone, accuratamente sigillato con dell’altra Blu Tack, e si aggiungono le decorazioni…

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