Imponenti millepiedi preistorici, impressi come fossili sul retro di una pietra perduta, che soltanto dopo un millennio, due, è finalmente stata sollevata e girata da parte di un archeologo improvvisato. Che campeggiano l’uno di lato all’altro, con le loro lunghe propaggini serpentine, zampe capaci di arrampicarsi sulla parete di una caverna. Soltanto che qui, di pertugi verso le viscere della Terra, non abbiamo neppure una singola traccia. E le apparenze ingannano, mentre i materiali chiariscono, sostanze come il legno spugnoso staccato direttamente da un albero moribondo, che oscilla impietosamente grazie all’effetto del vento oceanico della California. Poiché verso la fine di una lunga vita, paragonabile allo spegnimento di una stella, creature di tutti i tipi si affollano a popolare il suo tronco coperto di cicatrici: picchi che battono impietosamente alla ricerca di uno spuntino. E i creatori di un altro tipo di foro, i grandi insetti xilofagi e le formiche carpentiere. Ma sotto quella barriera ormai consumata, una letterale città nascosta si aggira e prospera mettendo al mondo la prossima generazione. Comunità i cui membri non riescono a misurare, individualmente, più del mezzo centimetro di un grano di riso. Pur essendo i reali artefici, loro e nessun altro, di una simile apocalisse sospesa tra chioma e radici. Morte, morte, distruzione, annientamento. Che se fossero l’effettiva conseguenza di un preciso disegno, non esiteremmo a definire quell’intelligenza crudele al punto del diabolismo, luciferina nella sua totale assenza di ragionevolezza o alcun senso di pietà. Mentre l’essenza di un simile frangente, per come si configura all’occhio del suo accidentale scopritore, non consegue forse dal mero e imprescindibile bisogno? Dal puro senso di sopravvivenza di tali creaturine zampettanti, divoratrici di quanto deriva da un atavico istinto, che poi altro non può essere che il sommo risultato finale di molti millenni d’evoluzione…
Loro, che il sistema tassonomico di classificazione delle forme di vita confina all’interno della sotto-famiglia Scolytinae, ulteriore suddivisione di quelli che chiamiamo curculionidi, weevil o più volgarmente e per esperienza diretta “le dannate farfalline del riso”. Sebbene siano capaci di presentarsi, nel caso specifico, con una sostanziale deriva morfologica e delle condizioni fisiche apparenti. Con una spessa armatura nera completa d’elitre particolarmente spesse, occhi piatti e protetti dalla forma convessa della testa, neppure l’ombra di un’antenna e soprattutto senza il lungo rostro o naso, che tanto spesso caratterizza i loro simili abituati a infestare i cereali già raccolti dall’uomo. Tutto ciò per adattarsi a uno stile di vita e sopra ogni altro, consistente nello scavo progressivo all’interno di un involucro esteriore della pianta che dovrebbe servire proprio a difenderla dai parassiti e dalle intemperie, ma nulla può fare dinnanzi a mandibole tanto perfette nel fare la cosa per cui sono state create dalla natura. Così la femmina striscia profondamente all’interno, piuttosto che deporre le sue uova in superficie come fanno molti altri distruttori di alberi dal grado di sofisticazione decisamente inferiore, deponendo a intervalli regolari le sue ordinate uova biancastre. Ciascuna delle quali, dopo il trascorrere di un tempo variabile in base alla temperatura ambientale, lascia fuoriuscire una strisciante larva dalla forma di un verme che inizia a anch’essa a spostarsi lungo un tragitto il più possibile distante da quello delle sue sorelle, divorando legno ed emettendo un particolare feromone. Progressivamente, inesorabilmente, tale olezzo impercettibile all’uomo inizierà perciò a filtrare e circondare in una nube l’arbusto ferito. Attirando ulteriori coleotteri della stessa specie, altrettanto dediti alla mansione da loro ricevuta in funzione del grande schema delle cose. E potrebbe perciò sembrare particolarmente strano, che una creatura tanto piccola e parassita, per il solo effetto della sua fame, possa giungere ad uccidere l’ambiente che potremmo definire come il suo stesso mondo. Eppure si hanno notizia d’infestazioni soprattutto in territorio nordamericano, e nel corso di questi ultimi decenni, che lasciate sfuggire completamente al controllo di qualsiasi tentativo di contenimento, hanno finito per dare filo da torcere ad intere foreste millenarie, particolarmente quelle composte dal Pinus ponderosa, uno degli alberi più svettanti e maestosi al mondo. In assenza di veri sistemi efficaci ad ampio spettro, al fine di contenere la moltiplicazione esponenziale di un tale tipo d’inconsapevoli, implacabili aguzzini…
Stati Uniti
Rotola, di nuovo rotola la grande sfera oceanica del criceto umano
Comparso per la prima volta sulla pagina Facebook dello Sceriffo della contea di Flager, l’oggetto non identificato giaceva immobile nel mezzo della spiaggia floridense. Come un enorme bigodino, questa volta, costruito in alluminio e fiancheggiato da una serie di 18 professionali sfere gonfiabili (niente più palloni da basket morsi dagli squali) ben fissate all’interno di una simile struttura per garantirne la stabilizzazione. Attorno alla quale, temporaneamente, sembra aggirarsi un controllore che sistema, ripara e mette in sicurezza i suoi meccanismi. Mentre un nutrito capannello di persone, comprensibilmente incuriosite, lo osserva commentandone i gesti. Qualche volta, gli rivolgono anche una domanda o due… Poco male. Persino al terzo tentativo, l’eroe sportivo ama parlare della sua difficile e autoimposta missione di vita.
Libertà di parola, di culto, di associazione, di educazione, di scegliere la propria nazionalità e cultura. America, la terra dei sognatori: un luogo in cui inseguire i propri obiettivi, non importa quanto remoti, dove tutto sembra possibile, a patto di avere sufficienti risorse finanziarie. E qualche volta, anche in assenza di quelle risorse. Ma è difficile inseguire una chimera abbastanza a lungo, mentre questa muta e si trasforma nei diversi stati della materia, senza esserne ad un certo punto profondamente cambiati. Mentre si rimbalza per i fiumi e nelle valli, ci si arrampica verso le cime di alti picchi e poi si balza all’altro lato contro i venti, lasciando che ampie ali di pipistrello ci trasportino lungo correnti ascensionali intangibili e incolori per lo sguardo; per lo meno, a patto che fosse questa specifica esperienza a dare il ritmo e il passo dei nostri gesti. E se invece il tipo di animale totemico capace di guidarci, fosse piccolo e peloso, piatto e liscio all’occorrenza… Un timido quadrupede che cerca sempre di portare a termine quello che suscita interesse tra i suoi baffi, carichi di ottime speranze… Non è semplicissimo individuare, nell’intero regno animale, una bestia più nobile del Mesocricetus auratus o criceto siriano, generalmente noto per la sua frequente collocazione all’interno di pratiche gabbiette poste sopra il tavolo della cucina o della sala pranzo. Cercatore esperto di avventure utili a risolvere un bisogno, che sia di tipo alimentare, di svagarsi oppure pertinente all’anima e la mente stesse, mentre percorre angusti pertugi, corre sui difficili percorsi e trova infine, non senza qualche contrattempo, l’ambita uscita dal dedalo cunicolare di un difficile labirinto. E ogni qualvolta che dovesse venire a mancargli tale opportunità, può sempre fare affidamento sulla sua immaginazione; esercitando i muscoli, per molti minuti o qualche ora, all’interno dell’equivalente in scala ridotta di una turbina per la generazione d’energia elettrica: la Ruota. Così Reza Baluchi, già noto ciclista e corridore di origini iraniane, immigrato negli Stati Uniti nel 2002 dopo essere vissuto per 10 anni in Germania, ha un giorno scelto d’inseguire tale stato e il metodo di quel minuto sognatore. Costruendo la sua personalissima interpretazione della stessa cosa… E puntando dritto verso le Bermuda, si è imbarcato nella traversata in grado di coronare un’intera vita. Oppure, nell’ipotesi peggiore, terminarla.
Il concetto è in realtà piuttosto intrigante e dal punto di vista tecnologico, tutt’altro che azzardato. Prendere un oggetto in grado di rotolare mantenendosi al di sopra della superficie dell’Atlantico ed entrandovi all’interno, cominciare a correre volgendo le spalle alla riva. Nell’evidente ambizione, per quanto remota, di riuscire entro una manciata di ore o giorni a raggiungere la propria meta. Più i secondi che le prime in questo caso, visto l’obiettivo in questo caso dichiarato da quest’uomo, in varie interviste e dichiarazioni, di riuscire presto ad approdare col suo marchingegno sulle spiagge newyorchesi a circa 2.000 Km di distanza. Un’impresa apparentemente impossibile per molti ma (forse?) non per lui, già capace di compiere un giro a piedi degli interi Stati Uniti nel 2003, per un totale di 18.860 Km dedicati alla lotta contro il terrorismo e la raccolta di fondi per chiunque ne avesse bisogno. Benché sia il caso di sottolinearlo: non è esattamente la stessa riuscire a fare anche soltanto una frazione di questo tra le onde resistenti dell’Oceano, sotto il sole impietoso dell’estate e con possibilità di soste notevolmente più limitate…
Chi ha scavato le misteriose camere di pietra sotto il suolo del New England statunitense?
È strana l’impressione che si riceve inizialmente dal breve video del canale Dime Store Adventures, in cui l’autore deambula e sobbalza con passi degni di uno sketch dei Monty Python per le valli e digradanti collinette di un’ombrosa foresta vergine del Nuovo Mondo, per poi giungere a immobilizzarsi all’improvviso, l’espressione catturata, innanzi ad un qualcosa che parrebbe prelevato da un contesto del tutto diverso. E può sembrare uno scherzo, la tipica scenetta di YouTube, quando lo seguiamo con la telecamera all’interno degli angusti ingressi, d’uno, due, tre diversi antri che potrebbero sembrare tane d’orso, se non fosse per la complicata e chiaramente artificiale opera muraria dei rispettivi ingressi, costruita con una precisa collezione di pietroni sovrapposti, ricoperti dal muschio dei secoli lungamente trascorsi. Come tumuli di tombe di un’antica civiltà, se non fosse che qui siamo all’altro lato dell’oceano e in un contesto prossimo all’estremo settentrione degli Stati Uniti, presso cui i nativi espressero le proprie predisposizioni funebri facendo affidamento ad un tutt’altro tipo di tradizioni. E poi, perché potessero servire a un tale scopo, le bizzarre costruzioni mancano di un accessorio d’importanza null’altro che primaria: una porta valida a tenere fuori gli elementi, per non parlare della variegata fauna locale. Ed è così che terminato il siparietto, fatto il suo ingresso dento il primo degli ombrosi ambienti, Mr. Dime Store fa s’impegna in quello che notoriamente l’uomo contemporaneo è solito fare innanzi a questo tipo d’incertezze: tira fuori il cellulare e cerca i termini rilevanti online. Un gesto facile da imitare e che possiamo quindi ben scoprire conduttivo all’acquisizione di una vasta serie di chiarimenti, al tempo stesso ricchi di dettagli e descrizioni ma del tutto privi della risposta alla fondamentale domanda. Poco a poco, quindi, ci si rende conto di essere dinnanzi ad uno dei veri e irrisolvibili misteri della Terra.
Sono circa 800, di varie dimensioni, fogge e configurazioni, le camere di pietra (stone chambers) disseminate nell’intera regione del New England, a partire dagli immediati dintorni newyorchesi fino al Massachusetts, il Vermont, il New Hampshire… Ciascuno parte della sua geografia del tutto distintiva, generalmente semi-nascosto dalla prospettiva di un paesaggio ineguale, ed alcuni orientati, in maniera certamente non casuale, verso l’alba nei giorni fatidici dei solstizi e gli equinozi terrestri. E ce ne di entrambi i tipi: vicino a insediamenti o fattorie tutt’ora inesistenti, piuttosto che sperduti in mezzo al nulla, rendendo ancor più complicato ipotizzare la loro possibile funzione originaria. Il che non ha impedito, d’altra parte, a un’alta quantità di “esperti” e scienziati di varie provenienze di speculare largamente sull’origine di tali costruzioni, tentando per quanto possibile di attribuirle a questo oppure quel periodo storico, posti a letterali secoli, se non millenni di distanza. Il problema fondamentale delle camere in questione, infatti, è la loro natura di costruzioni poste in opera mediante il sistema architettonico dell’arco a mensola, una tecnologia del tutto priva di attestazione tra i popoli indigeni di questi territori. Ma capace di trovare un’ampia attestazione pregressa nei paesi nord-europei, guardando soprattutto verso l’antica storia l’Irlanda. Ed è per questo che la prima ipotesi, in ordine d’elaborazione, avrebbe visto protagonisti della scena niente meno che i popoli vichinghi, di cui oggi possiamo dire di aver confermato le avvenute spedizioni almeno fino all’isola di Terranova, ed i cui insediamenti costruiti attorno all’anno 1.000 avrebbero potuto prevedere, in via ipotetica, strutture simili alle grotte artificiali mostrate nel video. Se non che un’ipotesi di questo tipo avrebbe largamente beneficiato nel trovare, nei dintorni di quest’ultime, di un qualsiasi segno di centri abitati o manufatti risalenti a tali esperti lavoratori di ceramica e metallo, laddove il New England, sotto questo particolare punto di vista, risulta del tutto privo di attestazioni evidenti. Dal che nasce in via del tutto collaterale, un altro tipo d’ipotesi che potremmo definire ancor più ambiziosa…
Kudzu, il grande mantello d’erba che minaccia di soffocare gli Stati Uniti meridionali
Pueraria montana var. lobata o kudzu (葛) è il nome della notevole pianta introdotta negli Stati Uniti in occasione dell’Esposizione Centenaria di Philadelphia, in Pennsylvania, nello scenario di un padiglione dedicato al progresso agricolo ed in maniera maggiormente estensiva, in un vero e proprio giardino presso lo Shofuso Japanese Cultural Center di Fairmount Park. Era ancora il 1876 ed un clima di speranza dominava sulle incertezze di quell’epoca di transizione, così che nulla pareva rappresentare un pericolo, mentre ogni cosa assumeva i tratti dominanti di una fantastica opportunità futura. E c’è senz’altro da dire che questo rampicante leguminoso dell’Asia Orientale, come un seducente diavolo evocato dall’interno di un’antica bottiglia, aveva un aspetto tutt’altro che ripugnante: folto, rigoglioso, ornato da infiorescenze viola profumate, resistente ad ogni tipo di sollecitazioni, situazioni climatiche o inappropriati frangenti. Perfetto ornamento per il proprio cortile, quando tenuta appropriatamente sotto controllo. E un dono letterale concesso dagli Dei dell’agricoltura, per il tramite di coloro che avevano pensato d’importarla, a partire dall’epoca della grande depressione. Verso il terzo decennio del XX secolo infatti, con l’intero settore agroalimentare statunitense in crisi operativa ed economica, il mero concetto secondo cui risultava possibile ricoprire di vegetazione produttiva un intero acro di terreni ad un costo di 8 dollari, grazie alle iniziative di propagazione dell’ente governativo Soil Conservation Service, appariva come un tenue bagliore di speranza. Ulteriormente enfatizzato dalle molte campagne di convincimento pubblico, tra cui quella portata avanti per anni da Channing Cope nel suo programma radiofonico, mediante definizioni quale “Il viticcio miracoloso che resusciterà il Sud” grazie alla sua funzionalità primaria di combattere l’erosione del suolo, soprattutto durante le periodiche alluvioni capaci di arrecare gravi danni al territorio. Tutto quello che occorreva perché la pianta mettesse radici e iniziasse a crescere era un grande spazio assolato e pianeggiante, permettendo a un’enorme quantità di piantagioni di cominciare a sorgere lungo le strade interstatali e le altre infrastrutture di collegamento, lontano da alcun tipo d’intervento agricolo di mantenimento costante o potatura umana. I responsabili di tale iniziativa, tuttavia, scoprirono ben presto quanto l’enorme quantità di materia vegetale potesse risultare sostanzialmente inutile di fronte ai mutamenti dinamici del mercato: a lungo tempo considerata una valida fonte di fieno per dare da mangiare agli animali, le sue propaggini contorte tendevano ad aggrovigliarsi nei macchinari, rallentando l’opera ed aumentando conseguentemente i costi di gestione. Più volte sperimentata all’interno di varie possibili ricette come cibo per gli umani, essa non riuscì mai a prendere sostanzialmente piede nei territori d’Occidente, nonostante in Cina, Corea e Giappone sapesse costituire un ingrediente saporito per la creazione di farine, salse e vari tipi di dessert. Il che lasciava soltanto la fabbricazione di cestini ed altri orpelli in vimini come utilizzo economico sostenibile, in quantitativi per nulla proporzionali all’offerta di materie prime. Entro l’inizio della seconda mondiale, inevitabilmente, molte piantagioni di kudzu vennero così abbandonate, alcune furono distrutte. Ma tutte, dalla prima all’ultima, continuarono autonomamente (o segretamente) a prosperare.
La questione fondamentale per capire il problema di tale pianta è poi quella alla base del principale pericolo per la biodiversità terrestre: che cosa può succedere, sotto i nostri stessi sguardi impotenti, nel momento in cui una forma di vita non nativa viene trapiantata in un luogo adatto a favorirne la prosperità? Talmente adatto, in effetti, da non togliere qualsivoglia limitazione alla sua moltiplicazione senza nessun controllo! Inverni temperati, estati umide, abbondanza di piogge ed assenza di parassiti naturali, collaborarono quindi nel porre le basi di una tempesta perfetta nell’intero ambito degli Stati del Sud. Mentre i confini originariamente segnati per la propagazione del rampicante, ormai rimasti del tutto privi di significato, venivano agilmente varcati dalle sue propaggini quasi tentacolari. Ed una folta coperta color smeraldo calava, come un sipario, sopra le antiche foreste vergini del circondario…