La somma dei cateti sull’ipotenusa di un palazzo che definì New York

Londra, Parigi, Amsterdam, Liverpool arrotolate in uno, allungate e proiettate verso il cielo: questo sembrava la città che un giorno avrebbe avuto il soprannome geometrico di Grande Mela, all’inizio di un secolo che più di qualsiasi altro in precedenza, iniziava a trarre benefici dal potente flusso tecnologico dei tempi moderni. Oltre i gremiti stabilimenti portuali sottoposti allo sguardo scrutatore della grande statua, nelle strade ove multiple culture, lingue ed etnie d’appartenenza collaboravano, nell’arduo tentativo di dare un senso alla letterale nuova città di Babele, arditi uomini del tutto privi di vertigini si arrampicavano sopra le impalcature, superando ripetutamente il record relativo alla struttura più svettante del mondo intero. Seguendo l’esempio di edifici come il Manhattan Life Insurance, col suo pinnacolo alto 106 metri al di sopra di un parallelepipedo di 18 piani del 1870, lo schema strutturale ancora ripreso dalla Singer Tower di 187, con la differenza che la torre assomigliava a un piccolo Big Ben da questo lato dell’Atlantico, posta in equilibrio su di un alveare quadrangolare d’appartamenti ed uffici. Mentre i luoghi più attraenti dell’agglomerato urbano lentamente iniziavano a prendere forma, con una focalizzazione particolarmente significativa nei dintorni di Madison Square. Così l’imprenditore immobiliare Amos Eno, che fin dal 1857 possedeva l’inusuale lotto occupato un tempo dal St. Germaine Hotel, si ritrovò successivamente alla demolizione del palazzo fatiscente ad un dilemma: come sfruttare al meglio uno spazio esattamente triangolare, definito dal passaggio di arterie inamovibili come la Quinta Avenue, la East 22° e Broadway? La sua risposta fu l’unica possibile con gli strumenti di allora, vertendo sulla costruzione di un edificio convenzionale da sette piani nel punto più largo, subito seguìto da tre palazzine che ne avevano soltanto tre, in quello che fu presto chiamato un cow-catcher (“acchiappa-mucche”) forse per la forma simile allo scudo metallico situato di fronte alle locomotive a vapore. In un impeto di creatività imprenditoriale, quindi, trovò il modo di proiettare con una lanterna magica pubblicità ed immagini interessanti sulla più alta parete, monopolizzando l’attenzione volubile dei newyorchesi che passavano di lì. E nonostante il valore del terreno continuasse ad aumentare esponenzialmente, fino alla sua morte nel 1899 rifiutò di venderlo, finché proprio tale evento portò alla liquidazione per pagare i debiti di famiglia, senza tuttavia impedire al figlio William di ricomprarlo per 690.000 dollari, scegliendo poi di rivenderlo ad 890.000 alla famiglia Newhouse. Entro il 1901 tuttavia, proprio questi ultimi ebbero la fortuna di riuscire a vendere l’assortito gruppo di palazzine per 2 milioni di dollari alla Fuller Company di Harry S. Black, la prima compagnia di costruzione della storia ad essere specializzata in modo specifico nell’edificazione di grattacieli: qualcosa di grande stava per succedere, sebbene nessuno allo stato corrente dei fatti potesse anche soltanto iniziare ad immaginarne la natura.
Black coinvolse quindi un celebre architetto di Chicago, Daniel Burnham, seguace della scuola estetica parigina delle Beaux-Arts, che tanto aveva fatto in quegli anni per rinnovare l’aspetto neoclassico delle città di mezza Europa. L’idea di costui, per sfruttare al massimo lo strano spazio disponibile, sarebbe stata dunque quella di edificare una sorta di “antica colonna” nel centro esatto di New York, che potesse apparire da particolari angolazioni come un letterale oggetto fuori dal contesto, qualcosa in grado di nutrire, e al tempo stesso sfidare, l’immaginazione dei suoi stessi utilizzatori. Per farlo fece in modo di sfruttare un cambiamento significativo nelle norme e regolamenti edilizi urbani, che per la prima volta a partire da quell’anno permetteva l’impiego di scheletri d’acciaio interno senza violazioni del codice antincendio, favorendo il mantenimento di forme architettonico sensibilmente più ambiziose, e strutturalmente impressionanti, che mai prima di quel fatidico momento. L’ispirazione possibile, per quanto ci è dato desumere, potrebbe essere stata quella del “ferro da stiro” di Atlanta, l’English-American Building del 1897 che costituisce un simil cuneo tra i viali principali di quella città, ma anche la Casa Saccabarozzi di Torino (soprannominata fetta di polenta) risalente al 1840, se non addirittura il tempio romano triangolare della città in rovina di Verulanium, nella Britannia del Mondo Antico. La scala, tuttavia, è del tutto priva di precedenti: crescendo alla velocità inimmaginabile di un piano a settimana, il Fuller Building ne raggiunge ben presto i 21, vedendo la sua facciata progressivamente ricoperta di pannelli di terracotta. Senza raggiungere in alcun modo la stravagante imponenza dei disegni preparatori di Burnham, e guadagnando contrariamente alla sua idea d’origine lo spazio commerciale triangolare in corrispondenza della sua “prua”, inizialmente affittato alla catena di tabaccai della United Cigar Stores, su esplicita richiesta del direttore dei lavori Harry Black e contrariamente all’opinione dell’architetto, che credeva ne rovinasse l’effetto finale. Ma le ragioni del guadagno e recupero dell’investimento, da quel momento, avrebbero dovuto governare la storia di questa struttura…

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La rara “pietra danzante” che si piega come fosse una piadina romagnola

In molti ricorderanno attraverso il corso delle proprie esperienze cinematografiche degli anni ’80 il personaggio del Mordiroccia, descritto dallo scrittore originale del romanzo Michael Ende come un gigante dalla pelle coriacea, capace di trarre sostentamento tramite il consumo di materia non organica, frantumata entusiasticamente tra i suoi denti simili a possenti mole. Ultimo della sua specie (come potrebbe essere altrimenti) l’essere descrive quindi all’eroe protagonista della narrazione il gusto posseduto dai diversi minerali: la spontanea dolcezza dello zinco, il sapore salato del rame, l’intenso umami posseduto dal ferro. E le consistenze tanto varie e sconosciute agli uomini, numerose quanto quelle di pietanze distribuite sulle nostre tavole dell’ora di cena. Ma se quel titano gentile, ci viene dato ad intendere, avesse mai voluto masticare, masticare qualche cosa per un tempo superiore al singolo minuto, si sarebbe ritrovato a fare i conti con un grave ostacolo procedurale: l’effettiva mancanza, a beneficio delle proprie proporzioni e preferenze alimentari, di un qualcosa che potesse fungere in maniera simile ad un chewing gum. Un gran peccato, per il regno di Fantàsia, quando si considera come la nostra prevedibile e familiare Terra ospiti tra i suoi depositi geologici qualcosa in grado di servire esattamente a tale scopo. Una cosa che parrebbe sfuggire alla definizione stesso del concetto espresso da tale parola, eppure per sua formazione, provenienza e composizione, giammai potrebbe essere null’altro di apprezzabile dall’esperienza sensibile di chi usa gli strumenti della ragione. “A-arenaria?” Pare quasi di sentire il rombo che riecheggia in mezzo alla palude, mentre mette in bocca il singolare dono proveniente dall’altro lato del portale: “Quanto dura il suo sapore, oh, quanto dura!”
Più che dura ed abbastanza, potremmo affermare con particolare presenza di spirito e d’intenti. Poiché qui di effettivamente durevole, c’è soltanto quello; mentre il pegno mineralogico del nostro affetto, con tanta magniloquenza offerta all’imponente ospite della serata, oscilla a trema, si piega e non mantiene la sua forma. Ovvero tutto quello che ti aspetteresti da un qualcosa di derivazione vivente, ovvero scheletro o residuo di esseri già fagocitati dal furioso Nulla delle circostanze. Niente di più sbagliato… Di questo! Griderebbe al nostro indirizzo il Marchese di Lavradio, vicerè di Rio de Janeiro, che per primo nel 1780 scoprì e descrisse le notevoli caratteristiche di un tale materiale ritrovato presso il monte Itacolumi, nella porzione meridionale della regione sudamericana di Minas Gerais. Mancando di assegnarli un nome ma annotando la presenza di una certa quantità di talco, clorite e mica, all’interno di un corpo mineralogico a base di arenaria fissile trovata nel sostrato coloniale. E soprattutto la capacità niente meno che sorprendente, da parte di un simile soggetto sperimentale, di piegarsi per l’effetto di una sollecitazione ragionevole, o persino sotto il suo stesso peso, una volta tagliata in strisce abbastanza sottili. Una dote per di più isotropica, ovvero indipendente da una singola direzione della grana, bensì in grado di verificarsi lungo l’estendersi dell’oggetto in qualsivoglia senso, proprio come si trattasse di un foglio di carta o tappetino per il bagno ammorbidito dall’acqua furiouscita da una vasca eccessivamente piena. Pur mancando dei moderni metodi d’analisi petrologica, e mancando di assegnargli un nome più specifico di quello di “arenaria flessibile” il Marchese avrebbe quindi trovato una conferma delle sue ricerche nei rapporti di Mr R.D. Oldham, direttore dell’Istituto Geologico dell’India, capace di trovare un tipo di pietra molto simile presso le pendici del monte Kaliana, vicino Dadri a Jhind. Con la sola significativa differenza di una grande quantità osservabile di quarzite nella sua composizione, tuttavia capace di accrescere, piuttosto che diminuire, le sue implicite capacità di flessione. Un effettivo appellativo utilizzabile per il concetto di tale misteriosa materia sarebbe quindi giunto dal mondo accademico europeo, alla consegna dei campioni in sede al geologo Von Eschwege, che scelse di chiamarla semplicemente itacolumite, dal suo luogo di provenienza originale in Brasile. Fu questo l’inizio, di un lungo periodo d’approfondimento ed introspezione…

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La forte pioggia che ha invitato i gamberi preistorici a rinascere in Arizona

E fu così che un caldo giorno d’estate, all’improvviso, la piazza fu nuovamente gremita di esseri viventi. Quella stessa superficie sotto il livello del terreno, dove oltre mille anni fa il pueblo degli Anasazi era solito riunirsi per i grandi eventi politici, culturali e soprattutto le importanti partite al gioco rituale della palla, chiamato dalla maggioranza ōllamaliztli o tlachtli. Con una differenza particolarmente significativa, tra le tante: la maniera in cui il terreno permeabile aveva agito da barriera per un’intensa pioggia stagionale, formando la ragionevole approssimazione di un bacino acquatico stagionale. All’interno del quale, qualcosa di ancor più antico aveva avuto modo di risvegliarsi. Stiamo parlando, per intenderci, di circa 250 milioni di anni riferiti alla specifica discendenza di queste creature, risalenti in modo più che letterale “all’epoca dei dinosauri”. Come orgogliosamente scritto sulla scatola delle loro uova tanto spesso essiccate, prima di essere vendute per agevolare un particolare tipo d’esperimento educativo. Concettualmente non così diverso da quanto successo recentemente presso il Monumento Nazionale di Wupatki, non troppo lontano da Flagstaff, AZ.
Ma c’è qualcosa di davvero speciale nell’improvvisa quanto inaspettata ricomparsa spontanea di centinaia, se non addirittura migliaia di esseri adattati alla vita subacquea, all’interno di uno spazio totalmente secco fino a poche settimane prima e che tale era rimasto per un’ampia quantità di mesi: appena 10,2 centimetri di pioggia in tutto il 2020, per poi riceverne 12,7 nel giro di una singola settimana e mezzo nel corso dello scorso luglio 2021. Abbastanza da cambiare le regole e dare inizio ad un particolare processo reiterato attraverso i secoli: il ritorno dei cosiddetti gamberi girino americani, altrimenti detti Triops longicaudatum. Presenze abbastanza insolite da portare a una reazione di significativa sorpresa da parte dei visitatori che per primi li hanno avvistati, e non meno spiazzamento da parte dei ranger incaricati di gestire e proteggere l’antico sito. Difficile, d’altronde, conciliare il singolare aspetto di questi abitanti a quello di qualsiasi altra entità terrestre, con la possibile eccezione del limulo (L. polyphemus) della costa est statunitense. Con proporzioni ridotte a un massimo di 7,5 cm, rispetto al granchio corazzato con l’aculeo che può arrivare a misurarne fino a 60 e “soli” tre occhi, contro i nove della controparte. Che in effetti appartiene al phylum dei chelicerati assieme ai suoi più prossimi parenti, i ragni. Laddove l’esserino triocchiuto in questione è un crostaceo a tutti gli effetti, nell’ordine dei notostraca, databili almeno all’epoca del Triassico secondo i fossili classificati fino a questo momento. Ecco, dunque, una creatura che esisteva su questa Terra molto prima della venuta degli esseri umani, e che probabilmente riuscirà tranquillamente a farlo dopo la loro dipartita grazie al principio della conservazione morfologica, che gli ha permesso di mantenersi sostanzialmente invariati per un tempo maggiore rispetto a quello di qualsiasi altro animale di cui abbiamo conoscenza. Una vita semplice ma funzionale, consistente nell’attendere pazientemente per molte settimane o mesi nella forma inerte di un uovo, fino al riformarsi del proprio habitat naturale di pozze situate in alcuni dei luoghi più secchi in assoluto. Diventate improvvisamente, causa l’arrivo di un fronte monsonico o altri fenomeni comparabili, capaci di sostenerli per il tempo necessario a nascere, crescere e riprodursi. Affinché il ciclo possa riuscire a ripetersi, ancora una volta e per molti inusitati secoli a venire…

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I soccorsi non arrivano? Cinque minuti per montare l’elicottero e decollo da me

Il problema: coraggiosi piloti d’aerei da combattimento vengono talvolta, sfortunatamente, colpiti dal nemico in territorio ostile. l molti fondi investiti nei sistemi di eiezione o la resilienza dei motori costruiti dalle compagnie statunitensi, quindi, permettono a costoro di toccare terra sani e salvi, qualche volta senza riportare nessun tipo di conseguenza alla persona. Nell’immediato. Perché a quel punto, se c’è un qualche tipo di conflitto in atto (e non può certo essere altrimenti, giusto?) ciò che tende a capitare è che truppe di terra sufficientemente astiose accorrano sul luogo del disastro. Per catturare tali uomini, portarli presso il proprio campo base, farli propri prigionieri ad libitum. Pure leggi della guerra, si potrebbe anche affermare, intese come implicazioni inevitabili per chi si arma e affronta gli avversari politici della sua nazione. Accettando, se vogliamo, il pericolo assieme alle speranze di gloria. Eppure verso il concludersi del sanguinoso conflitto coreano, con ancora nella mente ben impressi i ricordi della seconda guerra mondiale, l’aviazione statunitense elaborò un particolare processo mentale; per cui tale sconveniente piega degli eventi si era ripetuta fin troppe volte. Lasciando il posto, per chi avesse avuto l’intenzione d’imboccarla, all’invitante tracciato di una possibile strada alternativa.
L’idea: era la seconda metà degli anni ’50, dunque, quando i vertici dell’Arma stabilirono una serie di parametri, applicando i quali sarebbero stati proprio tali falchi appiedati, per la prima volta, a mettere in salvo loro stessi dal pericolo, mediante l’attuazione di un progetto alternativo. Quello per la costruzioni di particolari mezzi volanti, che potessero essere tenuti a bordo dei velivoli più grandi come letterali scialuppe di salvataggio, oppure paracadutati sul bersaglio pronti ad essere sfruttati per tentare il tutto per tutto. Qualcuno ricorderà, a tal proposito, l’argomento precedentemente trattato su queste pagine del Goodyear Inflatoplane, un letterale aereo gonfiabile conforme ad una simile ambizione, rimasto allo stato di prototipo sebbene costruito in ben 12 esemplari. Un destino simile a quello toccato, pochi anni prima, ad un diverso approccio nei confronti della stessa identica questione: quello offerto al volo ad ala rotante, grazie al contributo di uno dei maggiori pionieri di questo ramo. La Hiller Helicopters, come si chiamava in quegli anni, era la compagnia californiana fondata da Stanley Hiller, personaggio di caratura paragonabile a quella del più celebre Igor Sikorsky, altrettanto strumentale per validazione negli anni ’30 e ’40 del concetto quasi-folle di volare a bordo di un marchingegno diabolico come un’aerodina a sostentazione dinamica, vibrante ed instabile per sua stessa concezione. Con abbastanza convinzione ed attenzione ai dettagli da permettergli di vincere, entro il 1953, il concorso indetto a tal proposito, grazie all’elaborazione preventiva di quello che sarebbe diventato uno dei primi e meglio riusciti elicotteri ultraleggeri della storia: il ROE Rotorcycle, destinato ad essere soprannominato dai cinegiornali come una sorta di “bicicletta dell’aria”. Ed osservandone caratteristiche, ingombro e configurazione, non è affatto difficile comprenderne la ragione: con un peso complessivo di appena 140 Kg, il singolo sedile sovrastato dal rotore principale e quello di coda al termine di un palo in grado di raggiungere i 3,84 metri dallo schienale inclusivo d’impianto di propulsione, l’oggetto volante parzialmente identificato ricorda molto da vicino il tipico gadget sfoderato nel momento culmine da un personaggio come James Bond, con la significativa differenza di esistere davvero, ed avere per lo più uno scopo pratico definito in maniera estremamente chiara. Quello di entrare all’interno di un cilindro standard di trasporto grazie a un’ingegnosa serie di piegature e paletti di fissaggio, tali da renderlo perfetto da sfoderare e montare in tempi estremamente brevi nel giro di appena 5 minuti. O almeno, questo è quello che si pensava all’epoca della sua preventiva approvazione…

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