Il cardiologo che sfrutta la sapienza del telaio boliviano

Tutto è cominciato un giorno all’apparenza uguale, quando qualcuno pensò di fare un qualche cosa di diverso. Prendere la paglia, qualche sasso, un cumulo di rami. Ed eseguendo una precisa serie di gesti, accese il fuoco. E invece guardaci qui, adesso! In una sala totalmente sterile, un gruppo di tecnici straordinariamente specializzati fa avanzare un tubo fino al cuore di un bambino. E premendo sull’imboccatura in un preciso modo, aprono l’ombrello che potrà permettergli di giungere serenamente alla maturità. Il che non tiene conto del nesso centrale, che connette saldamente questi due momenti: la donna con il filo ed il telaio, che attualizzando il flusso di una conoscenza antica, tale panacea miracolosa l’ha costruita, dopo anni trascorsi ad assemblare la mantella, il cappello e addirittura la bandiera. Di un popolo che vive a 4.000 metri in media dal livello del mare, ma che per il resto, vive gli stessi drammi di noialtri esseri umani.
Se si prende in considerazione la sopravvivenza degli organismi unicellulari, quali amebe, microbi o batteri, si può giungere alla conclusione che essa sia la risultanza di uno sforzo semplice e sincero: la creatura nasce, si muove in cerca di nutrimento oppure effettua la trasformazione della fotosintesi e poi ci riesce, la mitosi. Quindi muore. Diverso è il caso di appartenenti al regno animale di tutt’altro grado di complessità. Poiché un organismo, in qualità di sistema di ossa, organi, distinte membra ed un cervello, è per sua natura implicita un qualcosa di assai simile a una macchina costruita per un fine. In cui ciascuna parte deve svolgere un lavoro, contando su una pletora d’interconnessioni dall’estrema sofisticazione. Un corpo nel quale basta un singolo ingranaggio, un intoppo, un volano fuori dai registri, perché lo scorrere del tempo cessi di verificarsi, senza la minima speranza di tornare a ciò che era… Per quanto possa essere facile comprendere una simile realtà dal punto di vista teorico, sono poche le persone che la tengano presente in ogni fase della propria vita. Benché possa giungere un momento estremamente triste, nella vita di ognuno, in cui una tale vulnerabilità ritorna prepotentemente in primo piano. In relazione a se stessi o a una persona cara, per la diagnosi di un qualche male, o forse ancora peggio, alla nascita di un figlio congenitamente svantaggiato. La potenza della mente è come un’onda di marea. E nel momento in cui raggiunge questa riva, del volere offrire spazio ed una vita alla progenie, può essere difficile non affogare in mezzo alla disperazione senza fine. Specie se si vive in un paese finanziariamente povero e privo d’infrastrutture, come la Bolivia, dove la mortalità infantile è tra le più alte al mondo Africa inclusa. Ed è così a quel punto, che entra in gioco la capacità di un altro grande innovatore, che stavolta, possa appartenere a un categoria precisa: coloro che applicano la scienza alla medicina, grazie agli strumenti della modernità. E non solo.
Franz Freudenthal è un nome che potreste aver già sentito. Oppure forse no. Dopo tutto non ci sono particolari ragioni per cui un abitante del cosiddetto Nord del Mondo debba ricorrere alla geniale invenzione di questo medico, quando ci sono innumerevoli alternative quasi sempre altrettanto funzionali, ma molto più costose, prodotte da alcune delle più rinomate compagnie farmaceutiche della scena globalizzata. E chi vorrebbe mai spendere di meno, per risolvere una problema importante quale la sopravvivenza della propria stessa prole? Eppure simili questioni trascendono la geografia ed invero, anche la classe sociale di appartenenza. Così un’idea simile, per via diretta ed indiretta, è in grado di costituire una risorsa più che mai preziosa della collettività. Mirata alla soluzione di un problema estremamente specifico, il cui completo nome è cognome è “Pervietà del dotto arterioso di Botallo”. Svolgimento: tutti noi, prima della nascita, abbiamo fluttuato per un periodo di circa 9 mesi all’interno di un liquido, nel grembo della nostra madre. Riuscendo a sopravvivere, e persino crescere, ancor prima che i nostri organi avessero modo di iniziare a funzionare. Il che è avvenuto, come da programma, in un preciso ordine, che per molte valide ragioni ha dato la priorità al cuore. Nel corso dell’intera vita fetale, dunque, ed ancora dopo la nascita per qualche ora, il flusso della circolazione sanguigna ha potuto contare su un particolare passaggio interno a tale nucleo primario, che gli permetteva di bypassare il più lungo e ancora insicuro tratto dell’arteria polmonare. Essenzialmente una bretella tra due autostrade, a partire dall’aorta, estremamente inutile a seguito della formazione dell’organismo fatto e finito. Che a quel punto, dovrebbe chiudersi. Ma ahimé, non sempre questo succede.

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La felce che fiorisce dove il fulmine colpisce

Sotto ogni singolo punto di vista concepibile, manca al mondo una ragione valida per mettersi a smontare i forni a microonde. Poiché all’interno c’è un condensatore, il cui potere è accumulare e trattenere l’energia. Per poi scatenarla tutta assieme, anche se l’hai scollegato dalla rete elettrica, con una forza sufficiente a fare fuori una persona o due, anche a molte ore di distanza. Soltanto un pazzo, dunque, potrebbe pensare d’imitare un tale esperimento. Ma negli occhi vividi dello scienziato e dell’artista, non c’è nessuna cosa non bella. Il folto pelo della natura, le sue orecchie a punta con gli artigli da gatto e la coda sinuosa e serpeggiante, che si appoggia alle caviglie delle cause pretendendo la carezza dell’analisi efficace. Ed è proprio in questo miagolante gatto, nel cui verso c’è la pioggia o il rombo delle cascate, il fruscio dei raggi cosmici e la musica del cosmo dei pianeti, che alberga l’armonia perfettamente intatta di un fondamentale senso d’equilibrio. Persino quando sfodera gli artigli, per punire l’ospite che si è preso troppa confidenza nella stanza del padrone dei divertimenti. È un po’ questo il senso ultimo dei temporali, a ben pensarci, per cui accade che talvolta l’elettricità si accumuli all’interno di una nube. Fino al raggiungimento di un potenziale talmente elevato, da doversi scaricare verso il singolo oggetto più elevato nel bel mezzo oppure ai margini di una radura. E fu così che qualche volta, un tale oggetto era costituito dalle spalle o dalla testa di una singola persona. “Illuminato da Zeus” lo chiamavano un tempo “Fortunato per definizione.” per poi aggiungere “La sua sopravvivenza è un ricettacolo ricolmo di presagi.” Il che naturalmente, non aveva alcun riscontro tra i fenomeni osservabili coi nostri stessi occhi. Nossignore, più che altro, essere colpiti è un’esperienza sconvolgente. Che scombussola i tessuti, infrange le pareti cellulari, scuote le ossa e aumenta la temperatura, fino ad ustionare gli organi causando un mare di dolore. Ma c’è una chiave di lettura, come dicevamo, che riesce a ritrovare addirittura in questo, il nesso e la ragione. E fu così notato, fin dai tempi antichi, che le vittime dei fulmini talvolta riportavano disegni sopra il corpo. Simili ad un tatuaggio rituale, di talune culture d’isole remote, concepito per raffigurare gli elementi o le creature, al fine di carpirne la potenza innata in qualche impercettibile maniera. O per essere specifici, figure vegetali e ramificazioni.
Perciò sapete che vi dico? Si può fare, in teoria. Col che intendo che vi sono alcune classi di persone, particolarmente immuni la senso universale della ragionevolezza, che quel forno orribilmente pericoloso l’hanno smontato. E con un filo avvolto nel nastro isolante, ne hanno veicolato il potenziale su di un pezzo di legno, materiale in nessun modo conduttivo, con una potenza tale da renderlo, alla fine, luminoso. Col che non intendo che abbia preso fuoco (benché talvolta, succeda proprio quello) ma che l’energia termica che si accompagna all’elettricità ha iniziato a diffondersi su questa superficie, in maniera all’apparenza totalmente casuale. Rispettando unicamente due leggi: seguire la strada di minore resistenza, ed evitare lo spazio già occupato da cariche che abbiano la stessa polarità. Il che, in soldoni, ha portato al formarsi di un debole alone attorno al punto di contatto, dalla carica del tutto negativa, da cui s’irradiano una serie di rami serpeggianti, tracciati dal passaggio della fuga di più intensi, e rapidi, conglomerati di protoni. Che è poi la stessa cosa che succede sulla pelle di chi incontra il fulmine celeste senza una colpa, e ricevendo il tocco del suo marchio, riporta il danno delle sfortunate circostanze. Ma guardiamo la questione da principio, ovvero con lo sguardo di colui che l’ha scoperta, finendo poi per dargli il proprio nome: tedesco, scienziato, saggista, anglofilo, Georg Christoph Lichtenberg, insegnante di fisica all’università di Göttingen a partire dal 1769. Famoso per la sua idea, all’epoca del tutto nuovo, di far accompagnare le sue spiegazioni a vari tipi d’esperimenti e dimostrazioni pratiche, tramite l’impiego di strumenti scientifici di vario tipo. Tra cui ce n’era uno chiamato l’elettroforo, che egli amava particolarmente, costituito da un disco metallico sospeso del diametro di circa due metri, attaccato a una carrucola. Sotto il quale, trovava posto un’altro in materiale dielettrico (isolante) come cera o resina che qualcuno, presumibilmente uno studente, veniva chiamato a strofinare con un panno generando l’elettricità statica. Al che lui, manovrando il meccanismo, avvicinava il piatto sovrastante per permettergli di caricarsi. E poi, toccandolo semplicemente con un dito, faceva continuare in se la corsa dei protoni. Intrappolando nel metallo una carica di certo non letale, ma bastante per effettuare una singola, essenziale prova…

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La nave che rimuove piattaforme petrolifere dal mare

Oltre la tenebra nel mare delle onde, una torre di metallo giace. C’è stata un’epoca in cui era utile. C’è stato un tempo in cui venne finanziata. Risorse ingenti furono investite, dalla Shell UK nell’ormai remoto 1976, per disporne in serie quattro, più un’altra finalizzata alla logistica, in una linea irregolare lungo il Bacino Est delle isole Shetland, nel Mare del Nord. Come una mostruosa zanzara, il parallelepipedo “Delta” a tre zampe ha quindi conficcato una trivella nel fondale del giacimento Brent, per dissetarsi del petrolio nascosto sotto i granchi e le aragoste. Per decadi, e decadi, si è abbeverato a questa fonte. E ora che non c’è più nulla, tranne il desiderio…. Abbandonata e arrugginita dal 2011, nel silenzio delle circostanze e senza la speranza di un domani, la piattaforma si è cristallizzata come una crisalide dismessa; finché le leggi internazionali, i decreti del governo inglese, o uno di quei rari sprazzi ragionevoli all’interno di una corporation con finalità di profitto, non avessero evocato l’epilogo di questa storia. Cessata la necessità, ciò che abbiamo è solamente il potenziale di un problema. Ma ci sono persone che vengono pagate, per risolvere i problemi.
Se lo scorso 28 aprile del 2017, per uno scherzo inappropriato del destino, qualcuno si fosse trovato ancora a bordo della piattaforma, ciò che avrebbe visto lo avrebbe portato a dubitare della propria stessa sanità mentale. Emergendo all’orizzonte, visibilmente schiarita per l’effetto dell’atmosfera, un’intera città che avanza, con due braccia sovradimensionate tese in avanti. Non era questa un’invasione aliena, o un miraggio sul modello delle fata Morgana, bensì l’inizio di una lotta fra titani, nella quale, in ultima analisi, avrebbe vinto quello dall’imponenza maggiore. Come poteva essere altrimenti? 23,500 Vs. 362.000 tonnellate, spinte innanzi da 12 motori diesel direzionabili da 8.225 cavalli ciascuno. In un universo parallelo, dove non esistono le considerazioni e ragionevolezza, la procedura in questo frangente sarebbe consistita unicamente nell’andargli contro e frantumarla, per poi divorare i pezzi e rigurgitarli nel mare. Mentre l’approccio materiale alla questione, attentamente pianificato per un periodo più che decennale dalla compagnia partner svizzera Allseas, fu ovviamente destinato ad assumere una strategia più ragionevole e risolutiva. Il nome dell’imbarcazione semisommergibile: Pieter Sch…anzi no, Pioneering Spirit. La sua funzione: sradicare cose enormi, quindi sollevarle e trasportarle fino a riva. Oppure metterne di nuove in posizione, per dare i natali a un nuovo capitolo di questa storia. Perché mai, vi chiederete…. Beh, le ragioni sono molte. Smontare una piattaforma petrolifera in alto mare è costoso, difficile e potenzialmente lesivo per l’ambiente. Se possibile, chiunque ne farebbe a meno e non sono in effetti niente affatto pochi, i rimasugli degli antichi giacimenti ancora adesso sparsi per il mondo, in attesa di un Rinascimento energetico che non arriverà mai. A partire dal 2017 quindi l’azienda in questione, principalmente operativa nel settore delle costruzioni marittime e la posa dei tubi sommersi, ha iniziato a concepire una sua personale arma di mercato, talmente inusitata da crearsi l’esclusiva di una nuova mansione.
Quindi, bando ai giri di parole. La Pioneering Spirit è allo stato dei fatti la nave (intesa come battello in grado di muoversi col suo motore) più grande del mondo dal punto di vista di tre criteri: larghezza (123,47 metri) capacità massima di trasporto (900.000 tonnellate) e volume (403,342 gt). Ma non è neanche questa, la ragione che la rende maggiormente originale. Bensì il metodo di funzionamento, ovvero la ragione stessa della sua costruzione…

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Lo strumento scientifico dal peso di 456 tonnellate

Sul ponte della portaerei USS Carl Vinson, proprio accanto alla torre di comando, stava per succedere qualcosa di molto particolare. Il pannello metallico di un JBD (Jet Blast Defector) era stato sollevato, ma nessun aeroplano sembrava pronto al decollo. Dinnanzi allo scudo meccanico, invece, era stato disposto un motore a reazione, collegato ad un grosso serbatoio di carburante e saldamente montato su un’impalcatura assicurata alla nave. Al segnale di un tecnico, gli addetti alle segnalazioni si radunarono ai margini della scena, per assistere al fatidico momento: quindi, un boato. La fiamma abbagliante, e il calore incandescente, così concentrati in un singolo punto, per 10, 20, 30 secondi. Un tempo che sembrava non passare mai, mentre chiunque avrebbe potuto pensare, senza le cognizioni dell’esperienza acquisita, che la protezione metallica dovesse fondersi da un momento all’altro per il mero bailamme infernale. Ma il direttore dei lavori, con il suo tablet e la cuffia da isolamento del suono, non sembrava in alcun modo impressionato: “Porta la forza a 60 kN, per piacere” Segnalò coi gesti al suo assistente, come da prassi collaudata in un altro migliaio di test…. Come, potreste chiedervi. Come è possibile? Come può essere che costoro riescano a misurare, con una simile precisione, energie tali da scagliare una piattaforma d’armi ai confini con l’atmosfera, a una velocità di tre volte quella del suono? La risposta è in svariate decine di cilindri in polimeri piezoelettrici, incorporati in un blocco di metallo all’interno del JBD. Il cui nome, collettivamente, è trasduttore di forza. E la cui storia inizia nel Maryland, all’interno di un’altra torre, dall’aspetto decisamente particolare…
Quantità infinitesimali accuratamente misurate su bilance elettroniche, prima di essere poste sotto l’occhio scrutatore di un microscopio. Pinzette di precisione, che sollevano il granello, che lo spostano sul piattino, dentro il quale si aggiunge una singola goccia di liquido colorante: non è forse questo, il metodo scientifico? La presa di coscienza delle minime quantità, alla ricerca della precisione definitiva. E se vi dicessi che esiste un laboratorio, invece, dove la prima cosa non determina la seconda? Ovvero, in cui si lavora sugli atomi, ma miliardi e miliardi di atomi, congregati in un’unica torre d’acciaio dal peso di un milione di libbre inglesi. Certo, perché qui siamo negli Stati Uniti d’America. Dove un buon scienziato riceve le misure nel sistema imperiale britannico, le converte alla maggiore efficienza di quello decimale per lavorarci. E poi le riporta alle misure originarie, al fine di presentare i risultati al Congresso. Perché è questo che vuole la tradizione. E in fondo, per un vero ingegnere non fa differenza. Mentre ciò che conta è la suprema, assoluta, inconfutabile precisione di un dato. Attraverso metodi e strumenti, talvolta, dall’alto grado di specificità. Questa, dopo tutto, è la risposta ad un’esigenza sentita soprattutto negli anni ’60 dello scorso secolo, durante le fasi culmine della corsa per arrivare alla Luna. Quando nessuno ancora immaginava che fosse possibile realizzare una simile impresa: trovare una cifra esatta alla singola unità di forza, su una quantità totale massima di 4.448.222 Newton (come dicevamo per l’appunto, un milione di libbre). Grazie a quella che potrebbe essere definita, per analogia, come una sorta di enorme bilancia. Ma serve in effetti a calibrarne delle altre, molto più piccole e facilmente integrabili in alcuni dei più potenti meccanismi mai costruiti dall’umanità. Passiamo quindi a descriverne il funzionamento: si tratta, essenzialmente, di una catena di pesi. Che possono essere sollevati in sequenza, a seconda delle necessità, all’interno di un palazzetto di 10 piani facente parte del NIST, l’Ente Nazionale per gli Standard e la Tecnologia. Struttura che ricevette nel 1889 un preziosissimo blocco di una lega speciale d’iridio e platino, dalla forma cilindrica ed il nome di K20. Il quale a seguito di quel fatidico momento, sarebbe diventato il punto di riferimento del chilogrammo americano. Ma quando ne hai uno, si sa, ne vuoi di più grandi…Il che comportava, essenzialmente, di realizzarne due copie esatte e soppesarle con un singolo peso corrispondente. E poi prendere due di quelle cose, per metterle contro un’altra ANCORA più grande. E così via, fino all’equivalente a 10 furgoni in un singolo blocco, però non più grande della botola di accesso ad un sommergibile da battaglia. Il cui peso fosse chiaramente noto, fino all’equivalente della massa di un nickelino!

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