L’effetto devastante della lava nelle Hawaii

Lava Pahoa

Nascosta in mezzo a un turbine di fumo, assisa sopra un trono di spade d’ossidiana, la dea Pele guarda pensierosa le pareti del cratere Halemaumau, il più pericoloso e ardente dell’intero massiccio vulcanico del Kilauea. “Mi stanno spiando…Di nuovo!” elabora muovendo appena le sue labbra. Quindi, compie il gesto. Le sue vesti rosse che si animano per correnti impercettibili, i lunghi capelli d’improvviso immobili nel vento. Come essere divino, ella non ha tempo né età, mentre le motivazioni stesse del suo agire, talvolta crudele e ingiustificato, restano un mistero per la gente della terra soprastante. Possono passare 10 anni. Molto spesso basta meno. Perché lei compia nuovamente, secondo la prassi ormai notevolmente collaudata, un’invasione della superficie tra le più pericolose, distruttive e rovinose conosciute dalla storia naturale. Qualcuno potrebbe scegliere di definirla, volendo dare spazio alla scienza e alla natura, una vera e propria Eruzione. Già, stiamo parlando di QUELLA particolare calamità, la liquefazione di ciò sopra cui giace il nostro suolo, mentre le pressioni accumulate nelle Ere premono con forza, dando luogo a un fiume che non può essere fermato. Un terribile dispendio d’energie, volendo analizzare a fondo la questione… Quanto tempo pensate, dunque, che un vulcano possa rimanere quotidianamente attivo, con colate, lapilli e tutto il resto? Giorni, settimane, mesi? Vi state avvicinando. Perché questo particolare luogo di sfogo geologico sito nell’isola di Hawaii (la più grande dell’omonimo arcipelago) sta continuando a dar spettacolo, in maniera totalmente ininterrotta, niente meno che dal 1983. La volta precedente, si era andati avanti fin dal 1952. Un tempo decisamente eccessivo! Le generazioni si susseguono. Cessa, persino, la paura irrazionale, con una particolare industria del turismo, ben fornita d’imbarcazioni di vario tipo ed elicotteri , che trasporta il pubblico pagante a prendere visione della rabbia di Pele. Ma in ogni goccia di bruciante materiale, in ogni refolo di fiamma, è contenuto il piano occulto dell’origine del mondo. Lo stesso quantum catastrofico che infine, terminata l’epoca dell’uomo, tornerà di nuovo rilevante. Nulla sparisce, tutto si trasforma: però, guarda un po’. Questo non significa che resteremo vivi, per goderci lo spettacolo infuocato.
La lunga scena d’apertura è stata prodotta con l’assistenza dell’Istituto di Osservazione Vulcanologica delle Hawaii sito sul bordo stesso della caldera Uwekahuna del vulcano Kilahuea, in occasione di una visita da parte di una scolaresca locale. Esclusivamente usando riprese risalenti all’ultimo e più significativo disastro causato dalla riottosa montagna, risalente al giugno del 2014, quando un’ingente colata lavica si spinse fin dalla sommità fino a molti chilometri di distanza, estendendosi per le foreste e le regioni più abitate della regione di Pahoa. E si tratta di un importante documento che chiarisce al popolo di Internet, sotto molti punti di vista, quanto sia possibile in effetti fare contro ciò che ci precede e che alla fine, riderà dei nostri sforzi collettivi di proteggere l’essenza della civiltà. Tutto inizia con la squadra operativa, immediatamente riunitasi come da programma, che parte per la zona interessata con diversi camion e mezzi pesanti da cantiere, con l’intento per lo meno di salvare il poco che può essere salvato, e reintrodurre un parvenza di controllo nel futuro di chi vive in tali luoghi. La prima operazione compiuta, che è anche più importante, consiste nel proteggere i pali della luce e del telefono. Perché come potrebbe mai la gente, altrimenti, coordinarsi nel trasportare in salvo quanto prima le sue cose? Nel momento in cui la roccia fusa abbatte una qualsiasi cosa, la materia fusa si solidifica e rimane lì, incandescente per mesi, impedendo qualsivoglia tentativo di riparazione. Così è fondamentale, finché ce n’è il tempo, premurarsi di costituirvi una barriera tutto attorno, poco dopo aver avvolto la struttura con del materiale ad alta resistenza termica. Fatto questo, tutto ciò che resta è spesso mettersi da parte, ed aspettare. Per forza, non lo sapevate? È praticamente impossibile FERMARE o DEVIARE la lava…

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Pilota veterano spicca il volo grazie all’autorotazione

Ken Wallis Flight

L’avevano chiamato pazzo e invece, guarda qui, adesso! No, non lui. Questo è Ken Wallis, beneamata personalità dell’aviazione inglese impegnata in uno dei suoi celebri voli della terza età, decollando ben oltre il confine dei 90. Stavo parlando invece di Juan de la Cierva, l’uomo che nel 1923 ebbe ad inventare questa particolare classe di velivoli, i primi a compiere dei voli significativi grazie allo strumento di un’ala rotante. Che non erano, in alcun senso immaginabile del termine, degli elicotteri: in primo luogo perché le pale del rotore principale, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non erano motorizzate. Da cui il nome: autogiro, benché l’amore moderno per i termini immediatamente comprensibili ci abbiano portato a ribattezzarli, in epoca più recente, come girocotteri. Ma ciò è molto meno descrittivo. E soprattutto, ingiustificatamente derivativo da quell’altro tipo di ventilatore volante, a noi molto più familiare. Mentre tre prototipi successivi di quell’epoca, C1, C2 e C3, assomigliavano piuttosto a degli aerei, con elica di trascinamento (ovvero, posizionata davanti) ali convenzionali dotate di superfici di controllo ed in AGGIUNTA, come una sorta di optional bizzarro, l’elica posizionata parallelamente ad esse, che aveva uno scopo ben preciso ed in un certo senso, persino evidente: impedire lo stallo dell’apparato volatore. Come mai, tanta preoccupazione? Tutto aveva avuto inizio nel ’21, quando l’ingegnere aeronautico spagnolo di Murcia aveva avuto l’occasione di partecipare ad un concorso dell’esercito, per la progettazione di un bombardiere a tre posti da usare nell’allora futura, già paventata ma ancora distante, seconda guerra mondiale. Se non che il suo presunto capolavoro, durante i primi test di volo, venne fatto rallentare troppo dal pilota, che trovandosi privato della portanza, quella forza che le ali generano ricevendo un forte flusso d’aria, cadde rovinosamente giù (fato dell’individuo: a me ignoto). Il che portò de la Cierva alla comprensione di come, se soltanto avesse potuto concepire il primo mezzo volante privo di questo problema, avrebbe non soltanto reso un gran servizio all’umanità. Ma si sarebbe pure guadagnato un posto a pieno titolo nella storia dell’aviazione. Ed anche i diritti sulle concessioni del brevetto ai produttori, perché no…
Fast-forward 90 anni: chi, cosa, come? Siamo in molto pochi, temo, ad avere familiarità con simili dispositivi volanti, con la possibile esclusione di chi è un appassionato specialistico di questa specifica branca dell’aviazione, oppure i semi-giovani che ben ricordano il videogioco per Super Nintendo, Pilotwings. O ancora, tutti coloro che siano abbastanza cresciutelli, o in alternativa appassionati di cinema, da aver visto il film del 1967, “Si vive solo due volte” con Sean Connery nel ruolo di James Bond. E nel ruolo di quest’ultimo a sua volta, per lo meno in una delle scene culmine della vicenda, proprio quello stesso protagonista del nostro video di apertura, quel Ken Wallis che, pur non essendo mai stato chiamato pazzo, di folli macchine volanti se ne intende, eccome! Sopra il monte Shinmoedake nel Kyushu, un vulcano tutt’ora attivo, per ore ed ore, a bordo del suo fido Wallis WA-116 Agile dall’elica a spinta, uno dei più piccoli autogiro mai costruiti…. Proprio per questo soprannominato “Little Nellie”. L’aveva fatto lui, con le sue mani. Benché dubito che potesse essere fatto a pezzi e messo in una serie di valige, come fatto nella trama cinematografica da Q, lo scienziato variabilmente pazzo (anche lui ha le sue giornate) che lavora ormai da decadi per la versione immaginifica del MI6. E che in questo caso, ci aveva visto giusto, considerato come i girocotteri di concezione moderna presentino notevoli vantaggi, sopratutto nelle mansioni di sorveglianza che una spia potrebbe, teoricamente, trovarsi ad affrontare in terra straniera: sono leggeri, non eccessivamente rumorosi. Pur non potendo effettuare il vero e proprio volo stazionario, essi possono rallentare fino al punto che, nel caso in cui ci sia un forte vento, puntare il muso in direzione contraria gli permetta di restare pressoché fermi in aria. Ed anche questo, può servire. Essi sono, inoltre, molto più facili da pilotare dell’alternativa dotata di rotore, avendo in effetti solamente alcuni accorgimenti da tenere rispetto ad un aereo convenzionale, laddove l’elicottero, notoriamente, tende ad uccidere saltuariamente i piloti che facciano il benché minimo errore ai comandi. E poi, sopratutto: non possono entrare in stallo, ovvero perdere troppa velocità e conseguentemente, cadere. Ciò era stato dopo tutto l’obiettivo principale del suo inventore: giacché un girocottero che perda completamente il suo motore, continuerà comunque a procedere per la sua strada, e il suo rotore principale, viste le sue particolari caratteristiche aerodinamiche, non cesserà affatto di girare. Il velivolo, così, potrà essere portato a toccare terra con delicatezza successiva alla sopravvivenza. Esattamente come un aereo ed anzi, anche meglio di esso: la ridotta velocità, infatti, ridurrà di molto la probabilità d’impattare contro qualcosa di solido, come un muretto, e/o inamovibile, come una quercia. E poi, lo sapevate? Può farlo anche l’elicottero. Proprio così…

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L’uomo che da 53 anni costruisce la sua cattedrale

Justo Gallego

“Un edificio così, posso tirartelo su in… 144 ore, esattamente sei giorni. Ed il settimo ci riposiamo” Ah, si. La modernità! Che consente ad un’impresa, del tipo maggiormente rappresentativo di questa realtà dell’edilizia, di costruire un qualche cosa a pezzi, nelle incandescenti acciaierie e gli stabilimenti di lavorazione cementizi. Quindi caricarlo su dozzine di camion, raggiungere la posizione pre-determinata e con un gran dispiegamento di uomini, di mezzi e attrezzature, rendere reale il fabbricato, così. Ci sono aziende prevalentemente cinesi che, negli ultimi anni, si sono ferocemente combattute al fine di creare il palazzo più alto nel più breve tempo possibile (40 piani in 4 giorni, 120 piani in 10 giorni!) dimostrandosi potenze rilevanti nella progressiva inurbazione delle masse popolari un tempo disagiate. Il mondo cresce, l’ha sempre fatto e non potrà mai smettere di farlo. Tanto che sarebbe possibile, allo stato dei fatti attuali, replicare da una luna piena all’altra un qualunque tra le più grandi opere architettoniche del passato. Eppure, in quale modo queste sarebbero la stessa cosa? Nell’aspetto? Possibile. Nella limitatezza di funzioni e convenienza? Forse, ma non credo. Nello spirito? Impossibile! Non tutto quello che lo rende meritevole di essere abitato, merita di essere privato del suo originario quantum di complessità.
Don Justo Gallego Martínez è l’ex cistercense di matrice trappista, con 8 anni trascorsi presso il monastero di Santa María de Huerta nella provincia di Soria, che da quando ne aveva 36 ha fatto ritorno nella sua nativa Mejorada del Campo, una cittadina sul confine di Madrid. Con una finalità davvero particolare: mettere a frutto in modo pratico quanto da lui appreso come costruttore autodidatta, attraverso la lettura di alcuni vecchi tomi sull’architettura dei latini e del Rinascimento, al fine di costruire un edificio di 20×50 metri, con superficie di 8000 metri quadri. Dedicato, molto chiaramente, a Dio. Ma andiamo…Con ordine. Dalla ricca selezione di testimonianze reperibili online, è possibile ricostruire almeno in parte la vita e le esperienze di quest’uomo totalmente fuori dalla convenzione: Gallego Martinez nasce nel 1925, in una famiglia molto cattolica di agricoltori e proprietari terrieri. Ciò gli fornisce, fin da subito, ottime prospettive di una vita agiata, condizione che tuttavia non sembra soddisfarlo. Così egli decide, attorno al 1953, di intraprendere il sentiero della vita monastica, per meglio perseguire la profonda spiritualità del suo sentire. I suoi colleghi del monastero, tuttavia, non sembrano approvare il suo modo di essere, che lo portava ad essere schivo, poco loquace, per quanto possibile persino solitario. Don Justo dedica le sue giornate al solo studio e alla preghiera, rivolgendo appena la parola ai conviventi, finché non capita una fatale evento che accelera il momento di rottura: nel 1961, poco prima di pronunciare i voti definitivi, egli si ammala di tubercolosi, e deve temporaneamente lasciare il monastero di Santa María. Portato d’urgenza all’ospedale di Madrid, inizia un periodo di dura degenza, durante il quale, tra i patémi della malattia, giura: “Se Dio vorrà guarirmi, cambierò il sentiero della mia vita. E la dedicherò completamente a Lui!” Nel frattempo la madre, fervente religiosa, non ha dubbi di sorta: la malattia non è che un contrattempo, i monaci hanno in realtà rifiutato suo figlio e non vorranno più riaverlo indietro. Intuizione che si rivela di lì a poco un’assoluta verità, quando Don Justo, finalmente guarito, sceglie o in altri termini è costretto a trasferirsi col cognato e la sorella, che gli sarebbero rimasti vicini per il resto della vita. Lungi dal perdersi d’animo, quindi, inizia il periodo più profondo di auto-documentazione della sua vita, durante il quale impara da autodidatta i mestieri del muratore, dell’architetto e dell’ingegneria. O per meglio dire, si costruisce nella sua mente una serie di equivalenze, indubbiamente semplificate, di ciascuna secolare disciplina, per poter disporre finalmente di strumenti validi alla realizzazione del suo sogno. Ad un certo punto duro e inevitabile, quindi, gli succede di ereditare le proprietà dei genitori, inclusive di numerosi terrieri agricoli attorno alla città di Madrid. La maggior parte li vende, alcuni li dà in affitto, soltanto uno sceglie di tenerlo per se, nell’area sempre meno rurale dei sobborghi di Mejorada. Nei mesi successivi, con sommo stupore dei vicini di casa, sopra quel suolo iniziano ad accumularsi mucchi e mucchi di mattoni.

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I pozzi petroliferi nascosti tra le palme ed i palazzi di Los Angeles

LA Oil Wells

Lenta e inesorabile, la quattordicimilioni-settecento-quarantunesima del secolo raggiunge il velo denso della superficie, affiora, emerge e poi scompare, disgregata per la cessazione della sua coesione chimica di base. Il messaggero tondeggiante del profondo. L’emisfero già scoppiato tra le foglie morte, per tanti stolidi miliardi d’anni. Silenziosamente, l’osservano modelli in scala 1:1 delle bestie che qui furono sepolte, da risvolti sfortunati dell’altrui destino. Stiamo parlando, per essere chiari di ciò che è, o per meglio dire era, una bolla nel catrame nero fumo, vista tutt’altro che rara qui, vicino ad Hancock Park, nel paese dei sogni e dei balocchi dove ogni volo d’immaginazione pare prendere una forma fisica e immanente. Eppure quella stessa Hollywood, quartiere rinomato e grande fabbrica di mondi, non è che una scheggia transitoria, un refolo di vento, innanzi ai pozzi bituminosi di La Brea, chiare indicazioni di un trascorso d’epoche selvagge, tigri sciabolanti, lupi enormi, bradipi di terra e poi chiaramente lui, il mammut. Lanuginoso testimone di quello che è stato, per sempre incapsulato nella colla naturale dell’asfalto ante-litteram, già usato al tempo delle prime colonizzazioni dalle genti dei Chumash e dei Tongva per dare impermeabilità alle antiche canoe. Mentre a partire dal secolo del ‘900, nell’epoca della possente precisione dell’industria, ci sarebbe parso assurdo far ricorso ad un sistema tanto “naturale” specie quando esistono la plastica, i polimeri, la forza astrusa dell’ingegneria moderna… Ed è per questo che l’universo semi-sommerso di La Brea, oggi dopo tutto, è stato declassato al ragno di semplice curiosità, mentre tutti i suoi migliori fossili, da tempo fatti emergere, sono custoditi nel vicino Museo di Storia Naturale a Wilshire Boulevard, edificio con vista giardino. Ottimo. Così, la gente non ci pensa troppo spesso. A ciò che giace sotto 50, 100 metri di terra compatta, ben oltre le fondamenta dei grattacieli e i tunnel della metropolitana. A cosa macera, dal tempo di Matusalemme, generando i liquidi ed il gas maleodorante che permette al mondo di girare. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Finché, Eureka! Gridò qualcuno di nome Edward Laurence Doheny, che nel 1890, preso in affitto un lotto di terra per il prezzo modico di 400 dollari del 1892, non si mise a scavare con pale, picconi e un trapano a carrucola basato su di un tronco di eucalipto acuminato, fino alla profondità di 69 metri. Dove trovò… Un suo personale pozzo di La Brea, senza particolari fossili del mondo. Ma un mare intero di asfalto bituminoso, dal quale, tramite un processo chimico piuttosto semplice, è possibile creare il PETROLIO. Quaranta barili al giorno nel suo caso, per dire.
Un numero decisamente interessante, per chiunque avesse soldi da investire nella fiorente nascita di quella che già stava profilandosi, a tutti gli effetti, come un primo accenno di fiorente industria delle risorse. Il pozzo di Doheny, che costituiva il primo successo dopo tre intere decadi di tentativi, continuò a produrre per tre anni, durante i quali lui e il suo socio Charles A. Canfield, contemporaneamente ad altri imprenditori, praticarono perforazioni in circa 300 altri luoghi della città. All’epoca, naturalmente, non esistevano grosse fisime sulle sicurezza o norme particolarmente stringenti, così ogni luogo andava essenzialmente bene: dietro le case, nei cortili delle scuole, tra gli alberi dei parchi cittadini… Tutti volevano una fetta della nuova torta d’oro nero, e pressoché chiunque, dinanzi alla prospettiva di un facile guadagno, era pronto a sanzionare la presenza di un ingombrante, rumoroso pozzo d’estrazione a pochi metri dalla porta di casa sua.  Si era scoperto che l’intera città di Los Angeles sorgeva sul terzo mare sommerso di petrolio più grande degli Stati Uniti e il genio dell’avidità era ormai uscito dalla tanica della benzina. Nessuno aveva le risorse per ricatturarlo! Grazie alla celebre propensione imprenditoriale del popolo statunitense, in breve tempo vennero formate circa 200 compagne petrolifere in competizione tra di loro, che giunsero, all’epoca d’oro di questo “trionfo” a gestire un gran totale di 1.250 trivelle attive nello stesso tempo. Le spaziose e famosissime spiagge della città, tra cui l’iconica Long Beach, furono costellate dalle caratteristiche pompe derricks basculanti, che l’immaginario collettivo associa ai recessi più assolati e solitari del remoto Texas, o altri luoghi egualmente prossimi all’ambiente del deserto. Attorno al 1920, la sola città di Los Angeles rispondeva al 25% del fabbisogno MONDIALE di petrolio. Quindi, con l’esaurirsi dei giacimenti più facilmente raggiungibili, le cose iniziarono a cambiare…E i pozzi, ad aumentare!

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