Avreste mai pensato di trovare, in un unico luogo, le cupole appuntite di Angkor Wat, la piscina sacra di Harmandhir Sahib, le torri a gradoni di Shree Jagannath, il giardino del Taj Mahal e la composizione architettonica del gran palazzo Umaid Bhawan di Jodhpur? Il tutto circondato da un bassorilievo con elefanti quasi a grandezza naturale e costruito in arenaria rossa del Rahjastan e marmo italiano di Carrara, avvolto da un’atmosfera particolarmente accattivante ancorché pervasiva, dettata da un senso della santità latente e religione che in più di un modo, ricorda l’istantanea comunicazione mediatica dei nostri giorni? E di certo alcuni (e nel loro paese, è già successo) potrebbero criticare lo stile dialettico dimostrato dai membri della grande setta Bochasanwasi Akshar Purushottam Sanstha (BAPS) dedicata al culto del guru Swaminarayan, che dopo aver viaggiato per tutta l’India all’età di sette anni dedicò la sua vita nel corso del XVIII secolo a insegnare il sampradaya e le norme comportamentali necessari a raggiungere la pace e la serenità universali. I cui eredi sprituali, al completamento di un lungo tragitto e la sufficiente crescita numerica dei loro membri, realizzarono per la prima volta a Gandhinagar nel 1992, in Gujarat, una nuova visione ultra-moderna di quello che potesse rappresentare, nell’epoca delle immagini, un luogo in cui acquisire il più importante significato della vita. Replicato quindi in maniera esteriormente simile ma più grande a Delhi, il cosiddetto Akshardham del 2005 (Dimora del Potente Signore Swaminarayan) è diventato al tempo stesso l’occasione architettonica di studio, comprensione e applicazione del concetto di fede, grazie alla natura multimediale e straordinariamente versatile del suo complesso di edifici. Definito tecnicamente un campus, data la presenza all’interno dei suoi confini di un Centro di Ricerca per le Scienze dell’Armonia (AARSH) ma anche un museo e un luogo di culto, data la celebrazione al suo interno d’importanti cerimonie religiose previste dal calendario dei BAPS, questo sito unico al mondo si è anche trasformato, negli ultimi anni, in una delle destinazioni turistiche maggiormente gettonate della capitale, con decine di migliaia di visitatori annuali, attirati dalle improbabili meraviglie a tema religioso contenute al suo interno. Tra quali altre mura, del resto, sarebbe possibile sperimentare, mantenendo rigorosamente spente le telecamere, uno spettacolo di animatronic e androidi di vario tipo applicato alla dimostrazione di princìpi essenziali per la cultura Hindi, tra cui il vegetarianesimo, la non-violenza e la preghiera, per poi passare attraverso le sale dorate e piene di statue al Nilkanth Darshan (teatro) costituito in effetti dallo schermo IMAX più grande di tutta l’India, dedicato alla proiezione continua di Neelkanth Yatra o per usare il titolo internazionale, Mystic India, lungometraggio di 40 minuti dedicato alla gioventù del santo. Ma è forse l’impiego dell’acqua, ciò che resta maggiormente impresso al visitatore: con il viaggio in barca lungo una rappresentazione degna di Disneyland di oltre 10.000 anni di sapienza e cultura indiana, attraverso diorami di bazaar, scuole e rappresentazioni semoventi di alcuni importanti personaggi del mondo della cultura e religione. Fino all’espletamento, al calar della sera, dell’incredibile spettacolo della fontana musicale Yagnapurush Kund con proiezioni digitali sulla facciata degli edifici, dedicato alla storia di un padre malvagio che offrì il proprio figlio in dono al dio della morte Yama, soltanto per vederlo invece ricompensato per il suo coraggio e restituito al mondo dei viventi. Un degno coronamento, assai difficile da dimenticare, di quello che potremmo definire a pieno titolo il viaggio di scoperta all’interno di una visione del mondo estremamente specifica, eppure applicabile nell’interpretazione di ogni episodio e circostanza umana…
In un affascinante video, celebrata l’evoluzione organica dei cristalli
Immaginate di lanciare una moneta dal finestrino di un aereo, inclusiva di un dispositivo GPS per riuscire successivamente a trovarla. Il tutto con la finalità, inerentemente utile, di creare un grafico con la quantità di volte in cui essa cade mostrando testa o croce. Fatelo 100, 200, 2.000 volte: quanto spesso capiterà che l’oggetto, raggiungendo il terreno di taglio, resti conficcato nella terra soffice di qualche radura disabitata? Non più di una manciata di volte, probabilmente. Eppure moltiplicate la ripetizione del gesto per un numero di volte che tende all’infinito ed anche una tale casistica, per quanto rara, non potrà fare a meno di fare lo stesso. Ed è soltanto per lo stesso rapporto di causa ed effetto, fondamentalmente, che possono esistere determinati tipi di gemme. Frutti inconfondibili del processo mineralogico attraverso cui gli atomi o le molecole si dispongono, sotto l’influsso di condizioni estreme, con un reticolo perfettamente modulare ed infinitamente ripetuto. All’altro capo del quale prendono forma, con imperturbabile progressione, gli orpelli facenti parte delle nostre esposizioni museali, gioielli e in casi particolarmente opulenti le braccia dei lampadari. Eliotropio quarzite ametista diaspro citrina e così via a seguire, come potremmo estrarre da un qualsivoglia libro di cristallomanzia… Eppur sussiste, strisciante ed inevitabile, la percezione che molto altro possa nascondersi dietro le cognizioni liberalmente acquisite, che un mare in tempesta ondeggi letteralmente, sotto l’apparenza solida di questa terra, in attesa che gli occhi umani possano finalmente attribuirgli migliaia, se non migliaia di nomi. Questione citata dal creativo della grafica 3D Dan Hoopert, che pubblicando il suo ultimo video sulla piattaforma multimediale Vimeo ha scelto d’includere come didascalia un brano dell’articolo del 2019 della rivista Earth che affermava: “Esistono 5.000 minerali diversi riconosciuti dalla International Mineralogical Association, molti dei quali documentati a partire da un numero limitato di occorrenze. È perciò improbabile che gli scienziati scoprano nuovi depositi di sostanze particolarmente abbondanti. È invece probabile che molti minerali rari debbano ancora essere scoperti.” Contributo cui si aggiunge, nel caso specifico, l’elaborazione visiva più notevole di quelli che potremmo definire in senso generico cinque tipologie di cristalli fantastici, ispirati a pietre davvero esistenti, da lui mostrati in maniera piuttosto insolita: in quello che potremmo definire, volendo, una sorta di time-lapse esteso attraverso secoli, se non millenni, e almeno parzialmente fantastico nel suo svolgimento. Non ci viene mostrato, infatti, il reticolo cristallino nel suo stato (apparentemente) immutabile, né il processo di solidificazione sperimentato al momento della sua nascita, bensì una sorta di stato intermedio e trasformativo, attraverso cui le rispettive venature delle diverse pietre si allungano fino all’estremo, s’incrociano e formano nuovi reticoli, sistemi all’interno di un sistema più grande. Circondati dal più munifico florilegio delle arcane circostanze. Sarebbe in altri termini possibile paragonare l’effetto risultante a quello del sistema linfatico di una pianta o creatura, rispondente a regole totalmente diverse poiché tipiche del regno della non-vita. Finché in un crescendo finale, le cinque pietre vengono mostrate tutte assieme, mentre lo spettatore, silente, finisca idealmente per vocalizzar tra se e se: “Bello ma vorrei sapere cosa, esattamente, ho appena visto…?”
La guerra sugli alberi di un samurai dalle mandibole importanti
Ho visto quel malefico invasore camminare lungo l’arco superiore del legnoso boulevard. Fellone! Indesiderato! Nemico della società! “Come osi zampettare, fingendo sia normale, oltre i confini dell’albero sotto le cui radici sei riuscito a superar lo stato larvale? Torna da dove sei venuto, non invadere lo spazio dei miei arti d’uccisione!” Dissi e dunque, senza un’attimo di esitazione, sfoderai la coppia d’armi, sempre pronte per mostrare loro chi sia l’unica creatura degna di regnare, sopra la corteccia degli Eoni. Rullo di tamburi, mazze sugli scudi, fulgidi vessilli in mezzo al vento, delle naturali circostanze (se soltanto…) Ed ecco che avanzando, mi ritrovo innanzi a lui, piantato come nulla fosse nel bel mezzo del sentiero. le sue dimensioni, ridicole. Nessuna speranza di competere contro le mie tenaglie. Girando quindi attorno al ramo una, due volte, mi ritrovo presto a stringerlo da dietro. E con momentaneo ma importante sforzo, lo sollevo preparandomi a gettarlo verso il baratro se non che… Aspetta un attimo… Linee aggraziate. Peso minore all’aspettativa. Mancanza di preminenze acuminate lunghe il doppio del suo intero corpo (ottima osservazione, Watson!). Possibile che io… Abbia commesso un terribile errore?
Lasciate che vi parli brevemente, all’ombra dei pini di Araucana ed ispirato dalla penombra umida della foresta cilena, di cosa possa rappresentare, tanto spesso, la rabbia. Un sentimento che proviene dal profondo. L’aggregazione di segnali elettrici, nascosti nel profondo delle sinapsi animali, che permette di anteporre per qualche frenetico momento l’attimo corrente, a qualsivoglia percezione delle conseguenze presenti o future dei propri gesti. La rabbia che può essere un’utile risorsa, valida volendo rintracciare rapide risoluzioni dei problemi ma che può anche, tanto spesso, indurci a commettere i più grandi errori. Come quando in bilico su un ramo, all’altezza di qualche decina di metri da terra, nel tentativo di eliminare fisicamente i nostri concorrenti, finiamo per scaraventar di sotto il premio stesso della nostra fervida tenzone: ella, magnifica, lucente stella di chitina, incapace di comprenderne il significato e la ragione. Poiché il Chiasognathus grantii o cervo volante o scarabeo di Darwin o ancora, l’insetto-con-la-pinza-iper-dimensionata, della rabbia sembrerebbe aver fatto il proprio stesso stile di vita, al punto che dopo innumerevoli generazioni, si è trovato a nascere dotato già dello strumento necessario ad espletarla e tradurla nel più drammatico dei gesti: il wrestling con in palio la sopravvivenza stessa o nel migliore dei casi, il diritto a riprodursi entro la prossima generazione. Come gli altri mostri corazzati della famiglia dei Lucanidi, tra i più minacciosi nonché magnifici piccoli combattenti privi di uno scheletro interno. Insetti ma diversi, da una formica, vespa o zanzara, almeno quanto può esserlo un gatto da un carro armato, vista la propensione determinante a dare sfogo, per pagarsi il diritto all’esistenza, a tutta la notevole forza muscolare delle loro zampe ed articolazioni, in modo sorprendente vista la misura massima di 7-8 cm. due terzi dei quali, occupati unicamente dalle straordinarie preminenze, simili alle braccia di un’orribile tenaglia, che s’irradiano a partire dalla testa aerodinamica degna di un guerriero alieno. Gli insetti ci ricordano, del resto, quello che succede quando ogni singola fibra della nostra essenza è devoluta ad uno scopo, portandoci all’accrescimento di doti specifiche a costo della capacità di adattamento. E sebbene non ci sia una particolare ragione, per cui uno scarabeo erbivoro debba possedere l’equivalente artropode di una coppia di katane incorporate sotto gli occhi, neanche potremmo giungere a pensare che debba essere, in alcun modo, vero l’opposto. Potrà essere soltanto l’istinto, del resto, a guidarli verso un impiego idoneo di simili feroci strumenti…
Il malcapitato problema del Grande Arco marmoreo a La Défense
L’eco indistinguibile degli ultimi colpi di coda, di quella creatura gargantuesca che per lungo tempo abbiamo definito “civiltà” riecheggeranno nell’aere di un agglomerato ormai deserto di cemento, vetro e acciaio urbano. All’ombra della Torre, ormai coperta dalla ruggine e dai rampicanti, una promenade percorsa da leoni sfuggiti allo zoo, lupi e cani ritornati allo stato brado, ormai senza memoria di coloro che per tanti secoli, o millenni, protessero e accudirono i pelosi predecessori. Viene generalmente accettato, e addirittura giudicato comprensibile, che una volta privi di manutenzione pressoché continuativa i più importanti monumenti costruiti dall’uomo non possano sopravvivere, immutati, più di qualche decade, prima che l’usura degli elementi e inizi quel processo di disgregazione che li porterà a tornare, l’uno dopo l’altro, nel grande flusso imperturbabile della natura. Eppure esistono, persino in tutto questo, diversi gradi di resistenza: antiche arene o Colossei la cui pietra costitutiva, assembrata sulla base di cognizioni antiche e in qualche modo primordiali, destinati a erodersi, ma molto lentamente. Mentre molti frutti dell’odierna percezione modernista, ben più estremi nella concezione e nei traguardi raggiunti, paradossalmente avranno vita assai più breve, dopo la scomparsa di coloro che li avevano per qualche tempo utilizzati. Ciò che viene, d’altra parte, molto spesso giudicato inaccettabile, è che questo processo della decomposizione architettonica abbia inizio, sotto gli occhi di noi tutti, mentre l’edificio viene ancora utilizzato, quotidianamente, e a discapito di tutti quelli che vi passano accanto ogni giorno.
110 metri di altezza, per 110 di lunghezza e 110 di profondità: è il cubo traforato dell’architetto danese Johan Otto von Spreckelsen, completato nel 1989 a guisa di secondo Arco di Trionfo parigino, dedicato questa volta non ai trionfi militari, bensì quelli dei diritti civili e umanitari della nazione. Per il quale nel 2014, soli 25 anni dopo la sua inaugurazione, il governo francese ha deciso di stanziare 192 milioni di euro dedicati al suo restauro, un tipo d’iniziativa che sembrerebbe di per se implicare l’andamento non proprio ideale di uno o più fattori architettonici di concerto. Tutto questo per un semplice, drammatico, problematico errore: quello stesso splendido candore che in qualche modo caratterizza e rende straordinariamente memorabile l’edificio. Carrara: fonte di quello che potremmo definire il più pregiato e rinomato materiale in pietra naturale europea, frutto del calcare ricristallizzato nella calcite e dolomite, con lievi striature in grado di accrescere, piuttosto che inficiare, l’assoluta purezza del suo comparto visuale. Sostanza resistente per definizione, come dimostrato dalle plurime opere, basiliche o statue dimostratesi capaci di giungere intatte fino a noi, nonostante il trascorrere dei secoli di polvere e parziale abbandono. Ma tutto avviene per una ragione e caso vuole che un tale rapporto causa-effetto, in talune circostanze, possa risultare avverso a quello che potremmo definire l’intento dedicato alla nostra posterità. Primo colpevole, dunque, il clima di Parigi, apparentemente troppo umido e freddo, la cui escursione termica nel ciclo giorno notte potrebbe abbia contribuito a una tendenza irrimediabile verso la rovina delle svariate migliaia di pannelli ultra-sottili (4 cm ca.) che ricoprono, maestosamente, i quattro lati del notevole punto di riferimento cittadino. Assieme al poco desiderabile orientamento obliquo in comparazione agli assi cardinali, allo scopo di conformarsi parzialmente al celebre asse storico di Parigi pur lasciando spazio alla stazione sottostante della metropolitana, ma anche adatto ad esporre le intere facciate di sud-est e sud-ovest sul versante ove compaiono, in maniera più frequente, gli effetti peggiori di quello che potremmo scegliere di definire il “processo deleterio”. Consistente, per l’appunto, nel progressivo imbarcamento, con conseguente dissaldatura o granular debonding, della sottile pelle dell’edificio. Un qualcosa che non potremmo certo affatto trascurare, quando si considera la quantità di gente che ogni giorno, soprattutto quando le condizioni climatiche e sociali lo permettono, tende a transitare o sostare sulle grandi scalinate che permettono l’accesso all’Arco de La Défense.