Non è un fungo né un fagiolo scintillante, ma il museo dell’arte a Liyang

Le forme sono illogiche ma in alcun modo prive di un latente fascino, concreto e funzionale ad un progetto fin troppo chiaro: porre in alto sullo spiazzo un edificio che non sia una mera parte dell’impetuoso fiume dell’architettura. Ma una sua deriva periferica, perfettamente calibrato per il suo contesto dall’alto grado di assoluta particolarità. Dove? Nello spazio formale ed ordinato dello Yan Lake Park, aggiunta recente alla città presso il confine orientale di Liyang, nella colorata provincia del Jiangsu. In quel punto, estremamente significativo, in cui gli alti grattacieli del quartiere finanziario lasciano il posto e si fondono con l’arcaica struttura degli hutong ancora disposti in base ai piani del Mondo Antico. Un tempo ed organizzazione a cui gli stessi architetti taiwanesi dietro l’opera, C.R. Lin e Bentao Li di Taipei (studio CROX) si rifanno dichiaratamente con la citazione di un ispiratore d’eccellenza, niente meno che il saggio, funzionario, pittore, musicista e poeta Cai Yong, vissuto tra il 132 e il 192 d.C. assistendo tra le altre cose al declino della grande dinastia degli Han. Pur potendo coltivare le sue arti grazie a mente fredda e un superiore grado di concentrazione come quando, mandato in esilio per aver offeso il potere sproporzionato degli eunuchi a corte, udì per caso il suono di un pezzo di legno di paulonwia che ardeva nella stanza accanto. Per precipitarsi subito e tirarlo fuori ancora circondato dalle fiamme del camino, ma avendo già capito che poteva realizzarne qualcosa d’assolutamente inusitato. Ecco dunque, in linea di principio, l’effettiva metafora nascosta nella forma del nuovo museo di Liyang, inaugurato alla presenza del Partito nell’aprile del 2018, aprendo metaforicamente il passaggio ad una nuova epoca della partecipazione dei cittadini e visitatori esterni al filo d’Arianna dell’arte più simbolica ed elevata: esso rappresenterebbe, in modo non del tutto trasparente, lo strumento musicale del jiao wei qin (焦尾琴) ovvero letteralmente “pianoforte dalla coda bruciacchiata”, un tipo di cetra da tavolo di forma rettangolare a sette corde, il cui suono si diceva potesse rivaleggiare quello dei più esperti e rinomati musici del palazzo imperiale. Il che offre un singolare spunto di riflessione perché in effetti, l’edificio post-moderno in questione non assomiglia per niente a tale oggetto, richiamandosi se proprio deve allo strumento a fiato ancor più antico dello Sheng, organo a bocca dall’impostazione talvolta ellittica e stondata. Nonché la propensione, ancora una volta dichiarata nella press release pubblicitaria che accompagna le sue molte immagini, a “lasciar soffiare il vento” creando “fluttuanti melodie”. Già perché l’invitante ed arcano palazzo, creato facendo ricorso alle teorie matematiche di Colin Rowe e la sua propensione alla molteplicità dei punti d’ingresso, presenta una pluralità di spazi negativi tra cui l’oculus centrale sovrastante un cortile parzialmente riparato, incuneato tra le quattro collinette artificiali che nascondono all’interno ben 12.000 metri quadri abitabili della sua struttura. Dove sarà possibile entrare mediante un luminoso atrio a vetri, oppure direttamente dal secondo piano, percorrendo l’agile passerella inclinata che allude ai punti di passaggio nei tradizionali giardini della Cina…

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Il castello della tigre tra le nubi di un Giappone dimenticato

Come nella leggenda del castello di Sunomata in merito alla capacità organizzativa del generale minore Toyotomi Hideyoshi, destinato a succedere al suo signore Oda Nobunaga come supremo sovrano del Giappone, in un giorno verso l’inizio del 1989 un’alta sagoma iniziò a profilarsi sopra il monte Kojo, nella prefettura di Hyōgo. Si trattava di un torrione, forse non costruito in una notte come la fortezza in legno alla confluenza dei fiumi Sai e Nagara, ma comunque in grado di prendere forma entro il giro di una singola settimana, potendo avvalersi di tecnologie moderne come il trasporto in elicottero dei materiali e l’instancabile contributo dei mezzi da cantiere. Il suo feudatario, almeno per qualche tempo, sarebbe stato uno soltanto: il grande produttore cinematografico e visionario Haruki Kadokawa, per tutto il tempo necessario alla realizzazione del film “Tra cielo e terra” (天と地と, Ten to Chi to) sull’epico conflitto dei due condottieri del XVI secolo, Takeda Shingen ed Uesugi Kenshin. La pellicola più costosa nella storia del Giappone fino a quel momento, destinata a resuscitare, almeno per qualche tempo, una location non del tutto priva di precedenti.
Poiché in questo ameno luogo, come testimoniato dalle fondamenta ed i terrazzamenti in pietra usati per sorreggere l’imponente scenografia, una poderosa fortezza ebbe effettivamente modo di sorgere, fin dal 1441 e fino agli anni successivi al 1600, quando gli sconvolgimenti nell’ordine politico nazionale successivi alla battaglia di Sekigahara portarono, indirettamente, alla sua demolizione. Il suo nome, per un mero caso di omofonia era effettivamente quello di Takeda-jyō (scritto come 竹田 e non 武田) ed essa aveva costituito, nel panorama dell’ultimo periodo dello shogunato di Muromachi, uno dei luoghi fortificati più imprendibili di tutto il Giappone. Avendo la funzione di agire come chiave di volta della difesa per il clan degli Yamana contro i loro nemici Akamatsu, nonché a protezione della strategica miniera d’argento di Ikuno, la più grande e redditizia di tutto il paese. Un ruolo niente meno che primario dunque, per questa fazione samurai dalle alterne fortune ma che avrebbe continuato a mantenere intatta la sua influenza fino al periodo della guerra Ōnin (1467-1477) quando il suo famoso condottiero Yamana Sōzen investì gran parte delle proprie risorse in un inconcludente conflitto con gli influenti Hosokawa, lasciando ai suoi il controllo dell’unica provincia di Inaba. Così che il castello di Takeda, nella sua posizione di preminenza rimasta priva di pretendenti, ebbe modo di passare di mano più volte…

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Che cosa solleva 3500 Kg come un elicottero, ma usa 10 motori a reazione?

All’altezza di poche decine di metri dal suolo, secondo una precisa direttiva stabilità da un calcolatore semi-analogico, il pilota sperimentale spostò in avanti le due manopole della potenza principali. Ciò causò un radicale cambiamento di assetto nell’aeromobile, mentre i portelloni sulle gondole all’estremità delle due corti ali si chiudevano, ed otto ugelli sottostanti smettevano di spingere in basso masse impressionanti d’aria. Nello stesso momento, mentre il terreno cominciava a scorrere al di sotto della grande cabina panoramica, gli ugelli degli impianti principali si riorientavano all’indietro, con una perdita di quota appena apprezzabile: la transizione era completa. Il bolide simile in tutto e per tutto a un’astronave, vibrando minacciosamente, aveva iniziato il suo viaggio ultrarapido verso il futuro.
È interessante notare come proprio la ricerca di standard operativi e dottrine in comune promulgate da un’alleanza di mutua assistenza come la NATO possa generare, in determinate occasioni, creazioni eccentriche che avrebbero potuto cambiare la storia dell’ingegneria bellica ma, per una ragione o per l’altra, non sono riuscite a farlo. Vedi il caso, a tal proposito, del terzo Documento per i Requisiti di Base o NBMR-3, creato all’inizio degli anni ’60 come contromisura nei confronti di uno dei timori più incombenti in caso di un tentativo invasione proveniente dal Blocco Orientale: quello che i Sovietici, nelle prime ore o minuti dell’ipotetico conflitto, potessero procedere a un bombardamento sistematico delle principali strutture aeroportuali situate nell’Europa Centrale. Dal che l’idea che il sicuro fronte di battaglia, la Germania dell’Ovest, dovesse dotarsi di una forza aerea che potesse fare a meno di estensive piste di decollo, essendo composta in massima parte da STOL e VTOL, velivoli capaci di decollare ed atterrare in situazioni tutt’altro che convenzionali. Un obiettivo che, in un iniziale momento, venne perseguito mediante l’ipotesi di adattamento dei Lockheed F-104 Starfighter di produzione statunitense già in dotazione ai piloti, aggiornati mediante l’aggiunta di razzi secondo i metodi del progetto ZELL (Zero Length Launch). Ma i precedenti esperimenti portati avanti dai britannici negli anni ’50 con la serie Hawker Siddeley P.1127, destinata a dare vita nel 1969 al cambio di paradigma che avrebbe preso il nome di Harrier Jet, avevano dimostrato che qualcosa d’infinitamente migliore poteva essere ottenuto lavorando partendo dai presupposti specifici, almeno per quanto riguardava il campo dei cacciabombardieri leggeri o intercettori per il combattimento aereo. Se non che la compagnia aeronautica Dornier, pilastro della Luftwaffe sin da epoche antecedenti al Nuovo Ordine della fine del conflitto mondiale, aveva a quel punto lavorato informalmente già da oltre una decade a vari modelli per un aspetto spesso trascurato del tipo di operatività risultante da un simile approccio ai conflitti volanti: il trasporto logistico del munizionamento e dei materiali. Avevate mai pensato, in altri termini, a un aereo da trasporto a decollo verticale? Se così fosse, siete davvero parte di un elite, visto che un solo esempio di questo specifico concetto, mai andato oltre lo stadio di prototipo, è stato costruito nel corso della storia umana. Ed il suo nome (o codice) è quello di Dornier Do 31. Le sue caratteristiche e la configurazione di volo superano, sotto molteplici aspetti, la comune cognizione di ciò che possa essere un “aereo”…

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Il singolo signore delle ombre dietro un palcoscenico che risplende

In una storia collegata alla fondazione stessa dell’antica dinastia degli Han, attorno al 202 a.C, il futuro imperatore Gao Zu si ritrovò circondato dai suoi nemici all’interno della città fortezza di Pingcheng. Quando tutto appariva ormai perduto, tuttavia, il suo consigliere Chen Ping venne a sapere di come il generale delle forze assedianti, Mao Dun, avesse dei problemi con la moglie, la quale sospettava che gli fosse stato infedele in diverse occasioni nel corso degli ultimi anni. Elaborando un piano degno dei più insigni strateghi del suo paese, l’aspirante sovrano pensò quindi di far costruire una serie di marionette, simili a prostitute, da far danzare sopra le alte mura dell’insediamento. Sul profilarsi del tramonto, viste da lontano, tali figure sembrarono a tal punto delle persone vere, da causare l’irritazione dell’augusta consorte, costringendo il temuto Mao Dun a ritirarsi. Verità o finzione, non è troppo difficile immaginarlo. Ciononostante questo aneddoto, redatto dallo storico Duan An’jie, sembrerebbe alludere a un qualcosa di estremamente specifico, e quel qualcosa altro non sarebbe che il teatro delle ombre cinesi. Permettendo di far risalire la sua storia ad un lungo e travagliato susseguirsi di oltre venti secoli a questa parte. Abbastanza per creare una forma d’arte alquanto distintiva e dalle molte diramazioni attraverso i vari periodi storici e regioni del Regno di Mezzo.
Una di queste, forse la più notevole ancora oggi praticata innanzi a un pubblico con cadenza più che regolare, risulta essere sostanzialmente collegata alla figura del suo celebre praticante, Fan Zheng’an, nato nel 1945 a Tai’an, nella regione dello Shandong. Non troppo lontano da quell’eponima e sacra montagna di Tai, tradizionalmente associata a un’importante scuola della rappresentazione scenica grazie all’utilizzo delle marionette bidimensionali, caratterizzata dal coinvolgimento di un singolo, versatile praticante. Ovvero lui, che interpreta con la sua voce ciascun singolo personaggio. Lui che preme con il piede sul pedale dei tamburi e cimbali dell’accompagnamento musicale. E soprattutto lui, senza nessun tipo di assistenza, che solleva ed anima con le sue mani fino a 12 pupazzi allo stesso tempo. Senza che l’energia espressiva del racconto ne risenta in alcuna risibile maniera, ma piuttosto infondendo, nell’intera circostanza, tutta l’arte ed il coinvolgimento fisico di quei momenti. Con un’abilità ed esperienza tali da essere stato nominato, nel 2011, parte del patrimonio culturale immateriale della Cina stessa, pochi anni dopo aver inscenato parte del suo repertorio innanzi ai membri riunitisi in congresso del Partito Comunista a Pechino, incluso il primo ministro Wen Jiabao. Forse il punto più alto di una carriera lunga decadi, ma che ancora oggi pare ben lontana dal suo tramonto…

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