Droni che sorvolano le terre di Faroe

Faroe Drone 1

Parlano, le genti. Come del resto l’hanno sempre fatto, di una terra mistica e incontaminata, ben oltre i flutti atlantici ed i flussi delle nebbie antiche. Leggendaria come Avalon, con una significativa differenza: questa, invece, fu trovata. Dagli uomini dell’Anno Domini 825, pressappoco, sotto la guida di un vichingo ruvido e selvaggio, lunga barba al vento, corna sopra l’elmo, spada ben puntata verso l’orizzonte, a far le veci di una bussola futura: Naddoddr, era il suo nome. Lui non conosceva aghi. Ma ne scoprì di molte, sia vicine che lontane: fu costui, secondo la leggenda, a partire un giorno dall’odierna Norvegia, per sbarcare, molte settimane dopo, presso una baia in mezzo al nulla, che oggi prende il nome di Reyðarfjörður. Cenere sotto i suoi piedi, emanazioni di distanti fumarole, roccia vulcanica perduta al tempo. Tanto che avrebbe potuto battezzare un tale luogo, facilmente, la terra dei fuochi senza fine. Ma una nevicata all’ultimo momento, quando già le prue delle sue navi si voltavano di nuovo verso levante, gli fece cambiare idea: quella sarebbe stata, dopo tutto, Snæland, la terra della neve, oppure Ísland, landa dei ghiacci. Da cui diciamo, infine, Islanda. Troppo fredda e cruda, allora, addirittura per i gusti di quell’uomo. Simili marine scorribande, è facile da immaginare, ben si abbinavano con l’entusiasmo della gioventù. Un eroe dei popoli del sale e del ferro insanguinato, formati da una differente civilizzazione, doveva essere forte, coraggioso. Privo di scrupoli e rimpianti, quando si lasciava indietro una scoperta. Finché un giorno, sopraggiunta la saggezza, decidesse di fermarsi e costruire. Dove di preciso, non si sa.
Il più delle volte. Perché Naddoddr invece, col suo seguito di avventurieri, fece qualcosa di mai visto prima, meritevole di lunga e intramontabile memoria: invece di tornare fino in patria, fra gli insediamenti delle coste norvegesi del tirannico re Harald I, navigò soltanto a metà strada. Proprio lì, lui trovò la nuova terra dei suoi discendenti, presso un gruppo di isole ben note nei racconti degli scaldi, protese come dita oltre il sensibile, 320 Km a nord del corpo longilineo e frastagliato di Britannia: Fær Øer, la Terra Lontana, o secondo altri linguisti invece, la Terra delle Pecore, semplicemente. Perché ce n’eran molte, abbastanza per addormentarsi. Perfettamente conduttive a un sogno tecnologico dei nostri giorni.
Immagina: librarsi sopra il verde di quei prati senza fine, punteggiati dalle rocce emerse di profonde vene sotterranee. Oltre i muri, sopra i tetti, dove stagni e laghi si susseguono sul territorio digradante verso il mare, dove faraglioni a strapiombo risuonano del vento e della voce del sensibile. Antiche rovine che parlano dei tempi antichi: forti e chiese, monasteri. Come quello di cui narrava San Brendano di Clonfert, che giunto fin qui tra il quarto e quinto secolo per osservar gli uccelli, fu stupito di trovare, già perfettamente a loro agio, un gruppo di monaci eremiti provenienti dall’Irlanda. Del tutto ignari dei vichinghi ancora da venire, poveri loro. Che mai avrebbero meditato su queste diverse ali futuribili, che piuttosto che battere, ruotano vorticosamente. Ronzando, fastidiose ma parecchio utili, in mezzo a tanto significativo e coinvolgente nulla.

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Scacco matto col bulldozer della SWAT

The Rook

Sei tonnellate di potenza che sembrano uscite da un film di Batman, anzi, Robocop. Persino lo stile dialettico è conforme. Se non c’è mai stata, come alcuni dicono, una guerra combattuta con dei mezzi superiori al “minimo necessario” per sconfiggere il nemico di turno, è pure vero che il mantenimento dell’ordine civile non deve seguir le regole del convenzionale conflitto armato. Ma elevarsi, piuttosto, al di sopra delle aspettative, onde preservare per quanto possibile il benessere, l’integrità e la sicurezza di chi rischia di essere coinvolto nel fuoco incrociato, tutte persone prive di armi, addestramento, di preparazione fisica o mentale alle impreviste conseguenze. Non tutto è lecito, dal punto di vista della polizia, meno che mai l’impiego di una forza eccessiva. Occorre, tuttavia, porsi una domanda di supporto alla questione: dove Nessuno è sacrificabile, Nulla è sacrificabile? Può darsi, dipende. Da chi arriva nel bel mezzo di una situazione di stallo armato, variabilmente disperata, e da ciò di cui dispone per salvarla, assieme alla giornata!
Se The Rock è il nome di uno statuario ed imponente lottatore di wrestling, quel Dwayne Johnson che sa fare anche l’attore, oltre che il nomignolo della prigione ormai dismessa di Alcatraz, e addirittura di un grosso sasso smosso sul terreno, “The Rook” è invece almeno un paio di diverse cose, niente affatto contrapposte: la piccola torre degli scacchi, che avanzando di un numero imprecisato di caselle, porta l’assedio alla Real famiglia di quei pezzettini d’ebano torniti; oppure l’ultima invenzione diavolesca dell’ingegneria statunitense applicata, che parimenti lo conduce verso il criminale o il terrorista. Rispondendo a situazioni impossibili da gestire con mezzi più convenzionali. Sembra stranamente simile a un giocattolo spropositato.  Eppur dovrà davvero funzionare, per chiarissima evidenza. Si tratta, essenzialmente, di un piccolo veicolo da cantiere prodotto della sempiterna Caterpillar (CAT) dell’Illinois, quell’azienda ormai sinonimo di tale classe di dispositivi, così sapientemente riconvertito dalla Ring Power Corporation della Florida, il rivenditore con l’Idea. E la capacità, soprattutto, di capire l’andamento del mercato pubblico e privato. Si è fatto un gran parlare negli Stati Uniti, ultimamente, della pratica dell’esercito nazionale, che sta rivendendo i suoi mezzi pseudo-decommissionati a numerosi dipartimenti della polizia locale. Non è del tutto chiaro che può farsene uno sceriffo di paese di quindici lanciarazzi, un autoblindo e tre mitragliatrici M60 (lotti, questi, veramente messi a sua disposizione) quando già le armi d’assalto pesante, come i fucili a ripetizione M-16, si sono estremamente inappropriati in situazioni tipiche con potenziali vittime del fuoco amico. Certo, una maggiore capacità belligerante, posta nelle mani giuste, può far molto per salvaguardare l’ordine. Almeno su scala ridotta. Poiché si ritiene, e questo ancora in parte è vero, che il criminale comune non abbia lo stesso accesso a tecnologie d’armamento superiore. Però nei casi in cui costui, malauguratamente, dovesse già disporne, cosa fare? Schierare in campo i residuati della terza armata? Oppure scegliere un approccio differente, di contrapporre la furbizia alla  brutalità, con soluzioni tecniche speciali…

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Oggi cuciniamo la comune batteria stilo

Battery maker

AAA, mancano i veri MacGyver di una volta. AA, piuttosto, ci troviamo sempre a dire inconsolabili: non è possibile, non si può fare, è del tutto inaccessibile per le mie doti. Finiti su di un’isola deserta, assieme a un carico di batterie a bottone, tireremmo fuori dalla borsa il telefono satellitare, che invece ne voleva solo due, ma di mini-stilo. E imprecando contro l’ironia del fato, lì resteremmo. Per mangiare cocco fino all’ultimo dei giorni, della nostra lunga oppure breve vita. L’aneddotica delle vicende umane è piena fino all’orlo di racconti come questi, con un taglio estremamente indicativo dei secondi fini della narrazione. Quello stesso prologo, dell’aereo che precipita, della nave naufragata, è sempre l’inevitabile preludio di un ricco viaggio di scoperta personale. In cui l’individuo rimasto solo, gradualmente, apprende che l’ingegno medio è spesso sufficiente, per sopravvivere laggiù fra i gridi di gabbiano, senza l’aiuto della società. Ma addirittura prosperare, superando le aspettative dello spettatore, quella è tutta un’altra storia…
NurdRage è il giovane scienziato con la voce sempre alterata digitalmente, forse uno studente canadese amante della privacy, che da qualche anno offre al mondo i video dei suoi esperimenti e le molteplici invenzioni che produce. Fra i suoi campi preferiti, a giudicare dai recenti successi, va senz’altro annoverato il campo delle batterie stilo. Lui, che le smonta e poi ricostruisce, che le scarta, che le apre, che ne esplora i limpidi segreti, con gran dispetto delle compagnie produttive. E che addirittura, in questo caso, le costruisce in casa! Possibile? Tutto vuolsi, ove si puote. Si tratta di una pratica ricetta, ecco qui cosa ci vuole: per prima cosa, un paio di siringhe ipodermiche, o anche più, a seconda del bisogno. La loro forma cilindrica di plastica, a quanto pare, è pari nel diametro a quella della pila stilo. Strana coincidenza, quasi…Intenzionale. Un colpo o due di pinze, per ottenere la lunghezza esatta. Tale pratico involucro trasparente, quindi, sarà rivestito nella parte interna di un foglio di zinco, misurante 50 x 30 mm. Un oggettino per nulla inusuale, che si compra normalmente al supermarket (quello canadese. Forse, non saprei.) E adesso, guarda, viene il bello. Da un barattolino (maneggiansi con guanti belli spessi) ecco lui che tira fuori del veleno sopraffino, l’idrossido di potassio, che ivi versa, come niente fosse, dentro a un bricco d’acqua trasparente, messo quindi lì da parte a dissolversi, come un Alka-Seltzer. Nell’involucro plasticoso del suo divertimento precedente, invece, costui ci mette del diossido di manganese (?) Bene avvolto nella carta e pronto da fumare come l’erba, all’apparenza. Però nero quanto l’anima di chi comunemente inquina, senza mai sapere come riciclare… Oppur la pratica mina di matita, messa, guarda caso, lì a fare da conduttore. Ecco che, a questo punto, l’insieme avvolto e multi-strato viene immerso dentro al liquido semi-biancastro appositamente preparato e lì lasciato, per un tempo medio. Lui consiglia una giornata. Ciò “attiverà gli elettroliti” permettendo alla carica d’ingenerarsi, dentro al circuito così ben costruito. Sarebbe difficile crederci, se gli occhi non ci assistessero nell’ardua impresa: quand’ecco, nel finale, lui che mette i due cilindri dentro al corpo cubico di un’orologio digitale. Ed esso vive, per Frankenstein!

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Affittansi conigli col caffè

Bunny Cafe

Dal punto di vista grammaticale, geisha – 芸者 non è un termine plurale o singolare, maschile o femminile e neppure, nella sua accezione post-moderna, bipede o quadrupede, con il trucco oppure con le orecchie, lunghe, morbide e setose, di un piccolo coniglio da nutrire e accarezzare, dentro a un locale di ristoro del quartiere Asakusa, nord-est di Tokyo, presso il fiume di Sumida. Dove sorge o per meglio dire occupa l’intero sesto piano di uno stabile, l’Usagi-san Theme Park, filiale della catena nazionale “With Bunny” Cafè, gestita, a quanto pare, da un gruppo di sinceri amanti dei conigli, con tutti i loro figli, nonché del guadagno, indubbio e dimostrabile, che ti può portare quella soffice, carezzevole e bonaria ingenuità.
La cultura giapponese, non a caso, supporta da secoli una particolare branca dell’intrattenimento, che consiste nel pagare per passare il tempo con una qualche personalità aggraziata, preferibilmente umana e praticante delle arti nobili, per godere della sua preziosa compagnia. E non c’è nulla di segretamente sessuale, nell’incontro con queste persone lungamente addestrate, tradizionalmente, né comparabili secondi fini. Figuratevi anzi, che nel 1770 a Yoshiwara, secondo il testo della scrittrice Lesley Downer, Geisha: The Secret History of a Vanishing World c’erano 16 geisha donne e 31 uomini. Cinque anni dopo, si era passati a 33 donne ma gli uomini erano ancora 31, un numero ben presto destinato a raddoppiare. E non si trattava certamente di una strana usanza, o di pari opportunità decadute dalle origini di questo campo artistico, visto che ancora nel 1800, ormai alle soglie dell’occidentalizzazione, il geisha uomo era ancora assai diffuso, e ricercato per la sua abilità nel canto, nella danza e nel servire il tè secondo le complesse regole cerimoniali del cha no yu. Poi, gradualmente, la metà femminile della professione prese il sopravvento su quell’altra, i cui esponenti presero a farsi chiamare collettivamente taikomochi, i “maestri delle cerimonie”. Finché non giunsero i conigli, a fargli concorrenza…
Ci sono molti preconcetti errati, nella concezione internazionale del/della geisha, un retaggio probabile di quella stanca epoca sulla prima metà del secolo scorso, quando la visione nipponica del mondo era un sinonimo di guerra senza quartiere, mentre i soldati in uniforme giapponese sul fronte del Pacifico, come è tristemente noto, si abbandonavano a barbarici comportamenti, enfatizzati dalla contrapposta propaganda (e non furono, del resto, gli unici, né i soli in quel teatro di battaglia). Da allora e per lungo tempo fu inconcepibile, per la nostra mentalità occidentale, immaginare una relazione di estrema purezza d’intenti ed eleganza, dalle splendide connotazioni estetiche e rituali, com’era invece stata quella della geisha e il samurai. Che a conti fatti, mai s’incontrarono all’epoca remota dell’unificazione del paese, quando i signori della guerra in armatura, con lancia ed elmo decorato, come narrato nei romanzi storici, combatterono ferocemente per il predominio militare dei diversi clan. Molte delle usanze che erroneamente si attribuiscono all’era Sengoku (1467 – c. 1603) in effetti, come anche il teatro del kabuki e la stessa cerimonia del tè, furono piuttosto il frutto dei due secoli di pace successivi, sotto l’egida dei forti shōgun Tokugawa, grandi patroni delle arti, sia marziali che d’altro tipo. Finché non venne Restaurata, sotto il suono dei fucili, l’antica visione nazionalista con l’Imperatore divino, al centro dell’intero universo dominabile dall’uomo!

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