In viaggio per l’Europa con la scatola dei gatti

Poopy Cat

Bisogna concederlo a Thomas Vles, l’imprenditore che ha investito il suo tempo e denaro nella creazione di una realtà ecosostenibile finalizzata alla creazione di accessori e giocattoli per gatti: dopo aver voluto la bicicletta, è uno di quelli che sanno anche pedalare. Cosa che ha recentemente fatto, con buona lena ed intento fortemente divulgativo, nella sua ultima avventurosa settimana, durante la quale si è spostato dalla sua sede operativa ad Amsterdam fino a Londra, sfruttando faticosamente la versione riconvertita di una bakfiets, la tradizionale bicicletta da trasporto d’Olanda. La quale ben poco rassomigliava alle sue antenate con semplice cesta centrale (il veicolo era stato anche chiamato “il SUV a pedali”) vista l’utile inclusione di un gran parallelepipedo di plexiglass bucato, entro al quale far soggiornare l’approssimazione ridotta di un moderno salottino con i due occupanti: Mushi e Cheesy, felini simbolo della sua venture commerciale, per così dire i Poopy Cat per eccellenza, ovvero per usar la terminologia tradotta, i gatti “Che Defecano”. Un po’ come tutti i pesci, cani, uccelli ed altri animali domestici, nonché i padroni spesse volte, ma non c’è niente di cui vergognarsi. Tempo di superare le inquietudini o tribolazioni. Viviamo nel ventiseisimo secolo, per Bastet! Sarà anche ora d’integrare le funzioni fisologiche nel gioco e nel divertimento, grazie all’uso di espedienti in qualche modo spiritosi… Così è la soluzione, suggerita grazie ai gesti nell’interno della papamobile per gatti: un cubo di cartone usa-e-getta, rigorosamente biodegradabile, già fornito con la sabbia da lettiera e la paletta in abbinamento, oltre a una livrea che si richiama al classico leone della Metro Goldwyn Mayer. Struttura all’interno della quale l’animale possa entrare e fare le sue cose, rigorosamente racchiuso tra solide pareti niente affatto trasparenti. Finita è l’epoca del Grande Fratello sul WC. Entriamo nel regno fantastico del viral marketing, pensato per gli abitanti delle case cariche di miagolii. Del resto, l’occasione era davvero significativa: l’apertura del primo negozio temporaneo nella grande capitale d’Inghilterra.
La Poopy Cat è un’azienda dalla nascita piuttosto recente, che come tutte quelle operative principalmente sul web 2.5 si è costruita la sua immagine attorno ai temi principali della nostra epoca: responsabilità civile, immediatezza comunicativa, capacità di fuoriuscire dagli schemi. Non è certamente un caso, se l’influenza avuta dall’opera di Steve Jobs sul mondo delle aziende più o meno tecnologiche viene generalmente ricondotta agli ultimi due punti citati, mentre le occasionali critiche che gli vengono mosse si fondano sul modo in cui non è riuscito a veicolare il primo. Viviamo in un’epoca in cui la narrazione del piccolo ha plasmato i ritmi e le connotazioni del senso comune. Ormai superata la visione fantastica che principe che uccide il drago, traslazione non-religiosa della storia dell’antico Salvatore, preferiamo schierarci col mezzuomo tolkeniano, trascinato suo malgrado trascinato dagli eventi, o ancora meglio, con la stessa presunta orrida creatura, che una volta risparmiata si rivela saggia e grata al suo futuro cavaliere. E così non è l’ennesimo aspirante messia, presentatore dell’ultimo prodotto rivoluzionario, a colpire maggiormente i suoi possibili sostenitori. Quanto piuttosto colui che viene dallo stesso mondo di noialtri, recando nelle mani un dono piccolo ma significativo. Perciò si: anche il gatto che usa la lettiera può essere nobilitato. Basta inquadrarlo nella giusta cornice cartonata. O costruirgli attorno un mondo di sfrenate possibilità…

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Un robot da taschino che trascina 2000 volte il suo peso

Micro Tug

È la domanda che si sentono fare di continuo: “Si, ma cosa serve?” Gli artisti, i filosofi, gli scienziati. Quasi mai, gli inventori e gli ingegneri. Perché loro è il campo dei problemi da risolvere direttamente, in modo chiaro per la gente: un buco da tappare, il caffè da riscaldare, un cardine da far movimentare. Mentre è diversa la storia di chi, visionario dei possibili sentieri, si applichi sinceramente nel produrre…Qualcosa. Qualsiasi cosa ed è proprio questo il punto: incrociando i meri presupposti, sovrapponendo le risorse disponibili, talvolta riscrivendo ciò che sia “possibile” all’interno di un laboratorio…E tutto per dare i natali a una realtà completamente nuova e totalmente fuori dagli schemi a noi già noti. Che non ha un’applicazione in campo pratico, proprio perché ne fuoriesce pienamente. È sostenuta da una pura idea. Ma che razza di fantastico pensiero! Quello che ha guidato il Laboratorio di Biomimetica ed agile Manipolazione dell’Università di Stanford, nella costruzione della sua imprevista e imprevedibile mascotte, subito battezzata con un nome dalla forte componente commerciale (alquanto strano, in quel contesto) ovvero l’adorabile µTug. Capitalizzando sul tipico schema del mondo informatico, che ormai da tempo mutua la “i” minuscola dalla tradizione Apple, per indicare voglia di creatività, ma qui sostituita con quel suono bilabiale dell’alfabeto greco, usato nel campo della fisica per riferirsi a tutto ciò che ha un milionesimo della grandezza del suo punto di riferimento. Siamo scienziati, che ci volete fare. Ed era un’iperbole, naturalmente: non è “così” piccolo. Ma per quello che riesce a fare il qui citato robottino, per lo meno quando le condizioni sono adatte alla sua operatività, risulta ad ogni modo eccezionale. La questione è semplice davvero rilevante: da una parte abbiamo l’evidenza degli insetti, creature che nonostante la loro relativa piccolezza riescono a influenzare anche notevolmente il loro ambiente circostante. E dall’altra l’evidenza degli esseri artificiali provenienti da simili progetti accademici, generalmente frutto di una qualche innovazione nei campi della mobilità motorizzata, della conservazione dell’energia etc. Generalmente troppo piccoli per svolgere una mansione d’effettiva utilità. Così nasce la risposta-tipo a quel quesito di apertura: “Ecco…È un drone. Può portarsi dietro una telecamera, per cercare sopravvissuti tra le macerie di un qualche disastro naturale.” Davvero, la frequenza con cui ricorre un simile obiettivo dichiarato è sorprendente. Perché l’emergenza, per sua stessa definizione, è una condizione in cui i metodi convenzionali non servono a risolvere il problema. In effetti è teoricamente possibile che si verifichi, nell’intera storia futura del mondo, un caso in cui ciascun pesce robotico, serpente articolato, salamandra radiocomandata, sarà proprio quel che serve per salvare vite umane. Strisciando fino al punto del pericolo, dove un umano in carne ed ossa non avrebbe mai potuto penetrare. Possibile, non vuol dire poi probabile.
Ma qui si sta facendo il passo ulteriore: quello dell’interazione. Chiunque abbia tenuto in mano un coleottero lucanide, una di quelle creature lunghe diversi centimetri, con il rostro aculeato sul davanti e un gran bel paio d’elitre cangianti, ben conosce l’illusione che ci trae in inganno: simili esseri, benché più piccoli del palmo di una mano, sono tutt’altro che deboli o delicati. Vivono le loro giornate, piuttosto, racchiusi in rigide armature chitinose, che scalate a dimensione umana ci renderebbero del tutto impervi ad urti, colpi o schiacciamenti. E poi sono, soprattutto, FORTI. Si aggrappano con le sei zampette come fossero altrettanti artigli, facilmente in grado di lasciare un segno sulla pelle umana. Sarebbe il tipico paradosso dell’artropode: più sono piccoli, più riescono a stupirci per il modo in cui riescono ad imporsi sull’ambiente circostante. Nei due articoli scientifici di supporto al progetto, liberamente disponibili sul sito del laboratorio, viene citato altrettante volte il caso della formica tessitrice, con tanto d’immagine a corredo: l’insetto sospeso a testa in giù, che sostiene facilmente un peso di metallo da 500 mg. Per intenderci, grande due volte lei. Come, come ci riesce? Il segreto è tutto nel principio dell’adesione.

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Tagliar la pietra usando dei colpetti musicali

Deer Island Granite

Puoi dire tutto, poeta, retore o cantore. E tu puoi fare tutto, minatore. Puoi svegliarti al canto del tuo pappagallo! Puoi guidare l’auto fino in bagno, poi mangiare le lattine della Coca Cola! Puoi saltare fuori dalla porta, rotolando fino ad un computer per spalare neve vitruviana, picconando con dell’enfasi cubetti virtuali. Basta che ci pensi, per un attimo, dodici ore: non c’è nulla che fuoriesca dal possibile dell’intenzione, granitica è l’essenza del profondo desiderio. Addirittura esiste il caso, ed è un caso certamente dimostrato, che la forza stolida dell’insistenza muova le montagne, cavi fuori il loro sangue e poi lo metta all’aria ad asciugare, purissima essenza di un ammasso così grande, tanto immondo (nel senso che proviene da un diverso tempo e luogo) da non poter servire ad altro scopo, che quello di esistere, giacendo. Ora, naturalmente sono molti i modi di trattare sua maestà la pietra, quasi tutti dipendenti da quella potenza accumulata in forme tecnologiche e dispositivi in grado d’espletare l’energia: molti conoscono, qualcuno si ricorda, del caso strano della roccia ignea intrusiva felsica, altresì detta granito, che era dura, resistente, potenzialmente utile in diversi campi. Componente primaria della crosta del nostro pianeta. Però piuttosto raramente utilizzata in architettura fino ai tempi più recenti, visto quanto fosse permeabile agli sforzi degli umani, tutti gli scalpelli e i vari orpelli rivelatisi incapaci di graffiarla. Per lo meno, facilmente; perché come dicevamo, tutto può essere portato a termine, previa l’applicazione del corretto grado d’insistenza. È un concetto che risulta chiaro tramite l’applicazione di metafore, stavolta: ecco il vento. Che per la maggior parte dei suoi giorni non potrebbe mai spostare un sasso da 200 tonnellate. Eppure dagli 100, 1000 anni, ne avrà fatto briciole da sparpagliare, poi raccogliere col tubo dell’aspirapolvere della miniera. E così quel giorno Dennis Carter, fondatore e proprietario del principale albergo di Deer Isle, lassù nel Maine, isola boscosa a qualche chilometro di suolo e mare dalla cara vecchia Boston, capitale del Massachusetts e città simbolo della regione del New England, che si estende per il territorio di ben sei diversi stati.
Colui che qualche anno fa, mirabilmente, si apprestava ad applicarsi in un mestiere antico eppure poco noto, fuori dal campo dello scalpellino e i suoi colleghi, al punto che il suo personale exploit, così rappresentato per la gioia degli utenti di YouTube, sarebbe presto diventato un simbolo e principale rappresentazione odierna di quella particolare attività: il paletto e la piuma (plug & feather) oppure il cuneo e la zeppa (wedge & shim) o ancora il feather and tare, come lo chiavano nel gergo della regione Devon d’Inghilterra, sul principiar del secolo 1800, quando venne riscoperto per l’impiego al tempo di grandi costruzioni e relative industrializzazioni. Un approccio semplice al problema complicato, di tagliare un blocco grande come un’automobile in due parti uguali, e poi praticare su ciascuna di esse quella stessa cosa per la divisione equa e regolare, finché non si giunga ad un coronamento di un buon numero di pietre grandi, eppure trasportabili su schiena umana. O ancor più probabilmente del testardo mulo. Perché occorre convinzione ed insistenza raggiungere la meta, ma sopra ogni altra cosa, l’intenzione. Il concetto è chiaro al primo sguardo: qui si tratta di praticare, lungo una stessa linea invisibile, una serie di fori nel pietrone. Che nel presente caso, Mr Carter ci presenta con il numero spropositato di ventiseimila pounds di peso (11 tonnellate ca.) davvero molto. Troppo, per gestirli tutti assieme. Quindi in ciascuno dei buchi, con enfasi fattiva, s’inserisce uno strumento a cuneo con forma di V e due alette laterali rastremate. Tali da poter rendere uguale la cima del componente centrale alla sua punta, per lo meno una volta poste a contatto in senso longitudinale. Ma lo spazio necessario è superiore a quello ricavato nella pietra. Ma chi ha detto che questo sarebbe un problema? Anzi!

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I treni che in Australia non richiedono binari

Road Train

La logica di un mondo proiettato verso innumerevoli punti di fuga, ciascuno logica, ed inevitabile conclusione di un particolare filo conduttore di ricerca: Internet, sei piena di caselli. E metodi di spostamento, differenti tra di loro quanto quelli fisici, con i semafori del mondo. In origine era il modem telefonico, ruggente, squillante scatola facente le funzioni della fila innanzi al varco, ciascuno per pagare l’obolo, prima di andare verso l’obiettivo. Mentre oggi, volando sulle bande larghe di altrettanti e veri jet di linea, viviamo un viaggio che al momento di partire, grossomodo, è già concluso. Ma questo non significa che manchi la motivazione della gente per approfondire, anzi! Giusto verso la metà della scorsa settimana, presso quel grande catalogo d’esperienze che è la board autogestita del portale Reddit, si è personalmente presentato l’individuo noto come Ozdriver, un camionista proveniente dalle lunghe, polverose strade degli antipodi, laggiù nel quinto continente. Ed a farlo ben volere tra l’utenza soprattutto americana, ci ha pensato il suo carico di foto, video e racconti da quello che è un mestiere assai diffuso in quasi ogni paese del pianeta (fanno eccezione i luoghi come il Principato del Liechtenstein, oppure il Vaticano) ma che varia in modo eccezionale in base al luogo, al tempo ed alle circostanze. E in nessun luogo il gesto del trasporto stradale devia dalla norma del senso comune, maggiormente che in Australia, dove le strade sono luu-unghe, diritte, totalmente prive di una qualsivoglia distrazione. Tranne quella, qui scopriamo, della fotocamera sopra il cruscotto, da usarsi per restare svegli tra una sosta e l’altra, se non altro con lo scopo di mostrare al mondo dei momenti..Straordinari, inaspettati. Testimonianze con finestre sul possibile. Di un mondo in cui l’unico limite è quell’orizzonte che si perde tra la nebbia e la foschia, mentre un migliaio di cavalli/macchina ti spingono, con il tuo carico, verso comunità che non esisterebbero nemmeno, dopo un paio di viaggi mancati dal Road Train.
Tutto ebbe inizio, almeno stando alla leggenda alquanto nebulosa, con l’idea dell’inventore e imprenditore Kurt Johansson di Alice Springs, nei Territori del Nord, la regione più disabitata dell’Australia. Nato nel 1915 e proveniente da una famiglia di noti autotrasportatori, che negli anni ’70 gestiva un’autorimessa e si occupava di condurre a destinazione gli animali dei suoi concittadini, tra l’una e l’altra tenuta di quei luoghi, poste a centinaia di chilometri di distanza. Finché non avvenne, successivamente alla consegna di alcuni tori da monta a 320 km dalla sua sede operativa, che si presentasse la necessità di riportare indietro non 10, né 20 capi di bestiame, ma bensì 200. Una missione semplicemente impossibile per un sol uomo, a meno che…Johansson, che aveva già fatto una parte della sua fortuna grazie all’invenzione di nuovi metodi di propulsione  a legna basati sul principio del biodiesel, oltre che con partecipazioni nell’industria di estrazione salina, non era un tipo da perdersi d’animo. E quando individuava il nesso di un problema, sapeva come affrontarlo con lo spirito risolutivo del pioniere: così, ricevuto un finanziamento di “alcune migliaia di sterline” (la fonte dell’aneddoto è un segmento documentaristico dell’ex-host di Top Gear Jeremy Clarkson) quest’uomo, che oggi è ritenuto l’inventore del Road Train moderno, si procurò in qualche maniera un camion dell’esercito americano, residuato della seconda guerra mondiale, subito ribattezzato Bertha, cui si avvicendò per abbinare due vagoni motorizzati di sua concezione, affinché l’insieme fosse in grado di superare le ripide salite sulla strada verso la destinazione di turno, con tutto il suo seguito di mugghianti, nitrenti passeggeri. La missione fu quindi compiuta, e con essa innumerevoli successive. Il presente nato da una simile trovata è davvero ben esemplificato dal video-racconto di Ozdriver. Le progressive evoluzioni del concetto del primo treno su pneumatici, che risultano a seconda dei casi estendibili a fino 30-40 metri di lunghezza, costituiscono ad oggi la colonna portante dei trasporti tra le comunità dell’outback australiano, dove la messa in opera di una vera e propria ferrovia non sarebbe pratico, né economicamente sensato data la bassa densità degli abitanti. Per simili veicoli, la somma della potenza dell motrice e quella dei motori con trasmissioni automatiche sui vagoni successivi supera facilmente i 1000 hp. La vita di chi si ritrova a guidarli, attraverso simili peripezie, dev’essere tremendamente interessante. E forse, appena un po’ ripetitiva?

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