Le navi della grande guerra camuffate da zebre

Emersione, immersione. “Herr capitano, siamo in zona di missione.” Le onde che si chiudono lasciando un segno appena percettibile del mostro di metallo, mentre il periscopio, all’orizzonte, scruta l’ombra di un pennone. Specifichiamo: non del tipo cui erano fissate le alte vele quadre, simbolo dell’era dei possenti galeoni. Bensì la punta superiore del castello, sopra il quale trovavano preciso posizionamento quelle poche, ma essenziali antenne, usate al tempo in cui lo stretto dei Dardanelli risuonava al tuono dei cannoni, mentre l’esercito e la marina degli ottomani combattevano a difesa della porta del Mar Nero. “Caricate!” Chiama il comandante, all’indirizzo di quel tubo che faceva da interfono. All’altro capo del quale, il marinaio addetto accarezzava l’arma simbolo del suo mestiere: una quintalata o poco più di acciaio, freddo ed allungato, con un’elica all’estremità. L’altra parte aguzza e penetrante come l’ago di un pagliaio sul principio dell’Apocalisse, perché pieno, guarda il caso, di tritolo. Ecco allora che s’industria l’uomo, assieme all’aiutante, e l’aiutante di quell’altro, per portare detto arnese fino all’altro tubo, quello che si apre verso il grande mare sconfinato. E tira e spingi, sbuffa e infine esclama: “Pronti al fuoco, pronti al fuoco!” La voce che riecheggia oltre le anguste paratie. Il primo ufficiale scruta dentro il periscopio, alla ricerca di una soluzione per far fuoco. Ora, come potreste forse già sapere, gli implementi di misurazione per la mira in uso sui battelli del ’15-’18 non erano propriamente il baluardo della complessità tecnologica, risultando piuttosto l’applicazione pratica di un semplice principio comune alla fotografia analogica. Si trattava, essenzialmente, di un doppio sistema ottico con una manovella, usata per far combaciare due immagini di quello che si stava osservando. Finché, curata l’apparente sbronza sdoppiatrice, la macchina non espelleva un numero a rappresentare la distanza dell’oggetto. “Ca…Capitano…” Fece allora il suo secondo: “C’è un problema. Per qualche ragione, non riesco a far combaciare le mie navi!” Impossibile, impensabile. Sarà davvero mai successo? Gli storici ancora discutono sulla questione, in assenza di resoconti che non siano puramente aneddotici, mischiati tra leggenda e realtà. Giacché un sommergibile di allora era tutt’altro che invisibile al momento di far fuoco (quanto meno, il suo occhio di superficie aveva il vizio di lasciare un’apparente scia) e ciò valeva tanto maggiormente per i suoi siluri, in transito verso il nemico. Dunque se mancava il colpo, in genere, doveva poi fuggire. Ma nessuno scafo è maggiormente lento in acqua, di uno che deve vincerne l’impatto idrodinamico davanti, sopra e sotto, tutto quanto attorno. Così in genere, se il sommergibile non affondava il suo obiettivo, inevitabilmente avveniva l’esatto contrario. Tutti i testimoni che appartengono allo stesso schieramento: un vero incubo, per chi è uno storico del mondo.
E la ragione di una simile salvezza… Talvolta, così dice l’ottimo racconto, era un’arte visuale che colpiva l’occhio, lo stupiva e torturava, perplimeva il senso della logica e della distanza. L’usanza, nata in Inghilterra, di cercare il proprio metodo nel mimetismo. Ma non quello finalizzato, come per i carri armati o le mimetiche di fanteria, a far sparire il proprio corpo sul fondale. Anche perché il vasto mare di una simile battaglia non è nulla, tranne che continuo ed apparente. Come potresti mai nascondervi un gigante da 50.000 tonnellate? Molto meglio renderlo…Bizzarro. La prima narrazione per iscritto nelle cronache del concetto di camuffamento navale si ha nei diari del comandante Dudley Pound, di stanza verso l’inizio del 1914 presso l’approdo particolarmente esposto di Scapa Flow, nelle isole Orkney. Fu proprio lui a notare come, preoccupati per la mancanza di difese rispetto ad un eventuale attacco nemico, gli equipaggi del resto della flotta avessero autonomamente implementato strane livree, con punti e linee a zig-zag, apparentemente finalizzati a confondere le ottiche degli avversari. L’aspetto interessante di questo tripudio di mimetiche era come fossero la risultanza dell’individuale fantasia, ciascuna totalmente diversa dalle altre, in un’incredibile affollarsi di colori e soluzioni geometriche del tutto divergenti. Finché non giunsero tre uomini, un americano e due inglesi, che individualmente concepirono un approccio maggiormente funzionale.

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Pesce foglia, pesce pietra e pesce aracnide infernale

Cockatoo waspfish

Ora, non è per mettervi paura, pesci. Ma quando sul finire dell’autunno, e pure dopo, tra la sabbia si agita una forma frastagliata nell’Oceano del Pacifico, tra Malesia, Giappone, Indonesia ed Australia, non si tratta esattamente di un residuo vegetale. Che poi tra l’altro, voi sapete anche soltanto vagamente, cosa sia un albero? Avete mai lasciato scivolare il vostro sguardo tra le fronde? Accarezzando nel contempo i nodi di quelle radici cervellotiche o contorte? Per assaggiare poi la ghianda, il frutto, il pomo che determina la gravità, tra l’erba verde come un’alga bioluminescente…Per l’appunto. Fra due cose simili, non potete non comprendere la differenza. L’intenzione, ribadisco, non è indurre in voi timore. Perché lo spavento permanente, fin da quando esiste la catena alimentare è il primo passo di un percorso che può rendere guardinghi. Pericolosa quanto un’arma, eccome, soprattutto per la-parte-che-incombe. Poiché le prede normalmente non si preoccupano, affidandosi al fallimentare istinto. Ma se sapessero, profondamente, la realtà di quel pericolo che incombe, assai probabilmente eviterebbero quegli altri dal risucchio disastroso. Lasciandoli a bocca asciutta, per così dire (Ah! Ah!) Che poi non è tanto scontato, giungere a comprendere la provenienza della soluzione di caccia degli Scorpaenidae, cui appartiene anche la classe di creature che noi del Mediterraneo usiamo definire scorfani, notoriamente brutti eppure, in qualche modo, affascinanti. Passare inosservati non è un tratto che si possa facilmente isolare dal punto di vista evolutivo, a meno che non intervengano fattori di contesto estremamente favorevoli. Nel corso dei secoli e millenni, quando ancora i continenti erano uniti nella loro inarrestabile deriva, gli antenati di questi tremendi nuotatori erano pesci come gli altri, perché chiaramente sulla Terra c’era un singolo tipo di ciascuna cosa: un frutto, un fiore, un verme, un solo artropode camminatore. Poi vagheggiando e galleggiando, si è palesata la questione di quanti più spesso raggiungessero l’età della pensione, vale a dir la senescenza, ovvero quel momento in cui, duplicato il codice biologico verso la prossima generazione, il pesce riceveva il dubbio dono dell’invecchiamento, assieme alla soddisfazione di aver fatto quanto di dovuto (per quanto possa avere un tale sentimento, l’abitante dei primordi umidi e profondi). E quel qualcuno, guarda caso, non riusciva assolutamente a indurre la reazione preventiva di cui sopra, nel nemico: zero tremori, niente brividi, totale indifferenza. Perché sembrava…Qualcosa…Di…Diverso.
Sia chiaro, a questo punto: fra tutti i predatori da imboscata del genere Scorpaeniformes, di cui fa parte come dicevamo la famiglia degli scorfani ma anche quella dei Synanceia, che poi sarebbero i “veri” pesci pietra, non c’è probabilmente un attore maggiormente consumato dell’Ablabys taenianouts, altrimenti detto pesce-vespa-cacatua. Persino il nome può gettare nella confusione. Perché tenta di fare riferimento, con l’uso di una doppia similitudine, ad alcuni aspetti contrastanti dell’animaletto in questione, che per inciso misura attorno ai 15 cm di lunghezza. Il riferimento ai pappagalli, se non fosse già eccessivamente chiaro, deriva dall’osservazione della cresta superiore, in realtà un’unione ininterrotta tra la pinna dorsale e quella caudale, che vista la forma del corpo compresso lateralmente, come spesso avviene in queste specie, non fa che accentuare un certo senso di grazia innata ed energico idrodinamismo. Eppure a conti fatti, ciò è soltanto un’apparenza: l’Ablabys, in effetti, non si muove in modo eccessivamente agile, flessuoso o scattante. Per il semplice fatto che un tale approccio procedurale alla vita sarebbe controproducente alla sua eterna masquerade, fondata sull’apparente cancellazione della propria stessa esistenza.
Così le foglie cadono, e nessuno sa da dove. Agitate delicatamente dall’abissale controparte dei venti, le forti o rapide correnti, e il pesce scivola felice come un granchio, agitandosi soltanto il necessario. A guardarlo, fa un po’ ridere: un colpo di pinna occasionale, poi si adagia giù da un lato, come estremo tentativo di convincimento. Povero pesce, povero anche, chi ci cade. Ma se a questo punto vi fosse venuta voglia di toccarlo, accarezzarlo come uno squamoso barboncino, credo sia giunto il momento di tornare alla questione dei suoi molti nomi: pesce VESPA cacatua. Del genere degli SCORPIONIDI! Si, per dire. Siamo di fronte a un esponente di una delle classi di creature acquatiche più velenose del pianeta.

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Il sogno realizzabile di un sommergibile prodotto in casa

Euronaut sub 2

Quando si analizza la questione da un punto di vista meramente oggettivo, appare chiaro che esistono due modi validi di passare il proprio tempo libero, entrambi produttivi ma in maniera totalmente differente. C’è chi esercita le proprie doti e prerogative alla ricerca di soddisfazione immediata, praticando un gesto o un’arte che raggiunge l’apice nel giro di un week-end appena, in un ciclo di fatica ed estasi facilmente ripetuto fuori dal lavoro, mentre altri guardano al futuro, fiduciosi che in un tempo medio riusciranno a giungere a coronamento di un complesso desiderio. Come…Eliche possenti, che spingono 60 tonnellate di metallo alla profondità di 250 metri, senza si presenti l’esigenza di tornare in superficie per un tempo di una/due settimane. La missione non era in alcun modo semplice, ponendo questo particolare passatempo all’estremità ulteriore dello spettro, come si può desumere dalle tempistiche realizzative rilevanti: per 24 anni ci ha lavorato, l’architetto navale Carsten Standfuss, ripartiti in due segmenti equivalenti di 12, il primo dei quali necessario per progettare il sofisticato motore Diesel che spinge il natante quando si trova in superficie, ricaricando inoltre le sue batterie impiegate in immersione (perché non può esserci combustione, senza un consumo d’ossigeno spropositato). Mentre la rimanente parte di questo vero e proprio pezzo di vita è stata impiegata per l’effettiva messa in opera del progetto, effettuata presso un cantiere collocato a poca distanza dalla abitazione del creatore, presso la città di Brema, nel Nord Ovest della Germania. Ed è indubbio che il prodotto di una simile fatica, allo stato dei fatti, sia degno di essere iscritto in un albo con i più incredibili prodotti dello svago; l’effettiva realizzazione, pienamente funzionante, dell’apparente controsenso di un’imbarcazione sommergibile totalmente autonoma che non soltanto è di proprietà di un privato, ma opera al di fuori della logica usuale di questi dispositivi, nati in campo bellico e che in questo trovavano la loro unica collocazione naturale. Mentre questa (relativamente) piccola meraviglia della tecnica, lunga appena 16 metri e con un equipaggio di fino a 5 persone, nasce con uno scopo primariamente orientato alla ricerca di relitti sommersi, un’opera notoriamente redditizia. Per lo meno, quando l’allineamento delle stelle si realizza come capita una volta ogni due decadi, e ci si trova al cospetto di un qualcosa di davvero rilevante. Ma di questo assai probabilmente poco importa, a Standfuss e il suo team di meccanici, elettricisti, tecnici metallurgici, studenti…Reclutati attraverso gli anni e abilmente trascinati con la sua passione, giunti quindi a dare il proprio contributo al primo varo lungamente atteso, avvenuto nell’estate del 2012 al principio di una lunga serie di avventure. La stessa esperienza di trovarsi coinvolti nel tour operativo di un qualcosa di talmente unico, così privo di precedenti, dev’essere bastato a soddisfare l’impegno dedicato all’idea. È interessante notare come, nonostante l’investimento certamente non trascurabile, molti dei macchinari e delle parti costituenti del sommergibile sono state acquistate di seconda mano o costruite appositamente per l’occasione. L’effettiva costruzione di un sub dotato di componentistica di ultima generazione sarebbe stata forse ancora più gravosa e inaccessibile, oltre che inutilmente complessa. E in merito a questo, la mente sommergibilista Standfuss era certamente bene informata, visto come la sua prima opera nel settore risalisse all’età di soli 18 anni, quando aveva costruito un piccolo sommergibile monoposto, il Sgt. Peppers, dal peso di appena 575 Kg e interamente basato su componentistica low-tech.
Oggi il sito ufficiale di Euronaut, disponibile nelle due lingue tedesco e inglese, si presenta come un confuso archivio fotografico di encomiabili successi, tra cui quest’ultimo della scorsa estate, raffigurato nel video soprastante, relativo ad una visita effettuata, da un equipaggio quasi totalmente nuovo, del relitto della Sandtrans, nave scavatrice danese affondata nel 1978 nel Mar Baltico, presso l’isola tedesca di Darss. Il video si apre, in modo estremamente soddisfacente, con l’incontro tra le onde di una piccola imbarcazione locale dal nome di Storkow, forse un peschereccio, i cui occupanti si affollano sul ponte ad indicare il più improbabile evento di giornata: un comandante, Standfuss  stesso, in bilico sul castello di prua e con il timone remoto alla portata delle dita, che scruta saggiamente l’orizzonte. Sotto di lui, un’intera imbarcazione invisibile, perché nascosta dalla superficie stessa del presente mare. Non è difficile immaginare le improvvisate e accidentali controparti, mentre sussurrano fra loro: “Ma chi è questo?” Oppure un più prosaico: “E ti pareva! Gente di città…”

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Salendo sopra il ponte più pauroso del Giappone

Eshima Ohashi

Comparve per la prima volta su scala globale nel 2013, a seguito di una celebre pubblicità realizzata dalla più antica casa automobilistica del paese, la Daihatsu, per uno dei suoi caratteristici modelli che noi occidentali saremmo pronti a definire, non senza una certa simpatia, il perfetto cubo con le ruote. Ora nella breve sequenza, girata con tutta la verve quasi-comica di uno sketch televisivo, l’editore capo della rivista CAR & More si trova a bordo di un veicolo da recensire, per l’appunto questa fiammante TANTO Custom dotata di porta scorrevole sul lato passeggero, assieme al suo aiutante. I due osservano la strada che li aspetta più avanti, poi si scambiano uno sguardo contrito. Forse, dopo tutto, questa non è stata un’ottima idea. Ma ormai non si può più tornare indietro: in cima al ripido Eshima Ohashi del lago Nakaumi li aspetta la fotografa incaricata di catturare una fantastica immagine di loro due che si stagliano, a bordo della super-compatta, contro la sagoma  maestosa del monte di Daisen, da quello che potrebbe definirsi il suo punto panoramico migliore in assoluto. Già, ma come mai? Ecco…Presto detto. La struttura che i due avventurieri motoristici si apprestano a scalare risulta essere, dal momento del suo completamento nel 2004, uno dei tratti di strada più singolari al mondo e proprio per questo perfettamente adeguato a mettere alla prova le prestazioni in salita dell’automobilina, più volte messe in dubbio dai suoi detrattori. Una lunghezza di 1,7 Km. Un’altezza, nel punto centrale, di 44 metri, giustificati dal bisogno di permettere il passaggio delle navi da trasporto dirette verso il porto di Matsue, città di primaria importanza nello scenario dei commerci dell’Estremo Oriente. E stiamo parlando, sia chiaro, di natanti in grado di raggiungere facilmente anche le 5.000 tonnellate. Dati, questi, che comportano il raggiungimento da parte dell’avveniristica struttura soprastante dell’impressionante pendenza di 6,1% da un lato, 5,1% da quello contrapposto. Per di più il ponte, a causa di esigenze strutturali e di posizionamento, ha l’ulteriore caratteristica di apparire lievemente curvo, dote che gli è valsa la nomina, infinitamente ripetuta online, di “montagne russe di cemento e asfalto”. È perfettamente naturale dunque che simili dislivelli, anche in condizioni maggiormente convenzionali, inducano in certo senso d’ansia nell’automobilista medio, e si capisce facilmente come la situazione possa soltanto peggiorare quando ci si trovi ad affrontarli su una carreggiata di due corsie divise da una linea di vernice, larghe appena 11,4 metri contando anche i passaggi pedonali ai lati. Paure moderne per uomini moderni, alle prese con un mezzo di trasporto di cui si fidano ma solo fino a un certo punto, e un cui eventuale dimostrarsi inadeguato potrebbe dare luogo a situazioni altamente problematiche, per non dire (forse l’ipotesi peggiore presso questi lidi) Socialmente Imbarazzanti! Quindi nella narrazione pubblicitaria, è praticamente inutile sottolinearlo, tutto si risolve per il meglio, con i giornalisti motoristici che riconoscono colpiti le inaspettate doti della buffa quattro-ruote nazionale. Ma il timore situazionale che potrebbe suscitare questa struttura, un fondamentale tratto di collegamento tra Matsue e l’aeroporto di Yonago, continua a ripresentarsi nell’animo di chi lo varca per la prima volta, perché soltanto di passaggio, oppure ha preso di recente la patente. Forse accentuato da una casuale corrispondenza geografica, che vede la sponda est del ponte poggiare le sue basi proprio presso la fiorente cittadina di Sakaiminato ritenuta, niente affatto casualmente, la capitale dei fantasmi e mostri giapponesi, gli yōkai.
Potrebbe quindi capitare, dirigendosi verso l’imbocco di questo svettante ponte che per fortuna non richiede il pagamento di un pedaggio, di passare per la strada che l’amministrazione comunale ha scelto di dedicare ad uno dei suoi più insigni cittadini, il grande autore di manga Shigeru Mizuki (purtroppo recentemente deceduto all’età di 93 anni). Un viale costellato di numerose statue in bronzo delle creature più diverse tra di loro, da gatti con la testa appuntita a scheletri, buffe pantofole con gambe e braccia, numerosi occhi scrutatori senza traccia di una testa attorno e naturalmente, il personaggio più famoso dell’autore, Kitaro dei Cimiteri, un ragazzo monocolo che fu per molti anni l’ultimo esponente della tribù dei fantasmi (yūrei zoku) nonché figlio giustappunto di uno di quei bulbi oculari ambulanti (non chiedete). La connessione potrebbe apparire labile, quando non si considera come nel folklore giapponese, analogamente a quanto capiti nella maggior parte delle culture popolari, l’attraversamento di un ponte sia considerato latore di potenziale sventura, proprio per l’offesa arrecata agli spiriti del fiume sottostante, offesi dalla sempre notevole arroganza della razza umana. Perché non citarne, dunque, qualcuno?

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