Il pane cotto in un cilindro sotterraneo

Tajik Bread

Un altro click, l’ennesima finestra che si apre su di uno scenario di vita comune, ancora una volta proveniente da contesti quotidiani infinitamente diversi dal nostro. Eppure, c’è una strana familiarità in questa serie di gesti antichi e calibrati. Quasi come se, pur non avendo mai provato l’esperienza di fare il naan, principale cibo dell’Asia meridionale, in un certo senso ne conoscessimo il sapore. Frutto dell’incontro conviviale e la proficua collaborazione, valori di primo piano nell’etica di qualsiasi società, non importa quanto distante dal punto di vista geografico e/o culturale. In un silenzio quasi religioso, probabilmente motivato anche dalla presenza delle telecamere, Shamsullo Dustov, abitante del Tajikistan, si coordina con una sua parente o vicina di casa (il nome non ci è pervenuto) nel dimostrare il corretto impiego del tandooruno strumento di cottura che costituì, fondamentalmente, il passaggio intermedio tra un semplice buco nel terreno con il fuoco dentro e il forno orizzontale in muratura, ma che tuttavia può dirsi, in molti contesti delle sue regioni d’origine, una versione più essenziale ed efficiente di quest’ultimo elemento. Sufficiente alla creazione di un vasto ventaglio di delicatezze, tra cui la più famosa in Occidente resta ad oggi il pollo speziato di colore rosso fuoco, proveniente dall’India del Punjab, che da un tale arnese prende il nome di tandoori. Ma basta spostarsi di qualche chilometro da quel particolare luogo, per scoprire come il particolare cilindro di materiale ceramico refrattario o metallo sia sinonimo di un gusto del tutto differente, che potrebbe dirsi il fondamento stesso della cucina del Tajikistan e dell’Uzbekistan, delle genti Azere e dei Curdi, e che da questi luoghi fu esportato alla maggiore parte dei paesi confinanti. Il pane lievitato fatto con la maida, una farina molto fine che da noi si usa soprattutto in pasticceria, ha un nome che viene impiegato senza limitazioni in molte lingue, ma un’origine etimologica che ne collocherebbe l’origine tra le genti dell’odierna Iran: la parola persiana nan, infatti significava cibo, e ne conosciamo diverse varianti attraverso i secoli di storia successiva dell’aria semitica, con derivazioni Partiche, Balochi, Sogdian e Pashto. Eppure non c’è luogo tra quelli citati, e forse nell’intero mondo conosciuto, in cui il semplice pane riceva un posto di maggiore pregio sulla tavola, e una più alta considerazione, che in questo paese confinante con la Cina, stretto fra due catene montuose e privo di sbocco sul mare (fosse stato questo, pure Caspio oppure Nero). Una terra relativamente poco fertile, che negli anni recenti, a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, ha visto un significativo calo della sua produzione agricola e industriale. E dove quindi, l’abbondanza alimentare in una casa è spesso riservata ad occasioni speciali, come feste, riunioni di famiglia e matrimoni.
La versione del naan che ci viene mostrata nel presente video, in effetti, così grande ed attraente, è quella definita patyr, la cui parte superiore viene attentamente decorata, prima della cottura, tramite l’impiego di posate o un’attrezzo specifico, detto nonpar. L’effetto finale, nel caso di preparatori esperti che si applicano per dei tempi particolarmente lunghi, è simile a quello di un merletto lavorato, che stimola l’occhio ancora prima dell’appetito, e la dice lunga sull’alta considerazione in cui queste genti tengono i loro ospiti e parenti. Al termine di un simile passaggio, privo di una funzione pratica eppure assolutamente necessario, il pane viene finalmente infornato. Ed è forse proprio questo gesto, quello che potrebbe rimanerci maggiormente impresso. In più di una maniera!
Ci sono molte versioni del forno tandoor, ed altrettanti metodi d’impiego. In quello tradizionale per la preparazione del naan, tuttavia, non è previsto l’impiego di alcuna superficie di sostegno o barriera tra il cibo e le fiamme vive del carbone, che possono raggiungere anche la temperatura di 480 gradi. Il cibo viene infatti, letteralmente sospeso. Si, ma come? È presto detto. Nel momento saliente del video, lavorando rigorosamente a terra, S.Dustov prende la sua ampia frittella e la depone su un cuscino piatto dalla forma circolare. Quindi, praticati alcuni tagli perpendicolari sull’impasto, prende tutto quanto e lo solleva, si avvicina al buco nel terreno. Tra il probabile stupore degli spettatori internettiani, si china verso l’apertura e sembra stare per gettarvi dentro il quibus laboriosamente preparato, quando all’improvviso…SPLAT. Un colpo di mano, frutto di anni di esperienza, basta a scaraventare l’insieme sulla liscia parete del forno. Dove, volente o nolente, resterà saldamente appiccicato, fino al risuonare metaforico di un timer di cottura, tramandato dalla prima mente agile che concepì un simile metodo di preparazione, così apparentemente contro-intuitivo. La che verrebbe anche da chiedersi, ma il naan, non cade dentro proprio MAI?

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La battaglia degli atleti che trattengono il respiro

Kabaddi

Tutti gli sport di squadra servono a costituire, in una forma oppure l’altra, un’addestramento bellico di qualche tipo, poiché è nella natura stessa del concetto di gioco, sia questo fisico piuttosto che concettuale, simulare situazioni di conflitto. Pensate alle tenzoni della palla ovale, il cui fluire rassomiglia tanto da vicino alla casistica di un doppio schieramento di fanteria, che si affronti per raggiungere la base del nemico, in un particolare caso, con tanto di protezioni ed armatura. Il baseball, nel frattempo, è una chiara metafora del corpo dell’artiglieria, con l’importanza che rivestono le traiettorie, i posizionamenti, l’attento impiego delle munizioni (in questo caso, umane). Mentre il nostro calcio, con il suo fluire imprevedibile e l’impetuoso dinamismo, non è dissimile dall’esperienza di un confronto tra manipoli di forze speciali, che devono pianificare contromosse basandosi sui gesti dei propri avversari. Lacrosse, hockey? Spadaccini. Basket, pallamano? Granatieri. Ma volendo seguire una tale progressione logica, più o meno improbabile, c’è uno sport del Sud dell’Asia che si mette in evidenza concettuale tra gli altri, perché è la chiara rappresentazione di un grande e nobile guerriero, l’attaccante solitario, che si prodiga sfidando un gruppo di possenti difensori. Fino a sei, nella variante più famosa, che per vincere devono letteralmente farlo cadere a terra. Mentre lui può eliminarli semplicemente con un tocco, seguito dal ritorno oltre la linea di metà campo. Col procedere della partita, che dura due tempi da 20 minuti l’uno, in campo possono esserci fino a 7 giocatori, gradualmente eliminati a seguito della cattura ed eventualmente sostituiti dai loro compagni di squadra. Il nome dell’antichissima tenzone, la cui origine si perde nella storia arcaica dell’India meridionale, è Kabaddi, un termine dall’etimologia incerta, che potrebbe derivare dall’espressione in lingua Tamil kai-pidi (tenersi per mano) o in alternativa da kab (coscia) e haddi (ossa) un riferimento alle parti del corpo che ricevono le maggiori sollecitazioni, o per meglio dire infortuni, nel corso dell’azione di gioco. Questo sport a differenza degli altri citati, in effetti, si fonda sul contatto diretto e potrebbe facilmente sembrare, ai nostri occhi, una strana commistione del rugby e del wrestling, con alcuni elementi comuni al dodgeball, la versione competitiva del gioco della palla avvelenata. Ciò detto, questo sport resta sufficientemente complesso, ed originale, da risultare difficile da comprendere o seguire senza un breve corso accelerato sulle regole, che in questo caso ci viene offerto, con notevole perizia esplicativa, nel video dello youtuber Ninh Ly, produttore di una serie molto popolare sugli sport dei vari paesi del mondo.
Si inizia, come sempre avviene per il Kabaddi, con il singolo aspetto più bizzarro di questa disciplina, che tuttavia negli anni, grazie all’apporto tecnologico è diventato sempre meno necessario: trattenere il fiato. La limitazione principale all’assalto di cui sopra, condotto dal giocatore attaccante scelto a rotazione che viene definito con il termine tecnico di raider, è infatti di natura temporale, affinché nel caso in cui i difensori, nonostante gli sforzi effettuati di concerto, non riescano a placcarlo, ma neppure lui ad eliminarli, costui debba infine ritirarsi e lasciare il passo a uno sfidante più aggressivo. E poiché lo spot veniva praticato in origine, come anche il calcio storico, in assenza di arbitri o sistemi di misurazione dei secondi, la soluzione scelta diventava far ripetere ossessivamente al raider, per l’intero corso del suo assalto, la parola “kabaddi, kabaddi […]” senza mai inalare. Con il tempo la capacità di restare in apnea per tempi prolungati diventò un cruciale tratto distintivo dei migliori giocatori, nonché una dote necessaria a far carriera. La regola continua ad essere praticata assiduamente in ambito amatoriale, ed è inoltre un punto fermo delle numerose versioni regionali dello sport.

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Il canto armonico dei mongoli dei nostri tempi

Khusugtun Batzorig

Avete mai sentito di un uomo che riuscisse a tenere due note contemporaneamente? Conoscete quel tipo di musica in cui le vocali vengono così potenziate, fino a dimensioni abnormi, da arrivare a pronunciare una media di 0,3 parole al minuto? In certi casi estremi, vedi il pezzo tradizionale Uvgin shuvuu khoyor (Il vecchio e l’uccellino) nel corso di 3 ore vengono pronunciate esattamente 32 brevi strofe, senza neanche l’ombra di un tranquillo ritornello. Non sono queste che due meraviglie fra le innumerevoli, dell’antica tecnica del canto armonico che comunemente definiamo con il termine Khoomei. In realtà null’altro che il nome in lingua di uno degli innumerevoli stili praticati nella regione siberiana di Tuva, nei secoli associato per antonomasia alla versione trasportata insieme ai venti dalle orde dei loro vicini maggiormente bellicosi. E chissà se il grande Chinggis che si è soliti traslitterare con la G e la E, l’uomo più prolifico e spietato della storia, immaginava ciò che avrebbero ascoltato i suoi lontani discendenti, quando momentaneamente stanco di tante conquiste e peregrinazioni, seguito dalla sua ancestrale carovana, decretò che il popolo sostasse per un tempo medio a Ulan Bator, nella valle del fiume Tuul, dove le yurte gradualmente vennero sostituite da alti templi dedicati a Tengri, il dio del cielo e della terra. Perché se pure lui non perse tempo a ripartire, verso i giorni successivi della sua leggenda e fino all’ultimo passato in sella, molti lì rimasero, a fondar le basi di uno stato successivo al nomadismo. Che costituisce, ai giorni nostri, l’eredita dei mongoli, degli archi a cavallo e delle loro narrazioni musicali.
Una scena rock ed heavy metal molto attiva, diverse boy band, come i Camerton, i Motive e i Nomin Talst, gruppi femminili quali le Kiwi, le Emotion, le 3 ohin e le Lipstick (tutto questo cita Wikipedia) e cantanti solisti di fama anche internazionale, vedi Amarkhuu Borkhuu, giovane star del pop mongolo e russo. È presente inoltre ogni possibile variante dell’hip hop. Generi globalizzati, che anche qui trovano una pletora d’esecutori meritevoli, largamente sconosciuti oltre gli erbosi tratti della steppa senza fine; ma l’opera che può colpirci maggiormente, da occidentali quali siamo, resta senz’altro un certo tipo di trasformazione delle tradizioni, quel tipo di pezzo musicato secondo metodi ancestrali ma con canoni e tempistiche decisamente più moderne. Nel Khoomei dei nostri giorni, in effetti, il ritmo aumenta in modo esponenziale. Nulla resta di quei manierismi tribali delle origini, tramite cui il cantante o menestrello di turno, nell’elogio agli antenati o nella lode a un qualche splendido cavallo, trasportava i suoi spettatori in un mondo senza limiti e confini, ove lo sguardo e poi l’orecchio si perdevano a vagare trasognati. Chi ha tempo, non aspetti. Siamo nell’epoca del digitale! Dei panini col salame! Delle informazioni nette e chiare, dei tremendi cellulari! Molto più adatto, al nostro gusto, potrebbe risultare un artista come questo Khusugtun Batzorig, che qui vediamo in bilico sopra l’affascinante formazione rocciosa tra due fiumi e il deserto del Gobi, mentre suona con trasporto un morin khuur, o violino con la testa di cavallo. Impossibile notare come lo strumento, per una qualche strana causa, sia del tutto privo di detta presenza equina intagliata sulla cima dell’impugnatura, elemento che derivava dall’antica verga sciamanica ed aveva sempre costituito il simbolo di questo genere musicale. Forse c’è un qualche tipo di remoto simbolismo… Ma poco importa: perché costui, anche complice il paesaggio, con la sua veste keel di un verde acceso e i capelli raccolti in un lungo codino, ci appare indubbiamente come: l’uomo più mongolico di tutti i tempi. Mentre nel crescendo della sua canzone, che stando al titolo sarebbe guarda caso dedicata al celeberrimo Genghis/Chinggis, si palesa lo stiléma di un tempo remoto, eppur gradevolmente velocizzato per il gusto di chi visita YouTube.

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Questo gallo è una pantera giavanese

Ayam Cemani 2
Via

Non c’è niente di meglio, assieme a un bel pollo arrosto aromatizzato al limone, di un bicchiere di vino classico del Chianti, prodotto DOC di vasti vigneti a giacitura orizzontale, pregiato vanto della splendida Toscana. Versato, tra la gioia dei presenti, da una tipica bottiglia in stile bordolese, sulla quale campeggia, dentro un cerchio rosso d’etichetta, con il becco e gli occhi spalancati, una creatura quasi mitologica: il gallo nero, antico emblema medievale. Simbolo di un’alba assai particolare. Si narra, infatti, di come intorno al XIII secolo, per sedare l’ennesima guerra tra Firenze e Siena, due cavalieri dovessero partire al proverbiale canto che preannuncia l’alba, frutto di cotanti bargigli e zampe triforcute. Era stato infatti deciso, ai fini di ripartizione delle terre, che sull’incontrarsi degli armigeri sarebbe stato stabilito il nuovo confine, per una sorta di tenzone utile a risparmiare innumerevoli campagne militari, spargimenti sanguinari, diplomatiche battaglie. Ma i senesi, per far cantare prima il loro gallo bianco, l’avevano abbuffato a dismisura. Mentre i fiorentini, al proprio uccello del colore della notte, non avevano dato un’oncia di alcunché. Così quest’ultimo, risvegliatosi in anticipo per l’effetto dei morsi della fame, cantò tanto presto che la città del giglio, con rapida e gloriosa cavalcata, poté aggiudicarsi tutto il Chianti.
Eppure il tipico galletto ruspante italiano (gallus gallus) per quanto celebre, non potrà mai davvero assomigliare a una simile chimera: tanto per cominciare, ha il becco giallo. E la cresta rossa, le zampe grige…Il suo coefficiente di melanina, il pigmento che scurisce, basta a mala pena per le piume. Per trovare il vero gallo nero, occorre spingersi verso le terre del remoto Oriente. Ebbene, ripartiamo dal vicino Lazio.
EST! EST!! EST!!! Come aveva detto il vescovo Johannes Defuk, al seguito del Sacro Imperatore Enrico V di Germania, in visita dal papa per la sua incoronazione (1111). Ma mentre lui cercava il vino, da vero intenditore quale era, e lo trovò a Montefiascone, assai più lunga e travagliata sarà questa nostra ricerca, di un vero e proprio gallo in grado d’inghiottire ogni baluginio di luce. Tale da portarci oltre la Vecchia, al di là del Medio-Oriente, per tutto il continente d’Asia e fino alla sua massima propaggine oceanica, dove campeggia l’arcipelago dell’Indonesia…

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