Un’idea fuori dal tempo ed oltre i limiti della consueta logica procedurale: rendere vicine, per quanto possibile, le temperate valli del bacino fluviale del Sichuan e gli altopiani tibetani, dove l’aria rarefatta s’interpone come unica barriera tra l’uomo e l’infinito. 240 Km di strada, che non sarebbero una cifra tanto eccezionale, se soltanto non passassero attraverso sei montagne con 25 tunnel, tre grandi fiumi, dodici zone di faglia sismica ed un dislivello nel complesso pari a quello di un sinuoso percorso verso cime perse tra nubi distanti. Ciò non basta ancora a impressionarvi? Allora, considerate questo. Prima del 1980, il trasporto di merci nell’entroterra avveniva primariamente tramite linee ferroviarie, e non era del tutto errato affermare che il paese fosse privo di un singolo chilometro di autostrade in senso contemporaneo. Ancora 7 anni dopo, un primo esempio di simili infrastrutture era stato completato tra Shanghai e Pechino, impiegando prestiti considerevoli da parte della Banca Mondiale. Ma sembrava che la modernizzazione del sistema stradale fosse destinata a procedere a rilento. Almeno finché il 13 gennaio del 2005, il Ministero dei Trasporti annunciò il suo piano “7918” per una griglia di 7 sentieri asfaltati destinati a diramarsi dalla capitale, 9 in direzione nord-sud e 18 est-ovest da completarsi entro il 2030. Ma ciò non fu giudicato essere ancora abbastanza, con il passaggio entro il primo quinquennio al progetto revisionato dal numero identificativo aumentato a “71118” (per undici strade appartenenti alla seconda categoria). Una di queste, alquanto inaspettatamente, avrebbe finito per attrarre l’attenzione, ed in una certa misura l’invidia, degli ingegneri civili di mezzo mondo. Poiché si potrebbe tranquillamente affermare, senza distanziarsi troppo dalla verità, che il lavoro completato nel 2018 per questo particolare e lungo tratto della Pechino-Kunming attraverso la significativa catena montuosa di Hengduan, soprannominato per l’appunto autostrada Yaxi/Tianla o Sky Road costituisca qualcosa di assolutamente unico al mondo. Eppure al tempo stesso, persino tale affermazione potrebbe costituire un parziale eufemismo. Di fronte alla constatazione della somiglianza, più che accidentale, di una parte significativa del percorso alla dislocazione pratica di una montagna russa, tra rampe, curve sopraelevate e soluzioni fortemente innovative, quali la dozzina di trafori montani con forma circolare ascendente, al fine di condurre i mezzi più pesanti fino in cima superando il problema pratico d’eccessive pendenze. Mentre in altri casi, le particolari soluzioni adottate paiono parte di una precisa ricerca estetica, laddove forma originale e funzione risultano effettivamente coincidenti per l’effettiva e comprovata distanza del progetto, da qualsivoglia metodologia consueta dalle comparabili circostanze. Ed è forse proprio questa, tra le molte apprezzabili caratteristiche di una simile modifica del paesaggio, a renderla maggiormente accettabile anche da parte di chi ama preservare le cose com’erano in origine. Benché resti facilmente immaginabile il modo in cui, negli anni, le proteste degli ambientalisti debbano aver richiesto più di un innalzamento sistematico del ben noto e raramente fallibile grande firewall cinese…
strade
In Spagna il ponte più ambizioso costruito prima dell’ingegneria contemporanea
Per gli uccelli migratori che utilizzano il fiume Guadalevín come ausilio alla navigazione verso il centro d’Europa, si presenta a un certo punto la necessità di una scelta. Per un ostacolo che sorge, imponente, lungo il corso di quel cammino: si tratta del tajo di Ronda, una gola profonda 120 metri il cui superamento tende a prevedere, in circostanze normali, l’imbocco dell’angusto spazio con le ali dispiegate al fine di stabilizzarsi, gli occhi intenti a giudicare la distanza delle due pareti mentre si procede fino al termine della spelonca. Il che pur permettendo di risparmiare una considerevole quantità d’energia, evitando di librarsi sopra quel prodotto dell’erosione millenaria andalusa, appare insolito a chi si troverà a guardarli dall’alto. Perché c’è un’intera cittadina, sulle elevate sponde, e un angusto ponte con l’arcata massima di appena 15 metri che agisce come una porta verso il centro del canale profondo. Ed automobili che marciano, chiassose, sopra il grido dei gabbiani indefessi.
Come c’era stato per sei anni, a dire il vero, fino a quel fatale giorno nel 1741, quando il peso di 50 persone situate in tale punto di passaggio innaturale, non causò il crollo dell’arcata, con conseguente e inevitabile perdita delle loro vite. Un punto di svolta per la storia di qualsiasi cittadina rinascimentale, costoso non soltanto in termini sociali ma produttivi, organizzativi e relativi al corpo principale delle conoscenze ereditarie e artigiane. Benché scegliendo di non perdersi d’animo, il paese suddiviso in parti eguali dal burrone scelse allora di creare l’impensabile: un secondo, questa volta indistruttibile ponte nello stesso sito. Che si sarebbe dimostrato in grado di sopravvivere, allo stato attuale, al passaggio dei tre secoli successivi. Impresa degna di richiedere, fu ben presto compreso, l’investimento di fondi considerevoli, che furono stanziati prelevandoli dalle somme accantonate per la fiera prevista ogni anno per il mese di Maggio. Ci vollero ben 10 anni, fino all’inizio del 1751. Trascorsi i quali l’ordine di cavalleria della Real Maestranza, con sede in quel di Ronda, ritenne di esser pronto a chiamare per il progetto uno degli architetti più collaudati del paese, quel Martín de Aldehuela (1729-1802) che aveva recentemente completato la costruzione del complesso sistema di approvvigionamento idrico di Malaga, l’acquedotto di San Telmo. Il quale dopo una rapida presa di coscienza della situazione vigente, ideò la soluzione ideale per quello che avrebbe preso il nome imperituro di Puente Nuevo, un letterale doppio grattacielo costruito con la pietra prelevata dal fondo stesso del burrone antistante. Sotto ogni aspetto, la sovversione pratica di tutto quello che dovrebbe essere un tipico attraversamento fluviale, tradizionalmente concepito al fine di permettere il passaggio libero e privo di conseguenze delle acque periodicamente impetuose nel corso d’acqua sottostante. Ma pensato piuttosto per incapsularlo e coprirlo in maniera quanto meno parziale, con quelle che potrebbero essere le torri principali di una svettante fortezza risalente all’epoca medievale. Ed un arco centrale conseguente, con l’effettiva capacità di estendersi oltre uno spazio pari a metà del salto sottostante…
L’azione rotante che capovolge il modo di progettare un ponte
L’uomo gira freneticamente l’ingombrante manovella in senso orario, nell’evidente attesa che possa verificarsi l’Evento. E non c’è neanche il tempo di provare a interrogarsi sulla probabile natura di quest’ultimo, prima che i nostri occhi vadano a posarsi sull’imponente scheletro di un parallelepipedo da 13 tonnellate posizionato almeno in apparenza in equilibrio sul fiume Lea, instradato sul passaggio di specifiche rotaie ondulatorie. Per l’oggetto che un poco alla volta, con un suono simile a quello di una pendola del nonno, si appresta a ricevere il fondamentale dono dell’obliquità. Benché a quel punto non si fermi, per marciare con fermezza fino al mezzo giro dei 180 gradi. Facendo conseguentemente risalire, prima da una parte e infine sulla sommità distante, il battistrada che poteva conseguire dall’unico lato chiuso dell’insolito costrutto di metallo e legno di quercia. Un vero e proprio ponte inglese, sotto qualsivoglia specchio dell’analisi s’intenda scrutarlo.
Verso la fine del XIX secolo la maggiore isola del Regno aveva organizzato i suoi trasporti sulla base di due metodologie ben collaudate. Le persone che viaggiavano, nella maggior parte dei casi, in carrozza lungo strade mantenute in buone condizioni dallo Stato, mentre le merci e i carichi pesanti, sulla base di un’usanza mutuata dal continente, tendevano a imboccare la via dei canali e corsi d’acqua fluviali, a bordo di chiatte lunghe trainate il più delle volte mediante l’utilizzo di affidabili motrici altrettanto inclini all’occasionale nitrito. Ciò che tendeva a capitare tuttavia, come avviene ancora con gli attuali mezzi di spostamento, è che i due tipi potessero trovarsi, in attimi diversi, ad affrontare una geometrica criticità condivisa: l’incrocio liminale tra la parte solida e quella liquida del territorio esistente. Entrambi temporaneamente inclini ad aspettar dando la precedenza, eppur coscienti della problematica inerentemente limitante: che se qualcosa non fosse cambiato nell’assemblaggio del punto di transito condiviso, tale tempo si sarebbe esteso fino all’eternità… Da qui l’idea, tipicamente apprezzata dagli ingegneri di epoca vittoriana, di far muovere il ponte. Ed è la storia di questo particolare approccio tecnologico in Gran Bretagna a costituire, per chi ha voglia d’approfondirlo, un formidabile catalogo di approcci alternativi, capaci di ruotare, sollevarsi, essere spostati o messi da parte. Con motori, motrici, carrelli o ruote di criceto umane. Ragion per cui colpisce in una misura ancor maggiore, il fatto che l’ultima opera firmata dall’architetto Thomas Randall-Page, in questo caso coadiuvato da un nutrito gruppo di consulenti e progettisti, rappresenti l’ambiziosa esplorazione di un potenziale approccio del tutto alternativo. Qualcosa che nessuno in altre circostanze, avrebbe mai potuto dimostrare di saper portare fino alla tangibile realizzazione latente…
Un altro monito dall’uomo che si è attribuito l’ardua missione d’ispezionare i guard rail
Soltanto un padre preoccupato, il suo telefono con videocamera, un canale YouTube da 58.800 iscritti. Tanti, tantissimi eppure mai davvero abbastanza. L’argomento del video di oggi: una di quelle cose che letteralmente ci circondano, pur trovandosi frequentemente oltre i margini della nostra coscienza. Ma guai, a farci finalmente caso. Poiché quanti tra gli onnipresenti corrugati metallici ai margini delle strade, spesso concepiti al fine d’impedire l’invasione di corsie opposte, sono davvero costruiti nella maniera ideale, ovvero completi in ogni loro significativo ed importante dettaglio? Aspetti come la consigliabile presenza di un sistema di ancoraggio al suolo, mediante cavo metallico imbullonato nell’asfalto, pena l’incapacità di mantenersi integri durante il colpo obliquo di un veicolo abbastanza pesante. Evento il quale, come qui ampiamente dimostrato ed anche documentato dall’associazione NCHRP (Programma Nazionale Cooperativo di Ricerca Autostradale) tenderà altrimenti a causare il disfacimento prematuro del dispositivo in questione, trasformandolo nell’equivalenza di un gigantesca lancia penetrante o micidiale katana. E nessuno vorrebbe che ciò potesse tendere a capitare…
Una delle maggiori contraddizioni nel campo della sicurezza stradale è la maniera in cui risulta essere del tutto impossibile progettare soluzioni utili a ridurre il rischio in ogni possibile circostanza, quanto piuttosto metodologie atte a ridurre l’incombenza statistica di gravi conseguenze, mentre si aumentano di contro le probabilità che qualcosa d’inaspettato possa causare l’effetto diametralmente opposto. Questo in parte per la problematica sempre presente dell’errore umano, che può portare a un’utilizzo inappropriato delle pur valide risorse a disposizione: vedi l’esempio degli ultimi imprudenti che ancora oggi, non volendo sopportare il “fastidio” della cintura di sicurezza, la indossano in modo tale da non ancorare la spalla sinistra, aumentando piuttosto che ridurre il rischio di gravi ferimenti agli organi interni. Vi sono tuttavia casistiche, di contro, in cui il guidatore non è incaricato né messo in condizione d’influenzare il proprio destino, semplicemente perché studi approfonditi hanno dimostrato come in particolari tratti di strada, gli apparati di sicurezza devono essere posizionati in un particolare modo tra i molti a disposizione, in base a norme necessariamente flessibili nella speranza di aver previsto il più ampio ventaglio di possibilità future. Eventi in linea di principio prevedibili, come il disgraziato giorno in cui nel 2017 la giovane Hannah Eimers alla guida della Chevrolet Silverado del qui presente padre perse il controllo sull’Interstatale 70 in Missouri, finendo per colpire la parte finale del guard rail correttamente ed appropriatamente installato ai margini di quella strada fatale. Mentre il particolare elemento a forma di T per l’assorbimento di questa tipologia d’impatti, progettato con largo profitto dalla X-Lite, che s’impunta contro il blocco motore dell’automobile. Spingendolo all’interno dell’abitacolo, e sbalzandola fuori dall’auto, senza lasciarle purtroppo alcun margine di salvezza. Morti evitabili ed un tipo di soluzione, quest’ultima, effettivamente poco usata fuori dagli Stati Uniti (e non è detto che le alternative siano migliori) proprio perché soprattutto valida nei confronti dei veicoli a quattro ruote, risultando potenzialmente peggiorativa per la sicurezza dei motocicli. E che a partire dall’ultimo anno, è stata non a caso proibita e rimossa, con gran dispendio di risorse, in due terzi degli stati americani che avevano precedentemente scelto di utilizzarla lungo il corso delle loro strade. Grazie, soprattutto, all’opera di quest’uomo…