Il giallo richiamo e lo splendore mai sopito della curcuma in fiore

Chiaro e nascosto. Sopra e sotto. Front & back. Mae (前) ed ushiro (後ろ). La scuola del pensiero corrente ci ha educati a considerare ogni elemento valido di discussione da due punti contrapposti, dedicati nella progressione delle circostanze ad utilizzi ed un significato distinto. Per cui ogni cosa viene messa organizzata su una scala in base agli utilizzi immaginabili e un’altra parallela e indipendente, che misura l’estetica e apparenza del suo involucro tangibile immanente. Così come le piante commestibili o taumaturgiche, a seconda delle circostanze, possono trovare posto anche nei giardini ornamentali, cosa che tende in genere a verificarsi quando sono alte, forti, variopinte o appariscenti in diverse maniere. Il che non spiega d’altra parte come mai, fuori dal loro vasto areale d’origine nell’ancestrale Gondwana tropicale (distribuito tra America Centrale, Africa ed Asia Meridionale) alcune delle piante appartenenti alla famiglia delle Zingiberales siano generalmente conosciute e utilizzate solamente in cucina. Spunto d’analisi di certo significativo nel caso della pianta erbacea Curcuma longa o come viene chiamata in lingua inglese, turmeric, il cui nome evoca nell’immaginario collettivo d’Occidente soprattutto quello di una polvere dal color giallo paglierino ed il sapore caldo, delicato e lievemente piccante. Un gusto che ricorda almeno in parte quello dello zenzero (Z. officinale) benché dotato di una punta d’amarezza che risulta estremamente distintiva in un’ampia varietà di curries; non che tale pianta strettamente imparentata manchi di risentire dello stesso, identico problema. Che ci vede risalire nella cognizione botanica della loro essenza fino al corto, contorto gambo sotterraneo noto come rizoma, che ci porta a considerarle alla stregua di una pianta “poco nobile” come la patata o la carota. Ovvero asservita ormai da incalcolabili generazioni alla coltivazione da parte dell’uomo, avendo perso quei tratti distintivi, soprattutto in epoca di fioritura, che potevano renderla affascinante per gli insetti e uccelli impollinatori. Idea non del tutto sbagliata, almeno in linea di principio, quando si considera come la varietà maggiormente coltivata soprattutto internazionalmente della curcuma sia del tutto sterile, ovvero incapace di produrre semi, ragion per cui può essere propagata soltanto in maniera vegetativa. Il che non spiega d’altra parte la presenza occasionali di particolari infiorescenze dal colore rosa intenso sfumato nel verde, all’interno dei giardini e le piantagioni di taluni luoghi privilegiati, dotate dell’aspetto prototipico e fragrante di un carciofo prossimo allo sboccio. Aperto su più livelli, come nelle varianti selvatiche ed originarie della pianta, richiamando nel contempo un calice dai tre versanti, con le brattee che si fondono in una corolla tubolare individualmente accentuate dalla presenza di piccole strutture globose al tra le rispettive intercapedini sovrapposte. Per cui “magnifico” in taluni casi, appare come un semplice eufemismo…

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Rosso avadavat, con l’aspetto di una fragola fuggita dalla macedonia volante

All’epoca della prima creazione di un sistema tassonomico coerente, quando Linneo pubblicò il suo rivoluzionario catalogo delle specie nel Systema Naturae, capitava frequentemente che i naturalisti sopravvalutassero il numero delle specie d’uccelli. Questo per i casi di marcato dimorfismo sessuale tra maschio e femmina, caratteristica piuttosto frequente in tutti i casi in cui la competizione tra i possibili partner d’accoppiamento tendeva a svolgersi sul piano estetico, piuttosto che essere decisa dall’abilità nel canto, nella danza e la ferocia nel controllo del territorio. A tale fraintendimento poteva dunque aggiungersi l’idea che una delle suddette categorie potesse risultare migratoria, comparendo unicamente in determinati periodi dell’anno quale, ad esempio, il concludersi della stagione delle piogge nel subcontinente indiano ed Asia Meridionale. È perciò una chiara testimonianza della vasta popolazione ed ancor più significativo areale di questo bengalino estrildide, classificato in un primo momento dall’autore svedese come Frigilla amandava, se la sua situazione e storia biologica furono fin da subito chiaramente descritte, nonostante sussistesse il potenziale di significativi passi falsi in materia. La caratteristica maggiormente distintiva di questi passeriformi, piuttosto somiglianti ai diamanti mandarini (gen. Taeniopygia) benché biologicamente distinti, è proprio il mutamento stagionale del piumaggio dei maschi, che si verifica ogni anno verso il finire del mese di maggio e continua a sussistere fino a novembre. Un processo che vede il piccolo uccello di un grigio-bianco mimetico tingersi progressivamente di chiazze color vermiglio, inclini gradualmente ad incontrarsi in una singola, ininterrotta livrea puntinata di bianco. Mentre il becco del volatile, normalmente nero, diventa anch’esso del colore di un tramonto in una tersa giornata di primavera. Mentre il comportamento stesso dei prescelti li trasforma in esseri cospicui e chiassosi, rendendo molto più probabile la cattura da parte di eventuali predatori. Un chiaro esempio di dimostrazione dei fenotipi appropriati ed il valore genetico del proprio patrimonio, poiché la natura presume che soltanto i migliori a correre un rischio simile possano dirsi possessori dei presupposti necessari a cavarsela, un proposito tutt’altro che semplice sia per le figlie di Venere che i discendenti di Marte. Creature per lo più inclini a nutrirsi di semi e germogli, i bengalini comuni possiedono inoltre l’inerente propensione a catturare varie tipologie d’insetti, tra cui preferiscono in modo particolare le formiche, termiti e miriapodi di varia natura. Nei confronti dei quali appaiono, indubitabilmente, come dei terribili e spietati predatori…

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Stampando ricci tridimensionali per allontanare il rischio dei tagliaerba robotizzati

Sotto qualsiasi punto di vista tranne l’immobilità, praticamente indistinguibile dell’originale. Miracolo dei sistemi di prototipazione domestica tridimensionale per una volta utilizzati per il bene comune, benché in determinati casi convenga nondimeno far ricorso all’originale: “Nel corso dell’ultimo anno, grazie all’aiuto di volontari sparsi per tutta la Danimarca, ho ricevuto presso il mio laboratorio 697 porcospini morti!” Rappresenta una di quelle affermazioni che sorprendono poiché i due termini rispettivamente riferiti alla carcassa di un animale ed espressioni di giubilo non si trovano frequentemente associati, soprattutto quando a esprimersi è una presunta estimatrice della suddetta benamata, graziosa e simpatica specie d’insettivoro spinoso. Erinaceus europaeus ovvero la più tipica vittima d’investimenti automobilistici nei mesi in cui si sveglia dal letargo, ma anche un certo numero di attrezzi e strumenti dedicati alla pratica normalmente del tutto sostenibile del giardinaggio umano. Eppure persino in tale ambito, esiste una particolare innovazione che minaccia simili creature più di qualsiasi altra, proprio in funzione delle proprie metodologie e specifiche di funzionamento inerenti. Sto parlando del tosaerba automatico anche detto robotizzato, capace di percorrere gli essenziali prati all’inglese delle villette a schiera contemporanee, mentre operose lame nascoste in mezzo alle sue ruote si occupano di accorciare uniformemente i verdi fili che costituiscono quel manto. Operando in un’autonomia pressoché totale paragonabile a quella di un Roomba nonché facendolo, nel caso dei modelli più silenziosi ed avanzati, proprio in quelle ore dal contesto notturno in cui i suddetti visitatori tendono a esplorare i confini del proprio ancestrale (ed usurpato) territorio di appartenenza. Il che ci porta nuovamente, con un timido e remoto senso di speranza, alla ricerca e le diverse prove tecniche condotte nel corso degli ultimi mesi da parte della ricercatrice del dipartimento WildCRU dell’Università di Oxford, Sophie Lund Rasmussen che ha scelto di farsi chiamare su Internet Dr Hedgehog, proprio in riferimento a quella che parrebbe essere diventata la sua preziosa, importantissima missione di carriera. Ovvero studiare, attraverso l’effetto di fattori esterni su esemplari già defunti o virtuali del riccio europeo, come preservare a lungo termine il suo gruppo di specie ancora ragionevolmente comuni in buona parte del proprio areale fatta eccezione per l’Inghilterra, dove si trova iscritto nella lista rossa delle incipienti vittime dell’estinzione locale, così come il declino della popolazione complessiva è stato ampliamente documentato a causa di un larga serie di fattori esterni, alcuni dei quali maggiormente risolvibili rispetto agli altri. Vedi quello relativamente nuovo, ma non per questo meno terribile, dell’agguerrito manutentore motorizzato pseudo-intelligente che promette di “restituire il tempo” ai possessori di uno spazio verde innanzi all’uscio di casa. Divorando come niente fosse sul tragitto chiunque d’altro possa palesarsi, al di sotto di una certa dimensione, a intralciarlo nello svolgimento del suo lavoro…

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Le tombe lunghe 150 metri dedicate agli ancestrali capi della Polonia

Provate voi a spiegare a un contadino dell’epoca medievale, il valore intrinseco dell’archeologia. Prendete una persona nata nella semi-indigenza, forgiata dal bisogno, per cui risolvere i problemi quotidiani è un sinonimo diretto di sopravvivenza, e ditegli che non può piantare i suoi sementi in una particolare radura, né prelevarne gli atipici macigni al fine di costruire o rinforzare la sua dimora. Chiaramente egli resterà perplesso, indispettito. Forse persino ostile alle vostre argomentazioni, possibilmente sostenuto dalla percezione secondo cui Dio provvede, laddove antiche culture pagane, ormai dimenticate dagli uomini e dal tempo, possono soltanto essersi estinte per una specifica mancanza di fede. E furono effettivamente fatti dei tentativi, all’epoca del 1870 quando la studiosa autodidatta, giornalista e patriota polacca Natalia Kicka fece dissotterrare per la prima volta i notevoli gruppi di monoliti della regione di Kuyavia-Pomerania, nell’attribuire tali costruzioni agli antenati diretti dei popoli cristiani del suo paese, almeno finché negli anni ’30 del Novecento il celebre archeologo e futuro direttore del Museo Archeologico di Lodz, Konrad Jażdżewski non trovò prove evidenti capaci di collegare tale sito, assieme ad altri sparsi per l’intero paese alla cosiddetta Cultura del Bicchiere Imbutiforme, un gruppo culturale insediatosi nell’Europa Centrale avendo portato a termine una migrazione dalle terre nordiche della Scandinavia, all’incirca attorno al termine del quinto millennio prima di Cristo. Il che faceva della dozzina di tumuli in questione semplicemente uno dei più integri ritrovamenti risalenti a tale epoca, risparmiati dalla cupidigia dei ricercatori amatoriali proprio grazie al loro posizionamento odierno al centro di una profonda foresta, praticamente impossibili da identificare prima che la vegetazione venisse sfoltita, e la terra in eccesso rimossa dalle loro spioventi e lunghe pareti oblunghe. Già perché tali strutture, pur conformandosi almeno in parte all’aspetto generale dei classici tumuli neolitici, presentano proporzioni notevoli considerata la loro funzione principale, di fornire un luogo d’eterno riposo ad una singola persona ciascuna, il cui ruolo e l’importanza nella propri epoca non doveva conseguentemente essere di molto inferiore a quello di un faraone egiziano. Considerate, a tal proposito, lo sforzo ed il tempo necessario per comunità relativamente ridotte come quelle in cui l’agricoltura era ancora una tecnologia sperimentale applicata da pochi, affinché fosse possibile smuovere la terra per un lungo filare capace di raggiungere anche i 50 metri. Senza neppure menzionare le gigantesche pietre disposte ad intervalli regolari sui lati del basso edificio, dal peso unitario di fino a 10 tonnellate, utili a scongiurare il rischio che la pioggia potesse infiltrarsi all’interno della camera sepolcrale. Casistica indubbiamente capace di costituire un fosco presagio, per quelle che taluni hanno preso l’abitudine di definire metaforicamente come le “Piramidi della Polonia”…

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