Gli sbalorditivi mutamenti della Valle della Morte

Death Valley Downpours

Cos’è giallo, profumato e superficialmente conforme a quel comune fiorellino del tarassaco, che noi spesso accomuniamo ai due concetti, variabilmente prosaici, del “dente di leone” e de “l’orinatoio per cani”? Che cosa, se non il Gearaea canescens, soprannominato l’Oro del Deserto, che ricorda vagamente il girasole pur essendo più piccolo, e risulta caratterizzato da uno stelo piuttosto sottile nonché ricoperto di una fine peluria vegetale. Ed è proprio questa pianta, generalmente diffusa in Arizona, California, Nevada e nello Utah, ad aver ricolorato nel giro delle ultime due settimane le pendici di un luogo normalmente tra i più brulli del pianeta: la Death Valley della contea di Inyo, che si estende per 225 Km di lunghezza tra le alte pareti dei monti Sylvania a nord, Owlshead a sud, Amargosa ad est e Panamint ad ovest, nonché ricoperta da una cappa di calore che, in specifici mesi dell’anno, viene accomunata all’aria dalla temperatura più alta del pianeta Terra: fino a 56 gradi centigradi tra luglio ed agosto, nella zona molto appropriatamente nota come Furnace Creek. Tanto che tutt’ora vige tra i turisti, che occasionalmente scelgano di visitare questi lidi, lo stereotipo secondo cui sarebbe possibile cuocere un uovo in padella semplicemente poggiandolo sopra la terra spaccata di un simile suolo, calda quasi quanto il tipico fornello da cucina. Ma con una significativa differenza: dagli attrezzi per la cottura, come si usa dire, non cresce nulla. Una pentola è per sempre.
È il valore problematico delle immagini rimaste impresse nel senso comune: se un recesso si guadagna la connotazione di un valore tetro e spiacevole, tra l’altro rinforzato dal suo nome indubbiamente inquietante, tale resta nella mente di chi crede di conoscerlo profondamente, quando in effetti, dopo tutto, non è così. Tutto in natura scorre fluidamente, si modifica grazie al trascorrere dei giorni. E può succedere persino, nel giro di un paio di settimane di piogge intense, che il grande nulla si arricchisca di un lago alluvionale oppure due. Nella fattispecie: il Badwater ed il Manly, come li chiamano da generazioni. Destinati ad evaporare molto presto, ma non prima di aver lasciato, in un simile luogo, il dono invisibile della sommersa umidità. Nascosta sottoterra, assieme ai semi di un ritorno atteso, eppure non di meno, straordinario. Ciò perché il clima della Valle della Morte, normalmente, è tanto originale quanto prevedibile: trovandosi incassata in una zona sub-tropicale, tra i rilievi che non lasciano passare le alcun tipo d’influenza esterna e ad 86 metri sotto il livello del mare, qui il calore del Sole può riuscire a concentrarsi sul terreno, riscaldandolo in maniera significativa. Causando delle correnti d’aria calda che iniziano a rincorrersi tendendo naturalmente a salire. In seguito poiché nulla è caldo quanto loro, una volta lasciata la cocente conca dette masse si ritrovano immediatamente raffreddate, ricadendo giù più compresse. Con un effetto di addensamento e aumento della temperatura il quale, sostanzialmente, ricorda da vicino quello di un moderno forno a convezione.
Ed ecco che succede quando un fronte d’aria umida proveniente dal vicino golfo della California, in funzione di una particolare concomitanza di fattori e interazione tra le parti, riesce ad oltrepassare le alte pareti di questa fortezza ritenuta inabitabile: qui cade una pioggia sottile, spesso destinata a evaporare prima di giungere a impregnare il suolo, nel manifestarsi del fenomeno meteorologico che viene definito virga. Il cui verificarsi già può bastare, da queste parti, a far notizia. Senza il bisogno di lasciarsi andare ai deleteri eccessi dello scorso ottobre 2015, quando una serie di insolite perturbazioni, originatesi nel modo qui descritto, si sono scontrate proprio sopra questo inospitale luogo. Generando in quel caso circa 6,8 cm di pioggia, una quantità tre volte superiore a quella che usualmente cade nell’intero periodo di un anno. Arrivando a causare danni alquanto significativi nello Scotty’s Castle, la villa coloniale che dal 1922 fa da centro d’accoglienza per i visitatori della valle, e depositando detriti e sedimenti all’interno del Buco del Diavolo, una polla naturale contenente l’intera popolazione globale dei pupfish (Cyprinodon diabolis) il pesce più raro del mondo. Che potevamo perdere, così. Mentre invece, abbiamo ritrovato nuove meraviglie…

Leggi tutto

Lo spettacolare disastro del ghiaccio che viene a riva

Ice Stacking

Un luogo diverso da ogni altro: la cui storia è insolita, la formazione estremamente singolare, le caratteristiche ambientali derivano da situazioni che non trovano corrispondenza altrove. C’è un unico lago Superiore, così come esistono soltanto un lago Michigan, un Huron, un Erie ed un Ontario. Per non parlare dei numerosi piccoli fratelli limpidi e chiari, che circondano e arricchiscono questa regione, ancora ricoperta dalle cicatrici dell’ultima Era Glaciale. E tutti quanti assieme, come la natura ha scelto di disporli, simili bacini dalle proporzioni complessive estremamente vaste (pari, tutti assieme, addirittura al Regno Unito!) arrivano a formare un vero clima a se stante, stemperando gli inverni del grande Nord americano. Il che sarebbe di sicuro un tratto unicamente positivo, se non fosse per alcune circostanze estremamente problematiche, che si ripetono occasionalmente in luoghi abbandonati ma che almeno in un caso, negli ultimi anni, hanno portato a conseguenze alquanto gravi. Essenzialmente, è tutta una questione di proporzioni. Osservato nella misura nel video soprastante, il fenomeno dell’ice stacking è soprattutto un’occasione di appagare gli occhi, le orecchie e la mente. Stiamo parlando di quel momento, tipico dei mesi sul finire del peggiore inverno, in cui il ghiaccio sulla superficie di simili polle sconfinate si assottiglia e frammenta, generando l’equivalenza in proporzione di una vera e propria flottiglia di iceberg, che iniziano a vagare spinti via dal vento. I quali ad un certo punto, poiché l’effettivo oceano resta ad ogni modo tutta un’altra cosa, inevitabilmente si scontrano, dando l’origine a un ammasso che procede in direzioni erratiche e difficilmente prevedibili. Punto a seguito del quale, a seconda di come soffia il vento, possono verificarsi due cose: primo, la costituzione di una nuova isola temporanea, in aggiunta alle circa 35.000 che sono disseminate tra una riva e l’altra di questi mari interni sotto falso nome, depositari del 21% di tutta l’acqua dolce disponibile sul pianeta. Che ad un certo punto si scioglierà, come letterale neve al sole. Ipotesi seconda, il raggiungimento delle coste.
Ora, vi sono punti di raccordo, tra il mondo acquatico e quello terrigeno, in cui alte scogliere o ripidi strapiombi fanno da linea di confine naturale, alla stregua di utili argini, che prevengono indesiderabili straripamenti. Ma non è evidentemente questo il caso della località di Duloth, in Minnesota, presso cui il fotografo Dawn M. LaPointe, del canale online Radiant Spirit Gallery, si è trovato a riprendere, ancora una volta, le “immagini e i riflessi che riecheggiano di terre remote”. Nella fattispecie qui giunte a palesarsi, dinnanzi ad occhi bene attenti e spalancati, come una sorta di valanga all’incontrario, in cui l’acqua congelata, per l’occasione a guisa di un sottile ma esteso velo ghiacciato, che s’incaglia, quindi inizia straordinariamente a spezzarsi. Ciò perché il differenziale di temperatura dovuto all’acqua del lago, per quanto non estremo, è stato comunque sufficiente a generare un fronte di bassa pressione con relativa brezza che continua a spingere, lenta ma inesorabile. E una volta messo in moto quel processo, difficilmente si potrà fermare: tanto che, in pochi minuti, il ghiaccio infranto forma un vero e proprio strato, sopra il quale, senza neanche rallentare, inizia a disporsi un secondo, e quindi un terzo. In breve tempo, la costa assume l’aspetto di una vetreria che sia stata colpita da un ciclone. E persino tutto questo non è nulla, rispetto a quello che può succedere nel caso estremo, del trasformarsi dello stacking in un vero e proprio ice shove, quello che i media americani ed internazionali, con consueta mancanza di precisione subordinata al sensazionalismo, hanno scelto di chiamare in tempi non sospetti lo “tsunami di ghiaccio”.

Leggi tutto

I mostri meccanici che divorano la neve americana

Dc Snow Blower

Potreste averne scorto la sagoma in un notiziario. Oppure, forse no. Del resto, è una creatura semi-leggendaria, persino lì, nel paese dell’hockey e del Super Bowl. Giallo canarino, come si addice a tutti i mezzi da lavoro, con una bocca grande al punto da fare spavento. Ed una lunga proboscide posizionata in verticale, al cui imbocco, invece che due piccoli narici, figurava un grande buco. E tutto quello che mangiava, l’essere su ruote, da lì lo risputava con trasporto, all’interno di un cassone rimorchiato. I passanti con le telecamere ed i cellulari, richiamati dal frastuono, non potevano far altro che voltarsi. E battergli le mani.
Ancora una volta, Mastro Inverno è stato sconfitto dall’opera di un gruppo di campioni, saggi comandanti e alcuni dei migliori stregoni tecnologici sulla piazza, almeno tra quelli che si siano posti al servizio del bene pubblico della Nazione. In un’epica battaglia, che pare sia durata quattro giorni e quattro notti, con spada di fuoco, con benna rotante, con vite infinita, il gelido nemico è stato ricacciato indietro, tra le nubi fosche di perturbazioni climatiche distanti. Ma come per ogni grande vittoria contro l’insofferenza della natura, verso quelle pulci saltellanti che costituiscono la canticchiante umanità, non è davvero il caso di sentirsi sollevati; già i profeti sussurrano tra loro di una tremenda e oscura profezia, che riecheggia nel soffio del vento e l’ulular dei lupi: fra esattamente dieci mesi, col termine della stagione delle piogge, l’inclinazione dell’asse terrestre rispetto al Sole tornerà di nuovo sfavorevole. È noto che ciò porterà ad un accorciamento drastico delle giornate, in una tendenza che si era invertita in occasione dello scorso rituale della grande Festa. E sarà soltanto in occasione della prossima, che Mastro Inverno tornerà. Oh, non è così che sceglieremo di chiamarlo! Noi fantasiosi abitanti degli Stati Uniti, il cui passatempo preferito sono giochi di parole, la creazione di acronimi e di soprannomi. Vedi ad esempio, Snowzilla, Snowpocalipse, Snowcthulhu, Snowmageddon, Snowa-ton… Ecco, un particolare appellativo quest’ultimo, coniato al fine di contenere essenzialmente due parole: il termine di origine anglosassone usato per riferirsi al concetto di neve, e le ultime tre lettere del pre-nome celeberrimo di una città in particolare, la nostra capitale. Washington, District of Columbia (per gli amici, D.C.) Luogo dal clima subtropicale in cui cadono, generalmente, 39 cm di neve in TUTTO l’anno, ma che ne ha avuti 45 in una sola notte, sull’epico finire di questo memorabile gennaio. Una situazione che poteva giungere a paralizzarla per diversi giorni, mentre la popolazione attanagliata soggiaceva nell’attesa di un liberatorio squagliamento. Gente di fondamentale importanza tra cui v’era addirittura il presidente. Se non che…
Si dice che esista un libro, nel Dipartimento della Protezione Civile di ogni amministrazione cittadina, custodito gelosamente all’interno di un ufficio. L’ufficio, naturalmente, del Libro. Ora, non so se la sua copertina sia nera oppure rossa, o rilegata in quale pelle d’animale o d’altra creatura, benché tali considerazioni estetiche siano probabilmente da considerare troppo drammatiche da divulgare. Personalmente, avrei auspicato una colorazione esterna rigorosamente bianca, per meglio simboleggiare la funzione titolare di un simile tomo. Il quale viene definito, non senza un certo grado di responsabilità ed affetto, il grande libro della neve. Ne parlava già nel 1968 la rivista newyorkese Headlight, recentemente citata anche dal portale della ben più celebre Popular Mechanics, definendo in pochi termini il suo contenuto. Ovvero un catalogo di macchinari, sistemi tecnologici e know-how, rigorosamente categorizzato geograficamente, di quanto sia effettivamente disponibile nei vari depositi comunali propri ed altrui, delle città più o meno vicine, per combattere con enfasi, ed imprescindibile alleanza, il feroce ritorno del crudele Mastro Inverno. Perché l’unione fa la forza. Ma il sapersi separare temporaneamente dalle proprie stesse cose, forse, ancor di più!

Leggi tutto

Il deserto che si fa foresta per tre mesi l’anno

Salalah Khareef

Nel corso dell’anno, la parte meridionale dell’Oman è uno dei luoghi più secchi e inospitali del pianeta, con temperature che raggiungono anche i 50 gradi e piogge estremamente rare, concentrate in genere nel solo mese di gennaio. Sulle coste dell’Oceano Indiano, tuttavia, a meridione dell’istmo che dà l’accesso alle acque economicamente significative del vasto golfo d’Arabia, esiste un luogo assai particolare, in cui una commistione fortunata di fattori genera una trasformazione climatica semplicemente senza uguali al mondo. Nel giro di un paio di giorni al massimo, la temperatura scende ad appena 25 gradi sopra lo zero. Piogge incessanti battono le pendici dei colli e le montagne circostanti, causando lo straripamento di fiumiciattoli e torrenti d’altura. In poco tempo, si formano cascate, mentre la foschia insistente copre le campagne di una cappa impenetrabile, in grado di rendere un leopardo del tutto invisibile da una distanza di 8 metri. I cammelli accorrono ad abbeverarsi in massa presso le wadi (valli) permeabili ed improvvisamente inondate, del tutto simili a laghi spuntati dal nulla. Ed è a quel punto che gli arbusti ed i cespugli della regione, del tutto scarni per la maggior parte del tempo, iniziano improvvisamente a dare scena di un rigoglio eccezionale, mentre l’erba cresce, direttamente dal suolo sabbioso delle zone quasi desertificate. Qualcuno, in via rigorosamente informale, ha descritto tale transizione come un magico passaggio dal Sahara all’Irlanda.
Ma qui siamo, in effetti, nella terra di Salalah, città portuale, e del suo miracoloso Khareef, appellativo locale (derivante dalla parola che in altri contesti vuole dire autunno) per riferirsi al fenomeno annuale dell’inesorabile monsone. Succede da circa 15-20 milioni di anni, ovvero già da molto prima che gli umani avessero il privilegio di goderne i benefici: con l’incedere delle stagioni, al sopraggiungere delle temperature più elevate all’equatore, l’aria si riscalda in modo differente in base alla capacità termica di ciò che ha sotto, ovvero terra ferma, oppure acqua salata. Nel secondo caso, infatti, per l’effetto termico della convezione e della conduzione, gli strati freddi al di sotto dei 50 metri di profondità non permettono alla superficie di scaldarsi oltre un certo limite, mentre la sabbia, il suolo e le rocce, nel frattempo diventano letteralmente incandescenti. Ma poiché l’aria calda tende a salire, sulle coste si genera un fronte di bassa pressione, sostanzialmente un vuoto pronto ad essere riempito. E la natura, da che ci hanno lasciato i dinosauri, non tollera mancanze d’equilibrio. Così avviene che questa ingente massa d’aria relativamente fredda, ed estremamente umida, avanzi poderosamente, nella prima parte di un ciclo che la porterà, nel giro di qualche mese, fino all’entroterra più elevato, per poi tornare nuovamente al punto di partenza. Gli effetti sono, come da prerogativa dell’ambito relativo al clima, estremamente variabili. In determinati luoghi affetti da simili circostanze, tutto ciò che le popolazioni locali percepiscono è un leggero calo di temperatura, con precipitazioni più intense nei mesi che vanno da giugno a settembre. In altri àmbiti geografici, invece, l’effetto del monsone è un letterale punto di svolta ecologico, che porta al risveglio d’innumerevoli specie di piante ed animali che, come colti da un’ispirazione improvvisa, senza bisogno di consultare il calendario, lo usano a supporto nei loro periodi di maggiore attività. Dire che le zone circostanti la ridente città di Salalah, tra i maggior porti del Medio Oriente, appartengano alla seconda categoria, sarebbe quasi sottovalutarle. Perché soltanto qui succede che una vera e propria catena montuosa costiera, principale caratteristica territoriale del governatorato di Dhofar, agisca da barriera, permettendo al fronte d’aria umida di soggiacere per un tempo medio-lungo, portando i benefici prolungati dei suoi effetti alla regione. Si può affermare, in effetti, che il Khareef sia diventato negli anni semplicemente necessario alla sopravvivenza di molte comunità locali, che in sua assenza non avrebbero modo di procurarsi l’acqua necessaria per l’irrigazione, vista l’assenza di fonti rinnovabili a loro disposizione. Non per niente, l’arrivo della stagione è oggetto di celebrazioni e feste popolari, con il centro abitato che si riempie di spettacoli e fiere, mentre braceri profumati tentano d’indurre i molti visitatori all’acquisto dell’incenso locale, antichissima esportazione di queste terre, fin dai tempi biblici e dell’antico impero dei faraoni.

Leggi tutto