Le dita danzano sui tasti WASD, mentre l’altra mano, precisa ed implacabile, identifica i bersagli sullo schermo. Kanas’dul, assassino di Babilonia, scivola agilmente tra le ombre, senza produrre il minimo rumore. Il suo cappuccio bianco si agita nel vento, mentre lo stemma con la testa del serpente, chiaramente esposto sul mantello, lo identifica beffardamente agli occhi del nemico. Ma nessuno, questa notte, può vederlo. Perché gli stessi palazzi di KA.DINGIR.RA, più vasta, verticale e potente città del mondo, sono gli i suoi alleati contro le macchinazioni dei cavalieri di Ishtar, l’antica società segreta che ha tramato per la fine degli insegnamenti di Hammurabi, perseguitando brutalmente i popoli di Assur, Eshnunna, Mari, Aleppo, Alalakh e Qatna. Vendetta, morte e distruzione! Le lame dei giusti assaggino quel sangue maledetto! Un rapido sguardo all’orologio digitale sulla scrivania: le 14:40. Ancora una ventina di minuti, prima che sia tempo di mettersi a studiare per gli esami. Ma prima di allora, un altro sorso di caffè…Gli occhi ritornano alla mini-mappa tonda in basso a destra. Il Tempio è sempre più vicino. Ora, questa particolare Babilonia virtuale è una città che osserva un piano regolatore attentamente definito: ciascun palazzo è di quattro, sei o dodici piani. Le strade misurano tre, cinque o nove metri. Ciò è un grande vantaggio per Kanas’dul, che si è addestrato a lungo, secondo i precetti della sua compagine segreta, a muoversi agilmente da un confine all’altro dell’enorme centro abitato. Nel suo repertorio degli spostamenti, c’è una doppia rotolata che consente di spostarsi esattamente da una parete all’altra di qualsiasi viale “medio” mentre culmina in una mezza corsa per ciò che rimane a separarlo dalla fine di una strada “grande”. Ogni qual volta che la sua missione lo porta a salire sopra i tetti, poi, può contare su dei balzi calibrati in base alla distanza tra due tipiche finestre babilonesi (2,30 m) mentre sa per certo che alla destra di ciascuna, un po’ più in alto, c’è sempre un piolo a cui aggrapparsi con la mano. Mentre un pratico cornicione profondo esattamente 40 cm, che collega un’apertura all’altra, gli permette all’occorrenza di strisiciare fin sui vertici degli edifici, scavalcando infine facilmente il vuoto che separa gli isolati, purché abbia la misura di una strada “stretta”. Dopo 6 minuti passati a concatenare simili manovre, già la fortezza dei templari svetta sopra la sua figura, le mura sormontate da sculture vagamente demoniache. Le torce ai lati del portone si agitano nel vento, mentre l’anti-eroe nota alcuni mattoni sporgenti sui bastioni, posti alla distanza di 4,60 metri dal suolo. Interessante, si ritrova a pensare, già estraendo la sua lama rotativa ben nascosta nella manica a sbuffo…
Tutto è misurato, ripetuto, prevedibile. Per chi ha studiato attentamente le arti di assassinio applicate all’attraversamento cittadino, come il videgiocatore di questa generazione computerizzata, le sorprese si nascondono nei colpi di scena della storia, nelle sempre più incredibili fazioni coinvolte, le armi fantasiose, le gesta dei cattivi. Raramente, nel susseguirsi stilistico dei movimenti, l’arte antica dell’animazione. Fatte le dovute proporzioni, il vecchio Super Mario si svolgeva in un ambiente coerente e totalmente a disposizione del giocatore: perché potevi saltare, in quel mondo bidimensionale, di uno spazio a tua scelta tra 10,11,12,13…24 pixel, o addirittura decidere, a mezz’aria, che era il caso di tornare indietro (inerzia permettendo). Poi giunse il rotoscoping, e con esso il motion capture assieme ad un diverso modo di pensare il videogioco. Benché ci fossero dei precedenti di successo (Prince of Persia – 1989) il primo autore a dimostrare veramente l’utilità narrativa di queste tecniche fu il francese Éric Chahi della Delphine Software, che ai tempi dell’Amiga di Commodore produsse i suoi due capolavori Another World (1991) e Flashback (1992) rimasti negli annali di quell’epoca indimenticata. Per la prima volta, il giocatore veniva messo a contatto con un mondo in cui i personaggi si muovevano in maniera realistica, semplicemente perché un vero attore, nei primitivi teatri di posa di allora, era stato ripreso e digitalizzato, quindi trasformato in un alto numero di frame d’animazione. Un salto, perfetto. Una corsa, perfetta. Un accovacciamento per schivare i pericoli, simile a quello che potremmo usare noi. Con la conseguenza che per ciascun singolo gesto comandato al personaggio, si assistesse sempre alla stessa sequenza, impeccabile quanto, purtroppo, sempre uguale a se stessa. Naturalmente, perché ciò potesse funzionare, i livelli dovevano venire standardizzati. All’epoca, nessuno ci fece caso.
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Scende giù dalla montagna senza mai cambiare inquadratura
Persino il ciclista canadese Brandon Semenuk, già vincitore indiscusso del pericoloso Red Bull Rampage Tour tra le montagne dello Utah all’età di soli 17 anni nel 2008, nonché campione in discipline multiple del Freeride Mountain Bike World Tour dal 2011 al 2012, qualche volta deve andarsene a cambiare aria. Magari tra le montagne della California del Nord, in mezzo al verde più totale, dove l’unico rumore oltre al canto degli uccelli sembrerebbe essere quello di due dozzine di ruspe, qualche decina di trattori, un paio d’elicotteri, diciamo. Sacrifici accettabili di quella quiete naturale, per lo meno al servizio di una tale produzione. Del resto quando due giganti del settore come la Teton Gravity Research e la Anthill productions si ritrovano assieme per girare un film, si riesce facilmente a immaginare come il risultato sia già destinato a restare impresso nella storia di quel mondo di catene ruggenti e pedali vorticanti alla velocità del suono. Cosa che probabilmente accadrà al nuovo unReal (attualmente in vendita su iTunes) un video-racconto del “Modo in cui talvolta occorre correre al di là dell’orizzonte” così adeguatamente esemplificato da questa straordinaria sequenza rilasciata su YouTube, in cui l’Eroe si staglia in modo scenografico sul ciglio del dirupo, quindi inizia laboriosamente ad indossare il casco, prima di… Dopo tutto, anche il pathos vuole la sua parte.
Il mondo della cinematografia è ricco di tecniche particolari, usate dai migliori registi per connotare gli attimi più significativi delle loro storie. Accorgimenti nell’inquadratura, un’attenta composizione dei colori, alterazioni improvvise nella profondità di campo. Ma al di sopra degli altri approcci, ce n’è uno in particolare che pregiudica e in qualche maniera condiziona l’intera macchina dietro le cineprese. Di che staremmo parlando, se non la meraviglia visuale del piano sequenza? Hitchcock, Godard, Scola, De Palma, Sokurof: ciascuno di loro ed altri grandi nomi, nelle loro opere migliori, hanno dedicato uno spazio talvolta breve, ma comunque sempre rilevante a questa tecnica che consiste nel girare una scena di lunghezza variabile, senza nessun tipo di stacco o interruzione, inddubbiamente con notevole risparmio di tempo per gli adetti alla sezione tecnica del montaggio. Il risultato lascia spesso senza fiato. Tra le stelle nascenti degli ultimi tempi, in particolare, sarebbe difficile non citare il messicano Alfonso Cuarón, che nei suoi due pluripremiati Children of Men (2006) e Gravity (2013) ha scelto di fare di un simile approccio il fondamento di uno stile riconoscibile quanto davvero appassionante.
Tali elementi realizzativi pensati e messi in pratica da i migliori registi, poi, almeno di massima, tendono a diffondersi verso tutte le altre branche dell’imagine cinematica, dai video musicali alle pubblicità, passando per l’ambito apparentemente collaterale degli sport estremi. Che pur essendo l’espressione di una specifica di nicchia, comporta grandi presupposti di guadagno: provate a chiedere a quella possente multinazionale, ad esempio, che campeggia col suo logo sopra l’equipaggiamento protettivo del qui presente Semenuk! Perché tutti possono, soprattutto in questi ultimi tempi, includere nel loro kit di discesa un aggancio per telecamerine, che racconti in trasmetta in modo pressoché automatico ciò significa trovarsi in quei momenti, affrontare la terribile discesa. Come pure far disporre i propri amici ad ogni svolta del circuito, poi applicarsi col PC e riuscire a dare un senso al maelstrom delle inquadrature. Mentre per riuscire nell’impresa di rendere l’intera operazione semplice all’apparenza, quasi disarmante nella sua immediata ingenuità, ci vogliono in realtà potenti mezzi, un’equipe consumata e soprattutto, l’arma segreta…
Steven Seagal dimostra l’aikido a 63 anni
C’è pur sempre una ragione se vengono definite “arti” e non semplici tecniche o meri sistemi di combattimento, come si usa fare per gli approcci più moderni all’autodifesa: l’esperto seguace di una delle differenti vie marziali fiorite in Giappone o Cina all’inizio del secolo scorso, come del resto chi conosca le più antiche controparti, non si muove alla maniera di una persona normale, non contrappone la sua forza al fiume in piena! Ma piuttosto fluttua lieve, sopra la corrente impetuosa dell’istinto e della rabbia dei guerrieri. Ciò è tanto più vero nel contesto del complesso sistema di valori filosofici e approcci alla manipolazione degli attacchi dell’avversario concepito dall’Osensei (grande maestro) Morihei Ueshiba verso gli anni ’20, all’interno di una dottrina che, non a caso, riuscì a trovare un terreno fertile tra gli studenti della corrente shintoista dell’Ōmoto-kyō, fondata sulla venerazione degli antichi kami (dei) della terra, verso il raggiungimento di una grande pace ed armonia futura. Molte parole sono state spese, da quell’ormai lontana epoca, in merito al fatto che l’aikido sia in efficace in situazioni reali di pericolo, ovvero se possa servire nel bloccare o disarmare un teorico bandito di strada, soprattutto in funzione dell’aspetto fortemente stilizzato delle sue dimostrazioni: il fatto è che nella forma più pura, ovvero quella trasmessa originariamente dal suo inventore, quest’arte marziale non glorifica alcuna forma di attacco preventivo. Risultando piuttosto fondata, in aderenza ai valori spiccatamente non-violenti dell’intero contesto, su una serie di approcci all’evitare danni a se stessi (nel dojo: nage) come pure al proprio avversario (detto uke). Eppure resta innegabile come lo stesso aikido (合気道: letteralmente, la via dello spirito armonioso) assieme alla sua versione coreana detta hapkido, venga insegnato con profitto nei principali corpi speciali delle forze armate o di polizia di mezzo mondo, nonostante si tratti di una tecnica concepita originariamente per combattere senza l’intento di ferire. Forse… Perché ciò non compromette in alcun modo i suoi presupposti di efficienza? Giudicate un po’ voi.
Questo video girato in Russia durante un evento divulgativo, comparso su Internet verso la fine di Maggio, mostra l’attore, sportivo, musicista ed incisore Seagal mentre affronta sul tappeto giallo, dinnanzi a un pubblico ammirato, due praticanti del Sambo, l’adattamento per fini bellici del judo, inizialmente praticato dai membri dell’Armata Rossa verso la stessa epoca in cui visse Morihei Ueshiba. È una scena che colpisce fin da subito, in parte per il contrasto creato dai due sportivi con le sambovka bianche (una sorta di gi della tradizione russa) e lui che si avvicina indossando un minaccioso completo nero dotato di cappello, che non avrebbe sfigurato indosso ad uno dei cattivi dei suoi migliori film degli anni ’90. Ma è soprattutto ciò che segue ad aver colpito la fantasia dei molti commentatori sul web, fin troppo pronti a condannare l’intera sequenza come uno spettacolo dotato di copione: perché l’americano, incredibilmente, nell’affrontare tali e tanti attacchi pare spostarsi appena, mentre il grosso dei movimenti apparenti derivano, in effetti, dalle piroette e dai salti dei due giovani avversari. Naturalmente, poi, il noto background cinematografico del protagonista non fa che amplificare questo senso d’incertezza e labile realismo.
L’intera questione non può che riportare alla mente quella memorabile contingenza della settima stagione dei Simpson, in cui l’assistente di regia del film sull’Uomo Radioattivo si ritrovava a spiegare ad un Bart pendente dalle sue labbra come: “I cavalli non sembrano realistici su pellicola, normalmente preferiamo usare mucche dipinte. Mentre se serve un bovino in una scena, l’unica soluzione è legare assieme un mucchio di gatti miagolanti”. Valutate, di contro, il glorioso ritorno di Van Damme nella fantasia popolare giusto l’anno scorso, a seguito della pubblicità della Volvo, in cui effettuava la spaccata tra due grossi camion in corsa. Quella si, realizzata grazie all’uso degli effetti speciali, se non addirittura all’interno di un teatro di posa. Mentre ecco un altro attore della stessa generazione che si mette in discussione senza filtri, ricevendo suo malgrado un mare di critiche disinformate. Morale: la realtà è problematica, va interpretata. Talvolta sarebbe meglio non dare al pubblico quello che chiede…
Bimbo a bordo col nunchaku di Bruce Lee
La Tv che miagola grida disarticolate mentre, sullo sfondo del tempio buddhista coreano di Pope Saw, si scatena lo spettacolo de L’ultimo combattimento di Chen (1978) e non c’è assolutamente nessuno che lo guarda. Semplicemente perché in qualche modo, per l’allineamento delle stelle hollywoodiane, c’è l’occasione di un migliore palesarsi della stessa cosa, proprio nel salotto della casa qui rappresentata: il piccolo Ryusei Imai, vestito della tuta gialla che fu il simbolo di quella serie cinematografica, sinceramente impegnato nel mettere in pratica lo sguardo e le movenze dell’attore che ha ispirato una generazione, grazie alle sue doti fisiche, mentali nonché alla capacità di rimettere nero su bianco il complesso sistema filosofico e funzionale di molti secoli di arti marziali internazionali, in quello che sarebbe diventato il nuovo canone del Jeet Kune Do. La cui eredità continua a generare spunti di crescita ulteriore, come questa spettacolare occasione di mimési finalizzata all’acquisizione di un credito sul web. Si tratta di un approccio fedele al modello di quel personaggio che il bambino sinceramente adora (o almeno così scrive il padre, nella descrizione sul canale di YouTube) ma soprattutto in grado di portar le circostanze fino al massimo confine del possibile, visto l’uso ineccepibile che si fa di uno strumento alquanto preoccupante: il doppio bastone tondo e incatenato, secondo la tradizione cinese, oppure assicurato con la corda in crine di cavallo, come si usava fare all’altro lato dello stretto mare, presso quel paese che è anche il luogo della scena: il Giappone. Lo stesso arcipelago da cui proveniva il Karate di Wing Chun, la tecnica di combattimento appresa per prima dal famoso attore naturalizzato americano, che avrebbe poi costituito le basi per la sua futura crescita professionale e spirituale. E che forse, benché questo non sia noto, potrebbe avergli fornito l’ispirazione per portare sugli schermi cinematografici, direttamente dalle coste rigogliose delle isole Ryūkyū, il pericoloso e affascinante mulinare del nunchaku.
È una di quelle attività che non può essere semplicemente approssimata. L’impiego riconoscibile di uno strumento che non era, almeno nel suo principio originario, niente affatto complicata, si trasforma nel linguaggio cinematografico in una sorta di stilema, retto da una lunga serie d’artifici scenografici e manovre in grado di trascendere il mero concetto d’efficienza. Avrete certamente visto il tipico guerriero della strada al servizio del bene comune, robosentinella o supereroe mutante che s’ispira ai grandi del passato, che posto dinnanzi al suo nemico non si limita a sconfiggerlo, bensì lo induce prima a riconoscere la propria superiorità. Si tratta di un concetto molto amato da chi scrive simili sceneggiature. Ciascun colpo vibrato con quest’arma, prima di essere portato a segno, deve poter rispondere a un copione funzionale, il catalogo complesso delle rotazioni. E in assenza di un nemico, ancora meglio; in taluni circoli si ritiene, addirittura, che l’effettiva inclusione dell’attrezzo in questione nel ricco repertorio delle arti marziali per così dire accademiche fosse in origine finalizzata ai soli kata, le sequenze di movimenti dimostrativi attentamente codificati, usati come esercizio fisico di primaria importanza in buona parte dell’Estremo Oriente, non soltanto in ambito marziale. Non c’è forse una migliore dimostrazione in pratica di quel concetto per cui: “Il tuo maggior nemico è dentro di te” che un mettersi a gestire con destrezza questo duplice oggetto, tanto propenso a colpire l’aria quanto le stesse articolazioni o le ossa di chi tenti l’azzardo di riuscire a dominarlo. Perciò, è tanto maggiormente apprezzabile il rischio corso da questo giovanissimo emulo alle prese col bisogno di apparire. Forse spinto innanzi dall’orgoglio dei suoi primi fan e promotori, questo si, ma talmente abile e fiducioso in se stesso da cimentarsi con una delle armi più difficili da dominare. E riuscire, almeno all’occhio di un profano, a riprodurre con perizia le movenze di un maestro venerato. Il suo futuro è certamente carico di possibilità…