E così mentre si spostava lungo il pascolo dei propri luoghi ombrosi, la creatura del mondo di Sotto avvertì il presagio di un evento nefasto. Come un’ombra sopra il suo destino, testimoniata in modo sinestetico dal suono poderoso di un continuo rombo fuori dal suo contesto. Rumore come quello che in moltissime diverse circostanze, aveva avuto già modo di udire, meditando sulle molte implicazioni di una tale anomalia, che poi tanto anomala non è mai stata. Non per niente si usa dire “muto come un pesce” mentre delle creature del mondo di Sopra, nessuno avrebbe mai potuto immaginare di affermare la stessa cosa: lunghi, vasti, lesti bastimenti, che correndo sopra l’onde alzavano gli spruzzi via dal fiume, percorrendolo per dar la caccia a questo o quell’obiettivo. Eppure questa volta, percepì il pinnuto nuotatore, c’era qualcosa di profondamente diverso. Poiché il grande Leviatano, piuttosto che spostarsi gradualmente altrove, si era fermato in un singolo luogo. Per andare in cerca, usando la sua propaggine meccanizzata di un QUALCOSA. Ora egli non avrebbe mai potuto pretendere di capire, con il suo cervello dedicato a una limitata serie di gesti, l’effettiva missione attribuita dagli umani ad una tale macchina giganteggiante tra le acque del suo vicinato. Pur immaginando cosa, d’altra parte, avrebbe potuto finire per capitare. Nulla di buono, come al solito… E mentre pensava questo, l’arto rumoroso riempì i margini superiori del suo campo visivo. Con occhi bulbosi e prossimi a sfuggire dalle orbite, il pesce osservò le mura curvilinee della sua nuova metallica prigione. “Poco male, poco male” pensò quindi; siamo a quasi 600 anguille di profondità, ben presto dovrà tornare da dov’è venuto. Quindi udì qualcosa di assolutamente inaspettato: voci, chiacchiericcio nell’acuta lingua di coloro che vivono Sopra. Essi erano a poca distanza, tanto che avrebbe potuto balzare fuori dall’acqua e toccarli… Fuori… Dall’acqua? Surreale, terrificante ed impossibile visione. Il fondo stesso del suo fiume stava adesso denudandosi, mentre il mondo stesso appariva prossimo a un drammatico capovolgimento. Poco a poco, i confini dell’acqua presero ad allontanarsi. Granchi impazziti correvano da ogni parte. Come una vittima circostanziale del guado d’antichi Profeti, l’acquatica creatura si trovò improvvisamente a boccheggiare. Fuori dall’acqua, proprio dove l’acqua, fino a quel momento, c’era sempre stata!
Secoli dei secoli dei secoli. E millenni. Per un simile periodo, uno dei fiumi più importanti d’Europa ha continuato a scorrere indefesso fino al mare. Draghi hanno abitato le sue anse dalle forme serpentine. Popoli leggendari, nascosto il proprio oro sotto il terreno friabile delle antiche foreste ripariane. Eppur niente di simile, fino all’inizio dell’epoca moderna, aveva mai potuto capitare: che un titanico bicchiere fosse fatto scendere fino alle pietre e i sedimenti del fondale. Per “risucchiarne” (ma forse il termine giusto e spingerne) via quel fluido che più d’ogni altro caratterizza qualsivoglia percezione universale del concetto di Fiume, permettendo a chi non ha le branchie di poggiarci facilmente le scarpe. Il suo nome è dunque tauchglockenschiff Carl Straat, che poi vorrebbe dire “nave con campana da immersione” riuscendo a costituire un chiaro riferimento a quell’esperimento del mondo antico che per primo seppie compiere Archimede di Siracusa nel III secolo a.C, quando apparve chiaro come aria ed acqua, all’interno di uno spazio chiuso che si stringe da un lato, tendessero a premere intensamente l’una contro l’altra. Senza mai riuscire, in un tempo rilevante, a mescolarsi. Casistica abbastanza priva d’applicazioni all’epoca delle poleis greche, ma capace di trovare validi propositi d’impiego una volta compiuto un rapidissimo balzo in avanti fino alle tecniche metallurgiche del XVI secolo d.C. quando Guglielmo de Lorena e Francesco de Marchi, archeologi degli abissi, ne costruirono il primo esempio a dimensione umana per andare in cerca di un relitto sotto le profonde acque del lago di Nemi. Primo timido approccio destinato a solamente a migliorare, attraverso validi perfezionamenti e soprattutto grazie all’invenzione della macchina vapore in Epoca Vittoriana, per la prima volta capace di pompare e ripristinare l’ossigeno all’interno della campana mano a mano che veniva consumato. Mentre di pari passo, in forza delle semplici ragioni di contesto, aumentavano in maniera esponenziale le applicazioni. Il che ci porta, con tutta la rapidità di una cascata lunga molti secoli, fino alla questione della qui presente macchina acquatica di un teutonico ingegno procedurale…
ingegneria
Il ponte olandese creato tramite l’impiego di un sistema robotico di stampa in 3D
L’individuo che cammina lungo i canali di Amsterdam ha molte cose verso cui focalizzare la propria attenzione. Le ordinate file di case tradizionali dalle finestre con infissi bianchi, con forma slanciata, vista sul canale e tetto spiovente. Le piste ciclabili il cui traffico umano sostituisce almeno in parte quello, rumoroso e maleodorante, di migliaia di autoveicoli in viaggio verso destinazioni non sufficientemente distanti. Per non parlare delle tipiche mete del turismo, dei cosiddetti “coffee” shop ed il quartiere a luci rosse De Wallen, sulle cui vetrine convergono gli occhi dei curiosi che talvolta scelgono di diventare dei clienti. Ed è proprio nei dintorni di un simile luogo ragionevolmente unico al mondo, sopra lo spazio riflettente del canale Oudezijds Achterburgwal, che quegli stessi sguardi avranno da oggi l’occasione d’incontrare la forma di una struttura estremamente inaspettata, degna di figurare a pieno titolo all’interno del design fantastico di un mondo videoludico del tutto digitalizzato: trattasi di un ponte, creato grazie all’uso di un singolo tipo di materiale: l’acciaio. La cui struttura quasi aereodinamica, nonostante questo, sembra fluire in modo naturalistico neanche si trattasse di una pianta. Benché risulti essere nei fatti la creazione diretta di quel massimo pilastro dell’industria, creature robotiche massimamente asservite alla volontà e visione pratica dell’uomo. Che non sarebbero neanche state poi così particolari, trattandosi delle tipiche braccia robotiche impiegate, ad esempio, nell’assemblaggio dei sopracitati autoveicoli, se non fosse per l’estrema finalità evidente che è riuscita a realizzarsi tramite movenze precise, frutto di una programmazione del tutto priva di precedenti. E si tratta giustamente di un record del mondo, o per meglio dire la coccarda di chi riesce ad arrivare per primo, attribuita nelle cronache dei nostri tempi a niente meno che l’azienda locale MX3D, famosa per la creazione e messa in opera di un sistema produttivo assolutamente particolare. Facente affidamento su quel software proprietario che viene chiamato sul sito della compagnia Metal XL, non dissimile nell’interfaccia a qualsiasi altro tipo di strumento per la modellazione virtuale di un oggetto in puro 3D. Ma capace d’istruire, al termine della realizzazione a schermo, macchine che diano il proprio contributo tangibile al progetto, invero percorribile, da un numero contemporaneo d’individui che potremmo definire superiore a quello di un’intera piccola piazza cittadina.
Ed è un tipo di ponte, quello che possiamo qui riuscire ad ammirare, del tutto in grado di distinguersi dall’aspetto tipico di una simile infrastruttura urbana, visto l’alto grado di sofisticazione organica dei suoi diversi componenti, ciascuno l’apparente risultanza di precise scelte artistiche da parte dell’artista creatore, quel Joris Laarman (nascita: 1979) già nome principale di mostre internazionali presso luoghi come il MoMA di New York, il V&A di Londra ed il Centre Pompidou di Parigi. Un uomo, una visione, validi strumenti utili per dargli forma. Tridente niente meno che essenziale all’epoca contemporanea dei processi, attraverso cui la semplice ripetizione di una serie di gesti non risulta più essere davvero abbastanza. Ed ogni cosa sembra succedere per via di una ragione, in un rapporto reiterato di cause ed effetti, fin troppo slegati dal bisogno di riuscire a soddisfare le necessità del quotidiano. Il ponte della MX3D del resto, così sorprendentemente privo di un appellativo ufficiale (quasi come se la sua mera esistenza fosse sufficientemente atipica da definirne l’esistenza) lungi dall’essere un’opera del tutto scevra di funzioni addizionali all’esistenza, risulta inoltre caratterizzato da una vera e propria rete sensoriale di sorveglianza, utile alla monitorizzazione in tempo reale delle forze e sollecitazioni attraverso il procedere dei giorni. Al fine di perfezionare ulteriormente, per quanto possibile, le scelte progettuali messe in atto fin dal primo momento della sua ormai remota concezione…
La strategia militare del gommone che striscia come un gambero sul bagnasciuga
Nella scena culmine di un film di spie iper-tecnologico, l’agente con licenza di uccidere insegue il cattivo della storia sulla spaziosa via del lungomare californiano. Fino al punto in cui quest’ultimo, impugnando la fidata ricetrasmittente, chiede al gruppo dei suoi sgherri d’intervenire, rallentando l’uomo al servizio di Sua Maestà con una raffica di colpi, provenienti dal sito dell’imboscata preparata proprio al fine di salvarsi da una simile situazione. Giusto il tempo necessario perché il loro capo, frenando bruscamente la sua tedesca decappottabile, possa avere il tempo di saltare oltre la fiancata, correre fino in fondo al molo e salire a bordo del suo fido motoscafo dalla linea aerodinamica prevedibilmente aggressiva. Proprio mentre l’uomo con il doppio zero, lungi dal perdersi d’animo, drifta la sua Aston Martin su due ruote in uno spazio aperto preventivamente nel guard rail, grazie ai lanciamissili nascosti sotto i fari, e mentre ancora si dirada il fumo causato da una simile manovra, punta dritto verso il punto in cui la sabbia lascia il campo all’acqua salmastra di un oceano Pacifico in realtà piuttosto agitato. Con un mezzo sorriso, l’agente preme quindi un tasto sporgente sul suo cruscotto, tale da causare un’immediata trasformazione nel suo veicolo: le ruote girano a 90 gradi evengono ritratte dentro la carrozzeria; il portabagagli, apertosi di scatto, vede fuoriuscire la sagoma riconoscibile di un motore fuoribordo. I finestrini si sollevano per quanto possibile formando una barriera impenetrabile per gli schizzi ed i proiettili allo stesso tempo. Mentre procedendo per inerzia, l’auto viola quell’impenetrabile confine, corre, fluttua, s’inabissa almeno in parte ed… Inizia agevolmente a navigare. Ma la situazione appare fin da subito più complicata del previsto: perché il fuggitivo è già soltanto un piccolo puntino all’orizzonte. Ed un mezzo anfibio non è MAI veloce quanto un sistema di trasporto concepito esclusivamente per l’acquatico elemento…
Costituisce, in un certo senso, l’unica risposta possibile nei confronti di un simile problema, spesso trascurato dagli sceneggiatori cinematografici di quei frangenti estremi. Perché la maggior parte dei veicoli su ruote dotati della capacità secondaria di galleggiare, fino a questo momento, erano stati concepiti in primo luogo come tali e soltanto secondariamente al fine di riuscire a spingersi a velocità davvero soddisfacenti una volta lasciata la sicurezza della terraferma. Semplicemente perché risultava essere tutt’altra, la loro circostanza pratica d’impiego ideale. Ed avrete qui notato il mio utilizzo del tempo passato, potenzialmente in aggiunta all’ausilio esplicativo della foto a supporto, raffigurante l’approccio inverso alla questione di una RIB (Rigid Inflatable Boat) posta sopra l’approssimazione idraulica di quattro trampoli. Al termine dei quali sono collocati, con evidente funzionalità pratica, un paio di cingoli dall’aspetto vagamente sottodimensionato. Ma perfettamente funzionati, come esemplificato dalle effettive circostanze della scena, che vedono lo scafo totalmente al di sopra della sua ipotetica linea di galleggiamento. Ed in effetti esposto totalmente all’aria fino al vertice del suo accenno di chiglia triangolare, perché configurato nella sua modalità terrigena di spostamento veicolare motorizzato. Pratica, efficiente, (di nuovo) non propriamente velocissima quando fuori del suo ambiente preferito, la nuova Iguana Pro dell’eponima compagnia francese dimostra il conseguimento a pieno titolo di tutti gli obiettivi del suo creatore. Poiché proprio qui l’imprenditore francese Antoine Brugidou, già produttore dal 2008 di una lunga serie di barche dotate della capacità di muoversi ben oltre i confini della terraferma, ha scelto di realizzare i massimi livelli della sua idea di partenza con un paio di possenti motori da 450 cavalli l’uno, facendolo a vantaggio di quel campo in cui comunemente finiscono per decadere i compromessi: l’utilizzo nel corso d’ipotetiche missioni militari. Presumibilmente gestite da un gruppo di soldati estremamente silenziosi e spietati…
Molto prima della fibra di carbonio: il singolare caso della macchina intrecciata con il vimini o rattan
Un interessante e piccolo veicolo si trova ormai da qualche tempo immobile tra le auree sale del museo dell’automobilismo di Gostyń, nell’omonimo distretto all’interno del Grande Voivodato della Polonia. Con la tipica carrozzeria a forma di sigaro delle vecchie automobili da corsa, ruote non troppo più grandi di quelle di una bicicletta e l’improbabile faro simile all’occhio singolo di Polifemo, esso rivela infatti tutto il suo reale fascino soltanto quando ci si riesce ad avvicinare a pochi metri di distanza. Poiché è allora che si riesce a comprendere la maniera in cui tale forma ragionevolmente familiare si trova realizzata, proprio come un mezzo di trasporto del cartoon dei Flintstones, con un tipo di sostanza particolarmente fuori dal contesto: la stessa che avremmo normalmente immaginato saldamente stretta tra le mani di un raccoglitore agricolo, mentre si occupa di far cadere giù le mele dagli alberi, mentre percorre in modo sistematico il suo frutteto!
Tra i più antichi approcci civilizzati alla creazione di manufatti, la realizzazione di cestini o recipienti costruiti di legno intrecciato alias “vimini” trova attestazioni fin dall’epoca dell’antico Egitto, avendo costituito attraverso i secoli la reiterata conferma dell’ingegno di chi sa come riuscire a mettere a frutto le cose naturali. Ingegnoso materiale, economico, versatile, capace di costituire un caposaldo per l’intero estendersi del mondo antico (oggetti di quel tipo furono trovati, perfettamente intatti, in mezzo alle rovine cristallizzate della città di Pompei) esso raggiunse forse il suo più inaspettato utilizzo nella creazione dei caratteristici scudi usati dall’impero Achemenide, capaci di arrestare più d’un colpo vibrato di taglio da parte delle affilate lame costruite in Occidente. Verso l’affermazione di quel tipo di solidità che sarebbe stato in grado di portarlo di nuovo al centro del palcoscenico della storia verso l’inizio del XIX secolo, quando l’Inghilterra Vittoriana diventò il più celebre importatore dei fini rametti o simili viticci, abilmente utilizzati al fine di costituire un’ampia varietà di mobili a partire dalle foglie di palma usate come zavorra delle navi di ritorno dall’Asia, tra cui sedie, letti e tavoli di considerevole pregio. Ma il paese maggiormente destinato, nell’intero secolo successivo, a trovarsi maggiormente caratterizzato da una simile corrente manifatturiera sarebbe stato proprio la Polonia, soprattutto nella regione dell’entroterra nei dintorni di Rudnik-on-San, dove grazie all’intraprendenza del conte austriaco Ferdinand Hompesch, un gruppo di persone fu inviato a Vienna attorno al 1870, con l’esplicita missione d’imparare ogni segreto possibile nell’intreccio di tali fibre, dando l’inizio a una fiorente industria capace di fornire l’impiego a circa 10.000 persone tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tanto che ancora oggi, il numero pro-capite d’industrie nazionali dedicate a questo specifico tipo di produzione risulta di gran lunga il maggiore d’Europa, ed uno dei più significativi al mondo. Ciò detto, persino in questi luoghi, soluzioni come queste sono sempre sembrate notevolmente rare; dopo tutto, chi potrebbe immaginare, in linea di principio, un materiale più inadatto alla creazione di un’automobile di tipo convenzionale? Relativamente fragile in caso d’urti, resistente alle intemperie ma soltanto entro determinati parametri e soprattutto, drammaticamente infiammabile nel caso in cui qualcosa dovesse andare per il verso sbagliato, il vimini risulta sotto numerosi punti di vista sensibilmente inferiore anche al più mondano approccio metallurgico degli albori. Fatta eccezione per un aspetto specifico: il peso. Ed il contesto prototipico che ne consegue: ogni declinazione di un qualsiasi sport motoristico in cui contino il ritmo, l’accelerazione e la guidabilità in curva. Soprattutto nel caso di vetture come questa, non molto più lunga di 2,7 metri e dotata di appena 10 cavalli di potenza, per cui ogni Kg risparmiato poteva essere immediatamente tradotto nei chilometri raggiungibili entro il termine di una singola ora. Per la prevedibile intuizione di un originale costruttore ignoto ad Internet, sebbene la didascalia fornita dal museo non mostri alcun dubbio nell’affermare che si tratti di una fedele ricostruzione di una macchina effettivamente costruita ai tempi, con la probabile finalità di partecipare a una o più gare sul territorio europeo. Così come già fatto in precedenza dalla piattaforma di partenza di un simile bolide elaborato, la Hanomag 2/10 PS dell’omonimo produttore tedesco (sede presso la città di Hannover) che aveva costituito, a partire dal 1925 della sua introduzione commerciale, la prima auto nazionalpopolare del Centro Europa. Ovvero in altri termini, l’approssimazione locale dell’avveniristica Ford Model T statunitense, il cui ruolo sociale poteva essere riassunto nell’accattivante slogan commerciale “Un chilo di lamiera, un chilo di vernice. E l’Hanomag è pronta a partire…”