L’erosione dei memetici creativi e l’incombente sagoma dell’Opium Bird

Invio questo messaggio indietro nel tempo di quattro anni dal 2027 come una sorta di monito ed avviso preventivo: state attenti a quello che potreste desiderare. Non cercate sempre di portare tutto alle conseguenze più estreme. E soprattutto, sarebbe un errore continuare a fare al computer le domande sbagliate. Naturalmente all’epoca (ormai sembrano anni, persino secoli fa) ci scambiavamo frasi magiche come fossero regali anticipati di Natale. Sequenze di parole, nella maggior parte dei casi del tutto innocue, che una volta immesse nel sistema giusto non potevano fare a meno di causare una reazione. E proprio da quest’ultima, sembravamo trovarla per qualche ragione soddisfacente. “Un antico baule all’interno di una stanza sotterranea, circondato da pareti muschiose. Torce fiammeggianti alle pareti. Dal coperchio semi-aperto si scorgono l’oro e i gioielli di cui è ricolmo.” Generating, generating. “Un drago rosso tra le nubi che sovrastano i palazzi di Las Vegas, lo sguardo saggio e carico di sottintesi. Le sue zampe si protendono come quelle di un rapace Leviatano, per ghermire l’abnorme sfera fluorescente che riesce ad evocare l’immortalità.” Generating, generating. Bing! Benvenuto a bordo, artista. Ci sentivamo tutti un po’ più “artisti”, grazie alla potenza inusitata dell’ultimo degli scintillanti strumenti posti al presunto servizio dell’umanità, l’Intelligenza Artificiale. Finché non iniziarono a palesarsi i chiari segni che in realtà essa serviva, in primo luogo, qualcun altro. O qualcos’altro. C’era il volto della donna misteriosa individuata inizialmente nel 2022, dal nome stranamente impersonale di Loab: come un caso collettivo di pareidolia, ogni volta puntuale quanto impossibile da replicare, non importa quanto fossero precisi i tuoi prompt. E poi c’era la creatura aviaria semi-tangibile numero [REDACTED] figlia di una deriva memetica del tutto in grado, per la prima volta, di controllare se stessa a discapito dei suoi presunti creatori.
Naturalmente e come spesso capita in questi casi, in un primo momento essa non possedeva un nome. “Uccello misterioso individuato in mezzo alle montagne dell’Antartide” spiegavano concise didascalie, la cui prima in ordine di tempo venne ricondotta a uno specifico utente di Instagram, dre.vfx. Ma con una velocità non del tutto priva di precedenti, essa guadagnò l’accesso ad una sorta di mezza-vita, acquisendo un peso culturale specifico da Materiali Anomali e Conseguenze Inaspettate. Come il modo in cui la gente cominciò ad associarlo alla più terribile, diffusa droga soporifera diffusa nel tardo Rinascimento. La religione dei popoli, la pipa dei sogni. Come una popolare marca di cellulari dell’Asia Orientale, con la lettera “i” situata tra la doppia “p” e l’ultima parte del suo logotipo universale. Un nuovo topos narrativo, dunque, le cui derivazioni simili a tentacoli presero a moltiplicarsi e contaminare i recessi più incontaminati della necessariamente vulnerabile coscienza globale….

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Il vecchio cuore nella ruota della leggendaria moto a trazione anteriore

Se si considera la questione da un particolare punto di vista, la tipica moto presenta molti elementi non propriamente indispensabili al suo funzionamento. Quali sono i benefici arrecati all’esperienza di guida da semplici inezie quali un carburatore, la trasmissione, un sistema di marce o persino la frizione? I cavalli non possiedono simile caratteristiche, eppure siamo pronti ad associarli alla figura del centauro, che implicitamente veneriamo nell’ambito di questa particolare espressione dei trasporti individuali umani. Una creatura che ha sorpassato l’implicito limite degli esseri a due gambe. Per diventare qualcosa, o qualcuno d’infinitamente più veloce e resistente alla fatica. Almeno finché non termina la benzina. E non ci sono dubbi che il guidatore medio della strana motocicletta oggetto della nostra trattazione, la sincretistica Megola prodotta nel 1921 dai tedeschi MEixner, COckerell, e LAndgraf (a quanto pare il portmanteau MeGOla non piaceva o era già preso) si sarebbe reso conto dell’incombente verificarsi di una tale contingenza, vista la necessità frequente di “pompare” il contenuto del serbatoio principale sotto il suo sedile verso la piccola borraccia rettangolare situata a destra della ruota anteriore stessa. Questo per il piazzamento alquanto insolito del suo motore in corrispondenza del mozzo di quest’ultima, al tempo stesso un punto forte, ed importante limite, dell’approccio progettuale dei suoi creatori. Il che non definisce ancora l’effettiva portata rivoluzionaria del modello, quando si considera la natura e l’effettivo funzionamento di tale impianto. Superficialmente catalogabile nel gruppo dei motori radiali per la distribuzione a stella dei suoi cinque cilindri, a partire da un punto centrale in questo caso corrispondente al mozzo stesso dell’implemento. Perché analogamente a quanto fatto da taluni dispositivi di propulsione appartenuti agli aerei della prima guerra mondiale, in questo singolare caso, qui era l’intero assemblaggio a ruotare assieme allo pneumatico finalizzato a incorniciarlo, mentre borbottando egregiamente si occupava di spingere innanzi la restante parte della moto e il suo adattabile utilizzatore. Pensereste infatti, forse, che l’esperienza di utilizzo di una Megola possa essere in qualsiasi modo ricondotto a quello di un biciclo contemporaneo? Sappiate che ciò è molto vero e al tempo stesso, in maniera non del tutto prevedibile, molto difforme dalla verità dei fatti. Tanto per cominciare, a causa del fatto che l’ingegnoso marchingegno con la sua strana configurazione non poteva, in alcun modo fermare del tutto la sua marcia a meno di uno spegnimento completo. Motivando l’inclusione per niente ironica nel manuale d’uso e manutenzione del diagramma a forma di otto che il coraggioso uomo a bordo avrebbe dovuto percorrere, idealmente, durante le soste obbligatorie di fronte alle “luci robotiche” degli incroci. Che poi null’altro erano che i primitivi semafori del primo quinto del secolo scorso. Un’epoca in cui la carenza di traffico, se non altro, lasciava spazio sufficiente all’implementazione di simili strani, ed in qualche modo funzionali esperimenti…

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L’idea del camion ribassato per incrementare l’efficienza dei trasporti continentali

Due scuole di pensiero contrapposte, sui sentieri logistici dei tempi moderni: da una parte il camion a 18 ruote statunitense, con il suo lungo cofano ed il potente motore, aerodinamico, spazioso, confortevole castello su ruote. Dall’altra, la tipica motrice stradale europea, compatta, efficiente, maneggevole, lo strumento calibrato per assolvere a uno scopo estremamente preciso. E se potesse esistere, nel mondo, una terza via? Un approccio che potesse al tempo stesso ottimizzare i costi e allontanare contrattempi, distrazioni, problematiche tangenti d’imprevista e occasionale natura. Che cos’è dopo tutto il trattore di un autotreno, se non la piattaforma usata dall’autista per spingere innanzi un semirimorchio? E se la cabina di quest’ultimo potesse, in fase progettuale, essere del tutto eliminata? Premettendo dunque che non siamo qui a parlare oggi di camion del tutto autonomi (troppo presto per questo oltre quattro decadi a questa parte) il mezzo infine presentato al salone di Francoforte del 1983 dall’ingegnere e imprenditore di Stoccarda Manfred G. Steinwinter era la più perfetta realizzazione del principio secondo cui nei trasporti “Ogni lasciata è persa”. Con un particolare riguardo al limite, introdotto come parte dei regolamenti della Comunità Europea, per una lunghezza massima di quella classe veicolare, esplicitamente finalizzata alla movimentazione di carichi pesanti. Poiché questo faceva in poche parole lo Steinwinter SuperCargo 2040, alias Cab-Under, pur senza dimostrare particolari manie di protagonismo. Essendo situato ad arte, in base a un piano logico ben preciso, al di sotto, piuttosto che davanti, il contenitore rettangolare del suo rimorchio. L’approccio è stranamente familiare per chiunque abbia mai visto il tipico inseguimento dei film d’azione, in cui ad un certo punto l’auto sportiva del protagonista sfugge ai cattivi o ai poliziotti insinuandosi in modo acrobatico tra il l’avantreno e il retrotreno di un Transport Internationaux Routiers, più comunemente detto “TIR”. Ciò in quanto resta del tutto possibile, rispettando i regolamenti e le norme della condivisione stradale, costruire un veicolo non più alto di 1,2 metri. Soltanto nessuno aveva ancora pensato, all’epoca, di fare esattamente lo stesso con il mezzo da lavoro che potremmo definire il sinonimo dele consegne stradali a medio e lungo raggio.
Un camion, ma basso: di sicuro una presenza destinata a far voltare lo sguardo ad automobilisti innumerevoli, nel corso della breve storia di utilizzo e sperimentazione del suo prototipo. Che anticipando in modo significativo alcuni crismi progettuali destinati a diffondersi soltanto in futuro ancora nebuloso e per lo più teorico, avrebbe ahimé fallito l’ardua missione di trovare un mecenate o finanziamenti adeguati. Finendo irrimediabilmente per naufragare, come innumerevoli altri bastimenti nell’oceano agitato dei commerci internazionali…

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Gli alter ego dello pterodattilo capace di volare stabilmente in autonomia

In fondo, in campo ingegneristico, cos’è una coda? Nient’altro che la parte finale di un dispositivo aerodinamico, spesso corredata delle superfici di controllo necessarie a mantenerlo in assetto. Di sicuro una delle diverse soluzioni possibili, ma non per questo l’unica, o la migliore. Sono decollati nel corso della storia dei velivoli perfettamente funzionali, la cui stessa ragione d’esistenza pareva essere quella di sfidare il paradigma inveterato, proiettando i crismi progettuali oltre le vette della pura metafisica o teoria marginale. Alcuni di loro avevano tutti gli elementi dove ti saresti legittimamente aspettato di trovarli. Altri, invece…
Nel 1924 l’ormai quasi trentenne laureato capitano Geoffrey T. R. Hill era il tipo d’ingegnere che amava costruire in autonomia i propri modelli e molto spesso, pilotarli personalmente. Con una già fiorente carriera in qualità di pilota sperimentale della Royal Aircraft Factory dello Hampshire inglese (in seguito ribattezzata Estabilishment per non confondersi con “l’altra” RAF) in quel particolare momento della sua esistenza si trovò a decidere di averne avuto abbastanza. Del fatto di vedere tanti tra i suoi giovani colleghi e conoscenze professionali, per un singolo momento di distrazione, ritrovarsi a finire in stallo perdendo il controllo dei propri aeroplani, con l’unica possibile conseguenza di un rapido ed estemporaneo decesso. Come risolvere, tuttavia, un problema che c’era sempre stato fin dall’epoca dei fratelli Wright, come imprescindibile pericolo del volo a motore? Lui un’idea ce l’aveva e per quanto sovversiva, anche i mezzi creativi per riuscire a realizzarla: si sarebbe trattato del primo aereo inerentemente stabile della storia, ovvero un apparecchio in grado di tornare spontaneamente, se si fossero lasciati i comandi, in volo perfettamente stabile e livellato. E non stiamo parlando, per essere chiari, di una qualche forma di primitivo pilota automatico (troppo presto per questo) bensì una serie di forme e soluzioni costruttive basate sul bisogno, in ogni circostanza, di salvaguardare l’uomo in cabina prima che le prestazioni del suo falco di balsa e tela. Un ordinamento delle priorità che avremmo potuto definire, all’epoca, alquanto innovativo.
Ciò che in prima battuta fuoriuscì dal suo hangar, tuttavia, difficilmente avrebbe potuto essere definito come un “aeroplano”. Costruito con l’aiuto della moglie Minnie (!) e privo di un qualsiasi motore, esso costituiva per il momento un aliante finendo per assomigliare in più di un modo a quello che potremmo descrivere come un deltaplano moderno. Con le sue ali alte a freccia, l’elica spingente, la cabina compatta e la preannunciata, nonché determinante assenza di un retrotreno…

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