Agricoltore dimostra l’esistenza degli armadilli giganti

Sotto una cascata di fili d’erba e rami di giunchi tendenti al marrone, dentro un canale d’irrigazione all’interno di un buco sabbioso vestigia bitorzolute di antichi guerrieri: una corazza ovoidale, forata in un punto, composta da almeno un migliaio di scuti. Non c’è una testa, né resti dell’antica coda: la polvere corrosiva del tempo li ha dissolti in maniera completa. Eppur può sembrare, prestando attenzione, di udire ancora l’antico verso, come un muggito, il grido di sfida, l’urlo rivolto a creature carnivore per sempre ostili. Jose Antonio Nievas è l’individuo che durante una scampagnata estiva di Natale del 2017 (siamo nell’emisfero meridionale) si è trovato nei pressi di questo ruscello nei dintorni di Buenos Aires, soltanto per scorgere all’improvviso qualcosa di mai visto prima far capolino tra la terra smossa. Ciò che doveva essere, o poteva soltanto essere secondo lui, un “Uovo di dinosauro!” E uscì gridando, il suo enorme entusiasmo, così come sovradimensionato appariva l’oggetto, se davvero al suo interno ci fosse stato un tempo un embrione, sia pur di tirannosauro, brontosauro o altro-sauro dominatore dei diagrammi da sussidiario con l’immagine del minuscolo omino per fare scala. Il suo era un errore destinato a durare ben poco, tuttavia, nel mentre arrivarono sul posto biologi e paleontologi, per scavare, prendere le misure dell’insolito oggetto e attribuirgli una tipologia d’appartenenza. Non che ci fosse stato, effettivamente, alcun dubbio residuo nelle loro menti: Gliptodonte. La bestia pleistocenica appartenente al superordine degli Xenarthra, oggi costituito dallo strano assortimento di bradipi e piccoli mammiferi corazzati, più o meno abili nella mansione di chiudersi come una palla, a seconda della specie. Ma come avviene tutt’ora in determinati recessi per l’effetto del gigantismo insulare, o secondo il principio per cui anticamente “tutto il mondo era un’isola” il divoratore d’erba e piante dell’epoca era piuttosto diverso da quelli di adesso, soprattutto nel trascurabile dettaglio di essere lungo, e largo all’incirca quanto una Volkswagen Beetle. O una volta e mezzo la Mercedes Smart: fino a 3,3 metri, per 1,5 d’altezza e appena due tonnellate di peso. Una bestia sufficientemente coriacea/terribile, da scoraggiare persino la tigre dai denti a sciabola. A meno che questa non fosse abbastanza affamata, caso in cui tutto fa brodo. Specialmente ciò che viene fornito con pratica scodella incorporata, già pronta all’uso.
Il gliptosauro, del resto, già seppe lasciare perplessi già molti insigni scienziati all’epoca del suo primo tentativo di classificazione, compiuto da niente meno che Charles Darwin, il quale aveva ritrovato, durante i suoi viaggi sudamericani, i resti fossilizzati di un femore, e quella che poteva soltanto essere una coda. Nessuno sa, davvero, che idea il grande scienziato si fosse fatto della nuova creatura, mentre possiamo affermare per certo che il suo collega e contemporaneo dell’Uruguay, il prete e naturalista Dámaso Antonio Larrañaga, identificò in una lettera del 1823 ritrovamenti simili come appartenenti al Megatherium, l’ipertrofico bradipo che avrebbe costituito, nell’intera storia del pianeta azzurro, il secondo mammifero di terra più grande della storia. E di certo una simile creatura avrebbe convissuto con gli antenati dell’armadillo, pur non competendo mai per il cibo. Poiché tutte le specie di gliptodonti, di cui attualmente ne conosciamo sette, avevano la caratteristica di un collo particolarmente corto e poco flessibile, per sostenere il peso notevole della corazza, il che gli avrebbe completamente impedito di accedere alle fronde più alte di un mezzo metro circa. A meno di sottoscrivere la teoria, oggetto di uno studio del 2012 di Juan Carlos Fernicola et al, secondo cui i residui di fibra muscolare nei dintorni delle narici avrebbero indicato la presenza di una lunga proboscide. Caratteristica che, d’altronde, nessuno ha mai incluso nelle immagini artistiche dell’animale, ritenendo forse che ciò avrebbe compromesso l’aspetto ferocemente stabile di un tale macigno deambulante. Pezzi di ossa e del guscio avevano preso a comparire, ben prima di quella data, nelle analisi formali di varie figure scientifiche di spicco: il Dr. Lund, professore famoso per le sue memorie sulla fauna preistorica brasiliana, scrisse nel 1837 dell’hoploforo, un misterioso essere probabilmente corazzato. L’anno successivo, il professor Brohn ne incluse una sua versione nel testo da lui pubblicato Lethaea Geognostica, scegliendo di usare l’appellativo Chlamydotherium. Passò un altro anno, quindi, per un ulteriore nome: Pachypus, opera del Prof. D’Alton. E ogni volta che la bestia faceva la sua comparsa, c’era sempre qualcosa di diverso: a volte liscia, altra bitorzoluta, più o meno grande a seconda dei casi. Finché un uomo dalle profondità della scienza, emerse per dirimere l’arzigogolata questione…

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Quanti semi contengono gli hot dog di palude?

Danger, achtung, 危ない, rischio di esplosione! Non toccate ciò che non vi appartiene, specialmente se ha un’origine di tipo naturale, costituendo una parte inscindibile del grande fiume delle cose indipendenti. O in alternativa, l’ornamento vegetale di paludi sottintese, agglomerati di casistiche del tutto inusitate. Chi avvicina la sua mano… Sarà presto inseminato. Ricoperto, in modo totalmente letterale, della spuma bianca dello spazio-tempo. 100.000 piante già complete in ogni loro parte, dallo stelo semi-rigido alle foglie con la forma di una lama. Nonché il cruccio, ovvero il nesso, di quest’infiorescenza tubiforme di un color netto marrone, il cui peso appare molto superiore alla realtà. Certo, non è un vegetale come gli altri, ciò di cui stiamo parlando. Bensì la tifa o stiancia, mazzasorda, coda-di-gatto (cattail) salsiccia di palude, erba-della-culla, pannocchia del cosacco o cumbungi, un susseguirsi internazionale di metafore che alludono, di volta in volta, all’aspetto o la funzione di una tale pianta, tanto vicina alle esigenze degli umani da un periodo di almeno 30.000 anni (come da ritrovamenti archeologici di tale Era). Da dunque molto da pensare, e lascia un po’ stupiti, che una maggioranza di persone, benché vivano in prossimità di un luogo dove crescono selvaggi questi giunchi, non conoscano il segreto che si trova al loro interno. O forse sarebbe più preciso dire, la materia stessa di cui sono costituiti, la lanugine biancastra la cui confronto, addirittura il dente di leone sembra un copripenna anallergico.
Il fatto è che, in effetti, soffiare sulla tifa produce risultati largamente deludenti. Poiché essa è ben più solida del succitato pappìo, richiedendo quindi sollecitazioni d’altro tipo, o l’energia del vento stesso, per diffondere il suo carico di vita potenziale, duplicandosi per tutta l’area circostante. Ma il migliore ausilio alla propagazione resta, a dire il vero, l’intervento più o meno informato di creature assai determinate, che facendo il gioco della pianta la distruggono, garantendogli in questa maniera l’immortalità. Internet è piena di simili storie: l’esperienza di ex-bambini americani, ormai membri produttivi della civilizzazione memetica digitale, che scoprirono accidentalmente le surreali proprietà del salsicciotto da cui fuoriesce una punta smussata (in realtà il fiore maschile). Stringendolo tra le manine, per generare l’assoluto Caos. Credete che io stia esagerando? Ma il raceme femmina del cattail è un vero capolavoro del processo biologico evolutivo, compresso come un mobile dentro i cartoni dell’Ikea. Al punto che una volta aperto, o disfatto che dir si voglia, esso pare espandersi in maniera esponenziale. Quasi che al suo interno si nasconda un’apertura interdimensionale verso il piano d’esistenza della purissima allergia. E di certo, più di un genitore deve aver sbraitato all’indirizzo di coloro che, per gioco, ne hanno colto una dozzina o più e commettendo il gesto sopra descritto dentro al giardino di casa propria, ponendo le basi per vederne presto crescere milioni. A discapito delle rose rare di mamma e papà.
Mentre un tempo, molto prima dell’inizio dell’epoca industriale, il salsicciotto di palude aveva costituito una pianta estremamente desiderabile, vista la maniera in cui sembrava migliorare la vita di chicchessia. In primo luogo facente funzione di cibo, per tutti coloro (cosacchi in primis) che erano soliti sradicarla da terra, onde accedere al rizoma semi-sepolto, quella parte dello stelo da cui partono le radici e che una volta sottoposto al peso della macina, dava origine a una farina con 266 calorie per 100 grammi.  E poi, per la leggendaria flessuosità ed il grado di resistenza delle sue lunghe foglie a punta, materia prima d’infiniti manufatti umani…

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Il magico bicchiere che sostituisce le previsioni del tempo

Si tratta di uno degli scherzi più famosi nel mondo della meteorologia: il sasso che indica le condizioni atmosferiche. Generalmente appeso a un filo, talvolta dinnanzi ad un pub inglese e accompagnato da una targa che ne descrive l’impiego… Se il sasso è bagnato vuol dire che piove. Se il sasso è bianco, sta nevicando. Non riuscite a vederlo? Nebbia piuttosto intensa. Se invece è caldo, vuol dire che c’è il sole. Quando nessun sasso è presente, di recente è passato un tornado. E così via. Nella versione tedesca, d’altra parte, s’impiega una corda, talvolta definita “la coda dell’asino” e conseguentemente posizionata nel punto corrispondente su un’illustrazione dell’equino, voltato di spalle. L’associazione con le bevande alcoliche è generalmente piuttosto stretta, poiché si ritiene che soltanto un ubriaco possa prendere sul serio simili strumenti, effettuando “consultazioni” formalmente precise e traendo le debite conclusioni del caso. Ciò che egli spesso non può sapere, tuttavia, come del resto molti di noi, è che questo approccio per così dire empirico alla meteorologia ha in realtà origini ben precise, mirate a prendersi gioco di un antico sistema, risalente almeno al XVIII secolo, benché nessuno ne conosca effettivamente l’origine geografica precisa. Per non parlare dell’inventore. Motivo per cui esso viene identificato in maniera inesatta come “Barometro FitzRoy” dal cognome del nobile minore e capitano, successivamente ammiraglio della marina inglese Robert, che fu alla guida a partire dal 1828 dei viaggi scientifici della HMS Beagle. La nave famosa per aver condotto Charles Darwin verso il Sud America e da lì, fino l’elaborazione della sua teoria delle specie. Così mentre il grande scienziato annotava le sue scoperte nel ponderoso taccuino destinato a fare la storia del metodo scientifico, caso vuole che il comandante fosse solito ritirarsi nella sua cabina, dove anch’egli era intento a porre le basi di un testo che avrebbe cambiato negli anni a seguire il corso stesso della sua vita. E nel contempo, quello di molti altri: “Il libro del tempo [atmosferico]” occupato in buona parte dalle sue osservazioni sul funzionamento di svariate tipologie di barometro, tra cui quello da lui preferito, in sostanza nient’altro che un semplice barattolo sigillato ricolmo di un liquido misterioso.
Notazioni del tutto simile a quelle riportate da quest’uomo, oggi, ricompaiono nei bigliettini allegati ai prodotti di siti di curiosità scientifiche e gadget, per indicare il corretto impiego dell’apparato. La somiglianza con la teoria del sasso o della coda dell’asino appare davvero lampante! Tranne che per l’associazione con l’immediato futuro, piuttosto che il presente: se il liquido contenuto all’interno appare limpido, vuol dire che uscirà presto il sole. Se invece si opacizza, nubi fosche si addensano all’orizzonte, con l’estremo di un temporale nel caso in cui perda del tutto la trasparenza. Piccole particelle nel brodo di sospensione lasciano presagire gelo. Talvolta, la lettura di un tale barometro può trasformarsi in una vera e propria arte, con precipitazioni sul fondo immediatamente associate alla neve, o filamenti prossimi alla superficie, associati all’insorgere di situazioni ventose. Il che potrebbe ragionevolmente sembrare un’associazione fantastica fondata pienamente sul nulla: dopo tutto, che connessione potrebbe mai esserci tra i mutamenti dell’atmosfera e il contenuto di un barattolo sigillato? Se non che in qualche maniera, le mutazioni effettivamente avvengono, giorno dopo giorno, e questo per una ragione estremamente precisa. Sto parlando del contenuto dello stesso, tutto, fuorché ordinario. Fu lo stesso FitzRoy, per primo, a metterne nero su bianco la “ricetta”: mezza oncia di cloruro di ammonio, mezza di nitrato di potassio, un’oncia di alcol puro, due once di acqua distillata. E per finire, l’ingrediente primario: una quantità variabile di canfora, sostanza di origine vegetale famosa per l’impiego nel campo dei cosmetici ed il suo odore intenso, nonché la sua propensione chimica, tipica dei chetoni, a cristallizzarsi. E sarà proprio questo in effetti, il fenomeno a cui ci troveremo ad assistere, ogni qualvolta si verifica un cambiamento nel contenuto della bottiglia, secondo un catalogo di possibilità che scaturisce dall’osservazione diretta, lungo un periodo sufficientemente esteso. Molti studiosi del clima, a partire da quell’era remota, si sono applicati nell’approfondimento di questo meccanismo ancora in parte misterioso, giungendo a conclusioni discordanti, e generalmente piuttosto deludenti sull’effettiva affidabilità del barometro, definito dal capitano stormglass (bicchiere della tempesta). Ma a nessuno di essi è mai davvero venuto in mente di mettere in dubbio dell’importanza che avrebbe avuto, al ritorno della HMS Beagle, una simile invenzione nel far progredire di molti anni la scienza a quell’epoca altamente informale delle previsioni del tempo…

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L’odissea intraoceanica degli aracnidi volanti

Dalle più profonde foreste sudamericane ai deserti della Via della Seta. Dalla Valle della Morte fino alle vette della cordigliera andina. Nella pianure siberiane, negli atolli del Pacifico ricoperti di guano. Ragni, ragni, ragni a profusione. Con gli occhi segmentati e con l’addome peloso, con le zampe che s’intrecciano e complesse ragnatele, concepite per poter bloccare mosche, vespe ed altri insetti volatori. Ragni sulla schiena, nei calzini, ragni nei capelli e sulla lingua addormentata. Ma se l’evoluzione è veramente un sistema di tipo aperto, in cui le specie trovano uno spazio grazie alla capacità di adattamento ai fattori ambientali, allora come mai è possibile che luoghi tanto differenti abbiano dato i natali alla stessa tipologia di creature? Quale disegno superiore ha percepito la necessità di porre ovunque, ovvero qui, là ed altrove, connotando i nostri sogni di un sinistro brulichìo silente… Oppure, forse, la spiegazione è da cercarsi in altro luogo.
In una ventosa mattina di primavera, dentro l’edificio ormai da tempo abbandonato, iniziano a schiudersi le uova. La madre, allegramente vedova (poiché suo marito se l’era fagocitato) sovrintende alle complesse operazioni, mentre con riflessi vigili e i puntini rossi sulla schiena, sinonimo di morte ultra-veloce, dissuade ogni possibile tipologia di predatori. Nessun destino del tipo “appetitose tartarughine sulla spiaggia”, qui. Se proprio è il caso, sarà LEI a mangiarli. Uno dopo l’altro, i suoi figlioli percorrono il più lungo filo della nursery, per andare quindi a risalire l’alto muro perimetrale, verso una finestra soprastante. Raggiunto l’apice quindi si fermano, apparentemente a meditare. La madre li guarda con orgoglio, cominciando lentamente a muoversi verso i ritardatari, i cheliceri spalancati per eliminarli da un pool genetico dal pregio sopraffino. Ben sapendo, mentre mastica, che i fratelli più veloci e scaltri, in realtà, non giacciono in attesa. Essendo invece intenti a tessere una serie di fili straordinariamente sottili, invisibili persino per lei. Attaccati non al muro, né alla grondaia e neppure al ramo di quell’albero antistante. Bensì all’aria stessa, ovvero, al vento, che uno dopo l’altro, inizia a trascinarli. E via con essi, la progenie intera, il cui peso non è nulla in confronto all’impercettibile viscosità dell’aria. È la prassi del ballooning, questa, la [costruzione] di mongolfiere, un termine in realtà inesatto poiché i ragni neonati non impiegano palloni, bensì fibre e solamente quelle. Più che abbastanza, nella maggior parte dei casi, per il loro fondamentale obiettivo: disperdersi, alla maniera dei semi defecati dagli uccelli migratori. Ora la questione, per un ragno, è notevolmente più complessa. Poiché un artropode, per quanto piccolo, non può attraversare indenne l’apparato digerente di un rondone. Quindi egli sceglie di diventare lui stesso, un rondone.
Crederete forse che io stia esagerando. Eppure considerate questo: nella storia della navigazione oceanica, esistono casi documentati di marinai pronti a giurare che le loro vele si erano riempite, nel corso della notte, d’intere famigliole di ragni, nonostante essi fossero pronti a giurare che erano totalmente assenti al momento in cui avevano lasciano il porto. Il che, a pensarci bene, può avere una sola possibile spiegazione: essi erano giunti, per un puro caso, fin lì trascinati dal vento. È stato dimostrato da numerosi studi di aerodinamica, che un ragno in volo può raggiungere l’altezza di 1 o 2 miglia, essenzialmente paragonabile a quella di un aereo di linea, attraversando facilmente gli oceani che dividono i continenti. La sua propagazione è perfetta, il suo controllo, un po’ meno. Ma quando mai garantirsi la sopravvivenza è stato importante nello schema generale delle cose, per delle specie che producono centinaia, se non migliaia di figli nel sublime attimo della riproduzione…

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