Quest’albero può ucciderti in almeno quattro modi differenti

Mancinella

Il famoso bucaniere e probabile ugonotto di nazionalità incerta Alexandre Olivier Exquemelin, autore del più importante testo coévo sulla pirateria americana, scriveva 1678 di essere venuto a conoscenza di questo problema nel peggiore, e più diretto dei modi. Sbarcato presso una qualche spiaggia assolata della Florida, infatti, egli si trovò assediato da zanzare e moscerini. Al punto che, stanco di sopportarli, si diresse verso l’arbusto più vicino e ne staccò un ramo, allo scopo di farne un ventaglio, per farsi aria e scacciare gli sgraditi insetti da tutto attorno al suo volto. Operazione che sembrò, in un primo momento, perfettamente logica e funzionale. Se non che nel giro di pochi minuti dopo aver intrapreso il gesto, il prurito peggiorò in maniera esponenziale, la sua gola prese a gonfiarsi e un intero lato della testa iniziò immediatamente a ricoprirsi di vesciche. Affetto da difficoltà respiratorie, lo sfortunato capitano prese quindi a tossire con enfasi e la vista gli si annebbiò, al punto che egli narra di essere rimasto “praticamente cieco” per un periodo di tre giorni esatti. Che fortuna! Perché, intendo, poteva andare molto peggio, visto quello che sappiamo, oggi, sulla pianta che fu antagonista in questa sgradevole avventura, detto il melo delle spiagge o manzanilla (piccola mela) de la muerte. Nome scientifico: Hippomane mancinella, dalla sua presunta capacità di far impazzire i cavalli. Il vegetale che si qualifica come una delle piante più tossiche del pianeta Terra, se non la più potenzialmente letale in assoluto, ed il cui contenuto chimico rimane ad oggi parzialmente ignoto. Il cui fusto è ricoperto della tossina 12-deoxy-5-hydroxyphorbol-6-gamma-7-alpha-oxide, mentre le foglie sono a base di sapogenina e phloracetophenone-2,4-dimethylether, un composto essenzialmente paragonabile per i suoi effetti a quello contenuto in molti gas nervini. Mentre uno solo dei suoi frutti, nell’opinione del colono e scrittore Nicholas Cresswell (1750-1804) contiene veleno sufficiente ad uccidere 20 persone. Ecco una teoria che non vorremmo mai mettere alla prova. Nel frattempo gli Indios, membri dei popoli indigeni che condividevano la residenza con questa terribile per quanto immobile creatura, tra il sud-est degli attuali Stati Uniti, i Caraibi, il Messico e l’America centrale e meridionale, erano soliti sfruttare l’albero nel corso delle loro guerre primitive: per intingere nella sua resina la punta di crudeli frecce, come quella che ebbe l’occasione di condurre, nel 1521, a lenta morte il celebrato esploratore spagnolo Ponce de Leòn, personaggio legato alla leggendaria ricerca della Fonte della Giovinezza. Oppure legavano i loro nemici al tronco stesso della pianta, in quella che potrebbe considerarsi una delle torture più terribili note all’uomo, perché portava ad una progressiva irritazione delle mucose, alla chiusura della gola e prima o poi, al soffocamento. Purché non sopraggiungesse, prima, la pioggia… Se necessario, inoltre, una sola di queste minuscole mele gettata nel pozzo di un villaggio bastava a renderlo invivibile per anni ed anni, facendo essenzialmente terra bruciata di un intero territorio. E questo non fu che un assaggio della forza terribile della temuta mancinella.
Chiunque abbia mai frequentato assiduamente un parco pubblico da bambino, avrà probabilmente avuto modo di essere messo in guardia dagli adulti in merito al pericolo dell’oleandro, una pianta la cui ingestione potrebbe portare a problemi nervosi, tachicardia ed altri disturbi anche piuttosto gravi. Ma i fattori in gioco sono differenti: perché mai, persino un incauto d’età scolare, dovrebbe correre a mettersi in bocca le rischiose foglie a punta di una mera pianta ornamentale? Mentre il problema della mancinella, è che non soltanto i suoi frutti sono belli, ma tremendamente deliziosi. C’è in effetti un breve resoconto, su Internet, scritto dal radiologo Nicola H Strickland successivamente ad una sua vacanza del 2000 presso l’isola di Tobago, dell’esperienza da lui fatta quando molto stupidamente, fagocitò assieme ad un amico alcuni dei piccoli frutti ritrovati sulla spiaggia (l’alcol potrebbe essere stato un fattore). Egli racconta di aver dato solamente un morso al frutto, che si era rivelato molto dolce, per iniziare a sperimentare dopo alcuni minuti un vago formicolìo alla gola, presto sostituito da un dolore lancinante. I linfonodi dei due presero quindi a gonfiarsi, diventando teneri e palpabili, e impedendogli sostanzialmente di mandare giù un qualsiasi tipo di di cibo solido. I sintomi durarono per un periodo di 8 ore, ma si ritiene che in determinati casi, possa sopraggiungere la morte. E se questo è il secondo degli scenari esiziali promessi nel mio titolo, dunque, proseguiamo…

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La creatura vivente più antica e pesante del pianeta Terra

Pando Populus

80.000 anni. Quando è nato Pando, i mammut erano ancora la preda preferita dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori appartenenti al Medio Paleolitico. Mentre il popolo dei Neanderthal, destinato presto all’estinzione, si trovava all’apice della sua largamente misteriosa civiltà, probabilmente priva di un linguaggio.  Si può credere davvero fermamente all’esistenza di qualcosa così come, usando l’arma del senso comune, auto-convincersi che un particolare essere non potrà mai farci visita, scrutarci coi suoi occhi o sorgere dalla sua tana nel profondo della notte, per lasciare la sua grande impronta sulla storia dell’umanità. “I giganti? Pura fantasia!” Le leggi della fisica impongono dei limiti a ciò che può ergersi al di sopra del suolo, per la forza di gravità, i venti che minacciano tempesta e la quantità pur sempre limitata di risorse messe a disposizione dalla natura. Che cosa potrebbe mai mangiare, una creatura del peso di 6.600 tonnellate…Pura aria? La luce del Sole? Il glucosio risultante dalla…Fotosintesi clorofilliana!
È una questione piuttosto nota, nella regione dello stato americano dello Utah in cui si trova la Foresta Nazionale di Fish Lake. Eppure, molti di coloro che passano con la propria auto sulla Route 25, un importante punto di raccordo tra due strade statali, non gettano che uno sguardo distratto nella rilevante direzione, per prendere coscienza di quello che sembrerebbe essere, a tutti gli effetti, un riconoscibile bosco dei cosiddetti aspens o pioppi americani (Populus tremuloides) di 43 ettari. Luogo dal nome collettivo attribuito di Pando (termine latino che significa “Io mi diffondo”) tutti maschi nonché geneticamente identici tra loro. Una visione ed un concetto tutt’altro che rara sulle coste dell’Atlantico distante, ma che qui, in effetti già può dare da pensare. Per il semplice fatto che, da studi ecologici piuttosto approfonditi, è stato determinato che nell’area occidentale del Nord America semplicemente non è esistito un clima adatto all’affermarsi di tale vegetazione fin dall’epoca esatta di 10.000 anni fa. Il che significa, in parole povere, che ciascun singolo albero di questo tipo che si trovi in simili regioni ha, in un senso tutt’altro che figurativo, gettato le sue radici pochi giorni dopo il termine dell’ultima totale Glaciazione. Tutti, nessuno escluso. È una questione che potrebbe facilmente generare un immediato senso di dubbio e spiazzamento. Eppure, a ben pensarci, non è poi così strano: prendete in mano un semplice sasso in una valle di campagna, e contemplate quella forma piccola e bitorzoluta: da quanto esiste, esattamente quella piccola ed insignificante cosa? Prima di tutto, occorre definire il significato del concetto di “esistenza”. Ma non è poi così assurdo pensare che la minuscola roccia in questione fosse già qui, magari ancora conglomerata ad un tutto più grande, al raffreddamento del manto magmatico che avrebbe costituito la stessa crosta superficiale della Terra. Sono soltanto i rappresentanti del mondo animale, con la loro complicata evoluzione, con le loro ali, pinne e zampe, con la filosofia e la letteratura, a doversi accontentare di una vita breve come un’alito di vento. Mentre il regno minerale, perfettamente statico ed immoto, non ha limiti temporali di sorta. E il regno vegetale, conseguentemente…Diventa una perfetta via di mezzo.
Un pioppo, dunque, non è eterno. Ma ci va molto vicino. Questo perché ciò che noi consideriamo un gruppo d’alberi di questo tipo in realtà, non è che la minima parte di un essere tentacolare, che si estende molti ettari al di sotto dei nostri stessi piedi. Un ammasso di radici, nascoste agli elementi, ai predatori, persino all’evento distruttivo degli incendi boschivi, che sostanzialmente non conoscono le avversità. E che per ogni tronco che crolla, come i catafratti immortali dell’esercito di Serse, ne generano presto un altro, affinché possa prenderne il posto, sotto il Sole nutritivo. Per continuare a crescere e gettare più lontano la propria lunga, significativa ombra.

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Come aprire un cocco alla maniera samoana

Samoa Coconut
Il fisico robusto, un fiore nei capelli, una collana di bacche rosse simili a peperoncini. Bracciali ricavati da foglie di palma, così stretti da sembrare in grado di bloccare la circolazione. E una corona vegetale sulla fronte che, se fosse una bandana, lo renderebbe affine a certi eroi del cinema o dei videogiochi, come Rambo, Solid Snake, Steven Seagal. E a quest’ultimo personaggio americano, attore e rinomato praticante dell’Aikido, in particolare, molti sembrano voler paragonare il capo Kap Te’o-Tafiti, figura cardine di uno dei più visitati tra i villaggi del Centro di Cultura Polinesiana sull’isola hawaiana di Oahu, una sorta di micro-Disneyland bagnata dalle acque dell’Oceano Pacifico. Che gli somiglia vagamente nei lineamenti, nel portamento e nel suo essere in qualche maniera un entertainer nato, benché il campo operativo nel suo caso sia decisamente più sereno, allegro e meno votato all’annientamento senza esclusione di colpi dei “cattivi”. A meno che tra questi non scegliamo di annoverare, per qualche ragione, il frutto ovoidale della Cocos nucifera, la drupa dalla scorza notevolmente solida, specie se molto giovane ed ancora verde, o tendente al marrone ed ormai secca nel suo involucro, benché ancora dolce ed attraente nella cavità centrale. Perché in quel caso, il nativo delle isole Samoa che ormai da molti anni si è trasferito presso questo rinomato resort hawaiano, non diventa altro che un temibile fenomeno della natura, un fulmine di guerra, un drago sputafuoco. Poiché tra i vari spettacoli imbastiti per visitatori del centro, che si suddivide in sei sezioni dedicate ad altrettante nazioni site tra le acque del pianeta, nessuno è amato dal pubblico, quanto quello relativo al recupero, all’apertura e alla consumazione di questo cibo fondamentale per la dieta dei nativi, da noi associato erroneamente a visioni improbabili da cartone animato, con scimmie che ne lanciano copiose quantità verso le ciurme dei pirati, di passaggio per disseppellire qualche antica cassa di rum.
E di metodi ce ne sono molti, ciò è da darsi per scontato. Tra cui il più celebre, probabilmente considerato dall’opinione comune come quello “tradizionale di queste parti” consiste nell’impalare letteralmente il prodotto della palma su di un palo appuntito piantato nel suolo, sfruttandone la capacità di penetrazione per far la prima breccia nella preziosa ma blindata capsula del nutrimento offertoci dalla natura. Non che un simile proposito sia particolarmente semplice, o alla portata di tutti. Non credo che sia un caso se, tra i molti reality show e varie competizioni televisive a tema tropicale, una simile mansione non sia praticamente mai affrontata in tale modo dagli occidentali non professionisti del ramo. Basterebbe in effetti un secondo di distrazione, per finire con la propria mano contro la punta di lancia, subendo conseguenze non difficili da immaginare. Inoltre, non tutti i cocchi hanno la forma di quello usato da Te’o-Tafiti nella sua dimostrazione, esistendone di ben più piccoli, o quasi perfettamente sferoidali. E centrare il palo con un simile implemento, cosa che sia chiaro, lui ed altri riescono a ben fare, sarebbe per noi come lanciare una freccetta all’altro capo del pub, con l’improbabile finalità di disossare un’oliva. Violata quindi la barriera esterna, e qui viene il bello, l’operatore consumato passa alla fase in cui la scorza esterna del frutto deve essere totalmente distaccata dalla polpa. Ed è particolarmente memorabile, allo sguardo, il metodo da lui selezionato a tale scopo: mordere, letteralmente, l’oggetto tondeggiante del suo interesse. Una, due, tre volte, con strappo fragoroso, e distruzione sostanziale di quello che l’albero aveva creato. Il capo mastica rumorosamente, poi guarda in camera: le fibre marroncine sembrano altrettante piume di gallina, tenute saldamente in bocca da una volpe che è riuscita a fare breccia nel pollaio. Quindi lui sorride, di nuovo ma in maniera vagamente minacciosa, e le risputa via, sollevando trionfante il frutto quasi pronto alla consumazione. Ma lo show non è ancora finito: c’è un ultima corteccia, da scardinare, la cancellata interna della cassaforte. Così il nostro eroe, finalmente, estrae l’imprescindibile machete, ma per usarlo in una maniera, dopo tutto, inaspettata. Egli non punta infatti il taglio della lama verso il cocco (“Così facendo, potreste finire per affettarlo da parte a parte, versando il liquido all’interno. È molto difficile riuscirci”) ma il dorso dell’arma, con la quale, incredibilmente, gli basta dare un singolo colpetto. A quel punto, meraviglia delle meraviglie, lo scrigno si apre in maniera tanto perfetta da sembrare quasi un effetto speciale. Giungendo al coronamento del suo discorso, il capo assume la sua posa conclusiva, con una metà del cocco prossima alla bocca, l’altra offerta generosamente verso l’obiettivo della telecamera. È impossibile, alla fine, non riuscire a percepire il suo naturale senso d’ospitalità!

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Come stampare facilmente una risaia

Rice Paddy Machine

Piccole dita robotiche, un comodo posto a sedere. Persino l’uso di un volante, per sterzare! Siamo, a quanto si desume dai cartelli, in una qualche zona rurale della Corea del Sud. Per assistere al funzionamento di un particolare metodo agricolo, che è al tempo stesso utile, geniale e letteralmente sconosciuto dalle nostre parti. Per il fatto che noi occidentali d’oggi, il riso, molto semplicemente NON lo trapiantiamo. Proprio così. Perché mai “complicarsi” la vita? Feh! All’epoca di Gutenberg, portare a termine la stampa di un volume non poteva prescindere da un certo senso di gravitas e responsabilità. Le rotazioni successive del torchio, sul cui pannello trovavano collocazione i singoli caratteri posizionati attentamente, la concentrazione, lo sforzo fisico e la soddisfazione, al termine, di avere in mano quella bibbia degna di un messale da basilica romana. Oggi, con le nostre “Xerox”, “Epson” e “HP” possiamo ripetere l’impresa alla pressione di un pulsante, o ancora meglio, un’icona priva di sostanza. L’interfaccia tra uomini e prodotto editoriale non fu mai più semplice, né bella o produttiva nella sua fondamentale essenza. Ma non è forse vero che, in questa maniera, abbiamo perso il senso antico di quel gesto estremamente significativo? I treni a vapore di un tempo funzionavano con il carbone, che necessitava di essere spalato a mano. Difficilmente, un tale impegno poteva essere ignorato. E se c’era una strada ferrata fino ad un distante luogo, potete starne certi, si trattava di una meta rilevante! Produrre musica dovrebbe richiedere uno strumento! Non l’impiego di un sintetizzatore per computer con capacità d’automazione… Dov’è finita ad oggi la creatività! Dove sono, il buon gusto ed il coraggio di studiare?
Ogni quindici giorni, un aviatore si sveglia in California. Ben sapendo quale sarà il compito della giornata: di buon ora, recatosi alla pista di decollo, solleva momentaneamente gli occhiali da Sole, per fare un saluto al suo datore di lavoro milionario. Sale quindi a bordo del suo monoposto Piper PA-25, accende il GPS e scalda un po’ il motore. Poi parte e vola fino alla destinazione. Un sofisticato sistema a guida laser, incorporato nel suo meccanismo di rilascio del carico, prende contatto con le guide automatiche posizionate a terra. Tutto quello che costui dovrà riuscire a fare, quindi, sarà transitare sopra il campo parzialmente allagato. Attendendo che la triangolazione dei suoi movimenti, un prodotto dei numeri gestiti dalle macchine, permetta al sistema di capire quando rilasciare i semi. Nel giro di qualche decina di minuti, l’opera sarà compiuta: un intero potenziale raccolto del cereale più completo e nutritivo in assoluto, sarà ben posizionato e pronto a crescere, nell’immediato o prossimo futuro. Parassiti permettendo. Ma è dopo tutto proprio a questo, che servono i pesticidi. E l’alterazione genetica dei semi! Tutto questo, senza neppure la necessità di bagnarsi i pantaloni, WOW. Evviva, evviva la modernità!
Nel frattempo, in terra d’Asia Meridionale, diciamo…Thailandia, Vietnam, Filippine…Un gruppo di lavoratori si ritrovano su appuntamento, presso le proprietà di un imprenditore agricolo locale. Come da prassi lungamente acquisita, sollevano una per una le zolle di terra dell’apposito recesso, in cui erano stati piantate le sementi migliori. Ora cresciute, fino allo stato di piantine verde brillante, finalmente grandi abbastanza da sopravvivere nella risaia vera e propria. Quindi, camminando faticosamente dentro l’acquitrino, costoro le separano una per una dalla massa aggrovigliata, infiggendole nel suolo alla distanza di 30 cm una dall’altra. Sapienze secolari guidano i loro gesti. Al punto che ciascuna potenziale erbaccia o infestazione d’insetti è largamente nota, con tanto nome, cognome e numero di previdenza anti-sociale. E ogni qual volta dovesse sopraggiungere un problema, questo potrà essere estirpato, o sterminato, con le loro stesse esperte mani. La missione: un’impegno quotidiano a stare curvi, dandosi da fare. Il mal di schiena: un vecchio compagno d’avventure. Ora, di sicuro ci sarà una funzionale via di mezzo tra i due estremi fin qui descritti….

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