Camion resta incastrato nell’arco più antico d’Inghilterra

Verso le ore 14:00 dello scorso giovedì 18 maggio, cittadina di Lincoln nel Lincolnshire, Inghilterra: una vera doccia fredda aspettava gli abitanti di un simile luogo ameno, dove generalmente, il più grande evento della giornata è il sopraggiungere dell’ora del tè. Imboccando la via di Bailgate, con la cattedrale cittadina consacrata nel 1092 alla propria destra, e il massiccio castello che venne qui edificato da Guglielmo il Conquistatore nella seconda metà dell’XI secolo a sinistra, ad ostruire l’orizzonte compariva qualcosa di nuovo. Una cosa quadrata, dentro una cosa tonda, di un vistoso colore blu accesso. Finché, non importava da quale lato ci si mettesse a guardarlo (purché fosse davanti o dietro) l’oggetto non rivelava la sua terribile, spietata identità: un autocarro bello grosso, visibilmente incapace di muoversi. In quanto perfettamente incuneato nel singolo edificio più antico della regione, al cui confronto, la cattedrale e il castello avrebbero potuto anche essere dei centri commerciali degli anni 2000. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, del Newport Arch, quella che fu la porta meridionale di Lindum Colonia, il forte legionario dove secondo alcune leggende aveva avuto modo di rifugiarsi niente meno che l’imperatore Britannicus, il nobile della dinastia giulio-claudia figlio della terza moglie di Tiberio, dopo essere stato ufficialmente avvelenato dalla spregiudicata Agrippina, madre di Nerone. Una struttura che aveva attraversato indenne oltre un millennio e mezzo, sopravvivendo a disastri, guerre medievali, conflitti armati e potenziali bombardamenti da parte dell’aviazione tedesca. Ma che negli ultimi tempi, regolarmente, di essere abbattuta dall’ennesimo autista soltanto leggermente distratto. Eppure sarebbe ingiusto, accollare tutta la colpa ad una singola persona…
“Fra 200 metri, svoltare a destra” costituisce una di quelle frasi che sembrano del tutto prive di un significato ulteriore, eppure nascondono all’interno un potenziale sviluppo drammatico degli eventi. Perché si, la localizzazione di un satellite geostazionario è una scienza esatta. Che il dispositivo per l’impiego specifico veicolare, piuttosto che il semplice software per il nostro telefono da taschino, riescono ad effettuare grazie ad un’antenna, il processore e la scheda logica integrata. Ma sapete cosa non è per niente soggetto ad una legge altrettanto esatta? L’occasionale rinnovamento di un sistema di viabilità, con il cambio dei sensi unici, l’apertura di una strada o la chiusura di un’altra… La costruzione di una nuova rotonda! Gli inglesi, notoriamente, hanno una passione particolare per tali strumenti dell’urbanistica, nei quali l’arte di scegliere la svolta esatta diventa un’interpretazione del ritmo e di una numerazione che purtroppo, soltanto la voce digitalizzata riesce a capire “La seconda, la terza a sinistra…” Ma quante sono, in realtà…Chi le ha contate! Senza prendere in considerazione come, tra l’altro, ci si ritrovi condizionati dalle semplici problematiche di contesto. Le quali risultano il più delle volte facili da considerare, almeno per un autista informato dei fatti. E che sarebbero, di sicuro, altrettanto elementari per un dispositivo cosiddetto “intelligente”… SE soltanto ci fosse la possibilità di fornirgli fino all’ultimo dato. Oppure, magari no…. Sai quanti si scorderebbero d’inserire correttamente, in fase d’elaborazione del tragitto, l’altezza del proprio mezzo? Portando all’insorgere di problemi estremamente imbarazzanti.
“Avanti, avanti!” Gesticolava il poliziotto: “No, indietro, indietro” Faceva un passante dall’altro lato, con le mani portate d’istinto ai capelli. Il problema di un arco col camion incastrato dentro è che esso costituisce a tutti gli effetti una barriera per l’immagine e il suono, al punto che chi si trova da una parte, non sa cosa sta succedendo dall’altra. Nel frattempo, alcuni anziani del posto se ne stavano in disparte nel cortile che fronteggia la vecchia chiesa metodista di Bailgate, discutendo pensierosi dei vecchi tempi. Perché si, a questo punto l’averete potuto immaginare: qualcosa di simile era già capitato…Due volte!

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Se un barattolo di lievito può conquistare una nazione

Successe all’incirca un paio di anni fa. L’attore australiano Hugh Jackman, a.k.a. Wolverine l’X-Man invulnerabile dai lunghi artigli, che durante un’intervista dello show di Jimmy Fallon si sentì in dovere di tirare fuori un tostapane, col caratteristico barattolino dal tappo giallo. “Voi [americani]…” esordì sottintendendo la seconda parte, con tono bonario ma realmente esasperato: “Voi… Non la capite, solamente perché la mangiate nel modo sbagliato. Vegemite non è soltanto un qualche cosa che il medico prescrive, per alleviare una carenza della vitamina B. Questa cosa la si mangia a colazione, perché è veramente BUONA. Yum!” Segue la scena tipica, ripetuta in mille video di YouTube, dell’esperto che apre la confezione, permettendo alla controparte di giornata di annusarlo. E l’espressione visibilmente sconvolta del conduttore Jimmy, che storce gli occhi e arriccia il naso, di fronte al possente e inevitabilmente spiacevole aroma di carne salata. L’estratto di lievito è un qualcosa che si assume con moderazione. Eppure, chiedete voi a un anglosassone del Vecchio, oppure Nuovissimo mondo: c’è all’incirca un 50% di probabilità che lo troviate pienamente allineato con l’opinione di Mr. Logan “Ossa d’Adamantio” Howlett. Per poi lanciarsi in una lunga disquisizione sule perché, esattamente, la versione del SUO paese sia sensibilmente superiore. E per quanto concerne la restante metà della popolazione… Beh, lasciamo perdere. Ma la faccenda chiave, che di certo potrebbe condizionare anche noi italiani trovandoci di fronte ad una simile pietanza, è che una tale cosa non va spalmata sulla fetta della colazione come fosse marmellata, miele o (Dio non voglia) dolcissima Nutella. Bensì centellinata con la punta del coltello, e possibilmente smorzata con un sottile velo di burro. A tal punto è forte, e caratteristico il suo sapore. Tutto considerato, sembra strano che il concetto non risulti più noto al pubblico generalista. Ma a giudicare dall’opinione diffusa in merito all’impasto concentrato su scala internazionale, la persona media odia la Vegemite, semplicemente perché tenta di mangiarne troppa, tutta assieme.
E dire che qui siamo di fronte, dopo tutto, ad un qualcosa di tutt’altro che nuovo. La prima diffusione della crema avvenne in Inghilterra nel 1902, a seguito della scoperta dello scienziato tedesco Justus von Liebig, relativa al fatto che il lievito avanzato dalla produzione della birra non dovesse, in effetti, essere gettato via o impiegato come concime. Ma che piuttosto era possibile trattarlo e imbottigliarlo, per procedere alla sua consumazione futura. Si trattò di una rivelazione simile, se vogliamo, a quella del miso giapponese, la risultanza collaterale della produzione di un’altra sostanza frutto della fermentazione, la salsa di soia. E che come quest’ultima, trae l’origine dall’impiego copioso del sale. Una volta estratta e separato questo conglomerato di cellule fungine, infatti, esse vengono rese ipertoniche tramite l’aggiunta del sodio. Un processo che sostanzialmente, le uccide, bloccando ogni potenziale alterazione futura. A questo punto l’impasto fluido, ancora troppo denso e non gradevole al palato, viene filtrato attraverso una macchina vibrante, che separa e rimuove le membrane esterne del fungo microscopico. lasciando indietro il fluido scuro che diventerà, pressoché spontaneamente, Marmite o Vegemite. Già, c’è un doppio nome: perché l’irrinunciabile ingrediente della prima colazione, a dire il vero, non nasce affatto nella versione più dolce (e almeno dicono, più facile al palato) della terra emersa più estesa del continente di Oceania risalente solamente all’epoca successiva alla prima guerra mondiale, bensì presso la Marmite Food Extract Company di Burton sul Trent, nello Staffordshire d’Inghilterra. Esportata quindi nel remoto 1908 la licenza in esclusiva del prodotto verso la Sanitarium Health Food Company della Nuova Zelanda, agli australiani non restò che farne una versione propria, modificata con l’aggiunta di zucchero e caramello. Ora, chiedete ad un australiano cosa pensa della Marmite inglese, e questi vi risponderà, probabilmente, che è amarognola alla stregua di una punizione per i bambini cattivi. E se fate l’inverso con la Vegemite, sono pronto a scommettere che l’altro vi dirà che pare un snack dolce con l’orribile aggiunta di sale, oppure che semplicemente, la mistura richieda più sale. Molte faide sono nate in merito a una simile disquisizione…

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Il duello di un uomo con la goccia super-solida di vetro

“Mio re, dovete credermi! Non può essere distrutta. Questa goccia non può essere distrutta.” Era il principe Rupert del Reno a parlare, ovviamente, uno degli uomini militari più eclettici al servizio del re in esilio. Recentemente nominato Generale Supremo dell’armata, in quel marzo del 1645, dopo aver condotto la sua cavalleria in posizioni di vantaggio strategico determinante durante le battaglie Powick Bridge ed Edgehill, portando poi sollievo all’armata realista presso il castello di York. Cresciuto lontano dal seggio che sarebbe appartenuto di diritto a suo padre, esattamente come il sovrano che l’aveva accolto al suo servizio, il tedesco in armi pareva guidato verso le vittorie militari da un filo invisibile al servizio della Storia. O come affermavano alcuni, qualcosa di più malefico, legato al regno dell’occulto e della stregoneria sovrannaturale. Eppure tutto, fra i due uomini, faceva pensare a un’amicizia più che mai sincera, nata all’epoca della loro difficile esistenza giovanile, nell’Olanda sconvolta dalla cruenta guerra contro l’Impero Spagnolo. “Si certo, come no. Allora ascoltami bene, lo vedi quel martello che hanno usato stamattina per montare la mia tenda? Ora lo prenderò a due mani. E dopo aver tratto un grande respiro, colpirò con tutta la mia forza la parte bulbosa di questa presunta meraviglia della tecnica. Se si rompe, mi riprenderò tutti i titoli nobiliari di cui ti ho omaggiato.” Re Carlo II d’Inghilterra, nonostante le voci che venivano fatte girare per il regno dai suoi molti nemici, non era affatto un ultra-trent’enne obeso e claudicante, con la salute rovinata da anni di vita dissoluta ed abuso dell’alcol. Benché le ultime due osservazioni, nei fatti, fossero assolutamente vere. Ma la sua passione per la caccia e gli sport, unita ai rigori delle campagne belliche di cui aveva trovata costellata la sua vita, l’avevano reso perfettamente in grado di mantenersi in forma, al punto da poter abbattersi da solo gli alberi per accendere il fuoco durante una scampagnata. Non che avesse alcun bisogno di farlo. Rupert sorrise da sotto i suoi fantomatici mustacchi: “Se è questo che volete, accetto la sfida, ma a una sola condizione: sarò io a tenere la goccia, dalla parte della sua coda.” Qualcuno tra i presenti disseminati nel campo trasalì, altri si diedero vistose pacche sulla spalla. Il consenso generale sembrava essere che dovesse trattarsi di uno scherzo e si tendeva alla sdrammatizzazione. Il re impugno il maglio, mentre il principe indicava, verso il centro della radura, un piccolo ceppo appena sufficiente allo scopo: “Ah, ah, ah. Avete qualcosa a che vedere con questo?” Mormorò. Mentre tirava fuori la goccia e la metteva sopra il patibolo d’occasione, il fido cane Boy proveniente dalla Bohemia, un barbone da caccia che si diceva potesse sputare fuoco, prevedere il futuro e pietrificare i suoi nemici, si sedette d’un tratto e prese a fissare le operazioni. “Qui va bene, allora?” “Benissimo, mio signore.” Rupert tirò fuori una tenaglia da forgia, che a quanto pare teneva nella tasca posteriore del suo mantello. “Sei sicuro?” La cautela prima di tutto: molto evidentemente, doveva trattarsi di un metodo per risparmiare alle sue tenere mani un impatto accidentale vibrato dal re. “Non mi rimangio mai la parola data.” Il sovrano alzò le braccia sopra la testa, quindi le calò bruscamente in avanti. Con un urto formidabile, la goccia di vetro rimbalzò sul ceppo. Quando i due partecipanti all’esperimento riuscirono di nuovo ad individuarla, la realtà apparve fin troppo chiara: l’oggetto trasparente era ancora perfettamente integro in ogni sua parte. Sfolgorando nella luce del primo pomeriggio, veniva tenuto dritto dinnanzi allo sguardo del re, dal suo amico e principe tedesco, che lo rigirava da un lato all’altro, mettendone in evidenza le fantomatiche sfumature iridescenti. D’un tratto, il cane abbaiò. Il re si voltò. E la goccia, senza una ragione apparente, esplose!
Una scoperta accidentale. Un nuovo gioco per le corti d’Europa. Un indizio sulle vere e più profonde ragioni dell’esistenza? Nessuno sapeva esattamente, che cosa aveva (ri)scoperto l’abile militare durante una pausa delle sue campagne, oppure in gioventù, durante gli studi di filosofia naturale, o ancora durante una notte di plenilunio, sotto la luce delle stelle distanti, grazie al sussurro degli spiriti del Profondo. Qualcuno avrebbe in seguito affermato, parlando sottovoce, che non c’era in realtà alcunché di nuovo nella curiosa invenzione, trattandosi piuttosto di un passatempo dei vetrai tedeschi, che forse l’avevano appreso a loro volta da Nickel, lo spiritello malevolo delle miniere. Ma non era forse vero che l’Inghilterra era il centro del mondo, e che quello che in essa veniva portato per la prima volta, soltanto allora diventava importante? Così che da quel giorno, o un altro simile ahimé sconosciuto agli annali del tempo, la terribile “goccia” sarebbe diventata famosa come Prince Rupert’s Drop. Era un tempo di grandi Rivoluzioni quello, e nel contempo, enormi Rivelazioni. Persino, talvolta, inutili Ossessioni, in grado di trascendere la chiarezza del più puro destino. Destin, sapete chi è? No, non il concetto estemporaneo, ma la persona. Ovvero l’utente di YouTube a capo di quel format internazionale che è diventato il canale Smarter Everyday, orgoglioso padre di famiglia, personalità curiosa, individuo dai mille e più contatti nel mondo della scienza e tecnologia, che ormai da anni ci allieta con le sue improbabili sperimentazioni. Il quale, a partire dal dicembre scorso, sembra aver colto anche lui. Che come tutti gli americani, ha trovato una via specifica ed un calibro (anzi, diversi) per l’interpretazione dell’intera faccenda…

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La ragnatela di vetro che regge il mondo

Tutto inizia, volendo usare un punto di vista selettivo, dalla nostra penisola a forma di stivale. L’Italia, come paese, non ha un grandissimo numero di linee colorate. La ragione è da ricercarsi nella sua posizione geografica, che nella parte settentrionale la collega al grosso hub tecnologico dell’entroterra europeo. Eppure, anche noi ci difendiamo: ce n’è uno che unisce la penisola alla Sardegna. Ed un paio in Costa Azzurra, diretti verso il principato di Monaco e la Spagna. La Corsica, dal canto suo, giustamente risulta collegata soltanto alla Francia. La Puglia ne ha due, con ramificazioni verso l’Albania, la Croazia e la Grecia. Ma è soprattutto in Sicilia che le cose iniziano a farsi realmente serie: come un avamposto nel mezzo del Mediterraneo, l’isola triangolare è un punto d’approdo per l’AAE-1, 25.000 Km di autostrada sommersa, in fibre ottiche, rame ed acciaio, che giungono fino in India passando per il Mar Rosso, e da lì in Malesia, per incontrare altri cavi. Ce n’è soltanto una manciata, in tutto il mondo, in grado di rivaleggiare una tale imponenza. Vedi il più lungo in assoluto, di nome SEA-ME-WE 3, che partendo dalla Germania gira attorno alla nostra massa continentale, per poi raggiungere la Turchia, il Medio Oriente, le Filippine, il Giappone e l’Australia. O le letterali dozzine che s’irradiano dall’America, affrontando la sfida tradizionale dell’Atlantico o quella più recente, e complessa, del Pacifico verso le Hawaii e l’Asia. Prima che fossero costruiti, il mondo era soltanto un insieme di luoghi sconnessi che tentavano di comunicare attraverso il trasporto di pezzi di carta. Da quando ci sono, possiamo spingere un tasto e far ballare un gatto dall’altro lato del globo. In questa mappa prodotta per la testata del Business Insider, la grafica computerizzata e la musica da ascensore ci permettono di farci un’idea della disposizione complessiva di uno dei principali patrimoni della modernità, i nostri cavi per le telecomunicazioni appoggiati ai fondali marini (se dovete preferirla, ecco una versione interattiva ospitata presso il portale Telegeography). Letterali miliardi di dollari d’investimento e le lunghe ore di lavoro ed impegno, da parte degli uomini e donne di un industria che paga bene, ma risulta intrinsecamente e drammaticamente ignorata dalla collettività. Che pure, ne beneficia!
È un paradosso storico piuttosto pressante, quello che si propone di comparare gli avanzamenti tecnologici degli ultimi 100 anni, a quelli dell’ultima generazione o giù di lì. Perché se a medio termine troviamo la costruzione di jet supersonici, l’esplorazione dello spazio, la penicillina, i vaccini… Cosa abbiamo concluso, come categoria d’esseri sapienti, dall’invenzione di Internet? Praticamente null’altro, che potenziare Internet. Il che, del resto, non è un’impresa semplice come potremmo pensare. Perché ciò che occupa lo spazio virtuale risulta essere, per la nostra concezione immanente, un qualcosa di volatile, quasi immaginario. Mentre la realtà è che portare a destinazione i dati oltre una massa d’acqua, come attività, non è certo una delle più semplici a questo mondo. Né economiche: stiamo parlando di un investimento medio che può andare dai 100 ai 500 milioni di dollari per singolo progetto. L’importanza di un giusto approccio fu dimostrata inizialmente da Samuel Morse, col suo esperimento per far passare un cavo telegrafico attraverso la laguna di New York, operazione che ebbe successo unicamente grazie alla ricopertura di quest’ultimo con canapa incatramata e gomma naturale nel 1839. Ma la vera svolta sarebbe arrivata nel 1845, con l’impiego da parte di Michael Faraday e Charles Wheatstone di un nuovo materiale riportato in Inghilterra dall’India, la resina appiccicosa dell’albero di gutta-percha (Palaquium gutta) un isolante naturale che si dimostrò in grado di proteggere il potenziale elettrico del cavo all’interno attraverso miglia e miglia del fiume Reno, in Germania. Nel 1851, grazie all’opera del battello di nome Blazer della compagnia Submarine Telegraph, furono quindi proprio gli Inglesi a poter godere della risorsa di una linea di collegamento attraverso un braccio di mare ampio come la Manica, per meglio comunicare con la Francia e i Paesi Bassi. Come attività del resto, la posatura di linee di collegamento subacquee non fu mai particolare appannaggio degli Stati Uniti, semplicemente perché con il progressivo modificarsi del contesto socio-economico mondiale, e il successivo aumento dei commerci trans-oceanici, sarebbero stati piuttosto gli altri paesi del mondo, ad avere interesse a raggiungerli coi proprio cavi. Un mercantile che può comunicare con la madre patria, avrà informazioni chiare su cosa comprare ed a quale prezzo. Un ambasciatore sa cosa chiedere ed offrire. Una spia, può inviare il suo codice senza dare eccessivamente nell’occhio. I quali aspetti, a lungo andare, giustificavano ampiamente l’investimento…

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