Attenzione attraversamento cervi (in mezzo agli alberi sul grande ponte americano)

Era stato fatto notare a sua maestà il signore del branco, che ogni qualvolta occorreva girare attorno a una recinzione, generalmente le cose non andavano a finire bene per i membri del popolo cornuto della foresta. Così egli frenò le sue zampe, puntò in alto il muso e sostò per qualche attimo allo scopo di… Ponderare la situazione. Ma trovare alternative non era di sicuro il suo forte, né quello di alcuno dei suoi consiglieri, le sue mogli, la prole ansiosa di compiere il proprio destino all’ombra di un vespro carico d’incertezze per l’indomani. D’altra parte il Grande Viaggio Verso Meridione era ormai iniziato, e tornare indietro? Non era neppure immaginabile, per il costo che avrebbe avuto ai danni della sua piccola comunità itinerante. Allora il re calcolò l’altezza della rete, guardò la terra strana e piatta che si trovava all’altro lato di quest’ennesima barriera. Quindi, ricominciò a camminare ben sapendo che prima o poi, avrebbero trovato un’apertura. Succedeva sempre così. Osservò le strane luci che correvano a due a due, verso una destinazione non meno importante della sua. Creature irragionevoli, questo lo sapeva fin troppo bene! Ricordava il modo in cui il suo insigne predecessore, durante un attraversamento simile aveva finito per essere colpito dal grande bisonte di metallo, morendo pietosamente sul colpo mentre i suoi amici e familiari, terrorizzati, si bagnavano del sangue proveniente dal suo corpo proiettato a molti metri di distanza. Il vespro era vicino, ormai. Ecco giungere, dunque, quello che agognava tanto enfaticamente: un’apertura percorribile, ove andare incontro a conseguenze che era già state scritte nelle alte camere del ragno tessitore. Ma qualcosa, ebbe modo di capirlo quasi subito, non sembrava fare parte di una somma già nota. Perché l’erba continuava a estendersi oltre i limiti della barriera in filo reticolato? Cos’erano le alte siepi di cemento, ancor più invalicabili delle altre, costituite perpendicolarmente al punto di passaggio dell’asfalto portatore di condanna? Una sorpresa, di sicuro. Eppure non del tutto sgradita. Sua maestà il signore del branco fece un passo titubante, poi un secondo e infine prese nuovamente a muoversi con ritmo sostenuto. I suoi sudditi lo stavano seguendo. Sotto svariati metri di terra, i bisonti di metallo continuavano ad emettere il proprio infernale di minaccia verso prede irraggiungibili e remote.
Di sicuro avrete già sentito parlare di soluzioni simili, su scala decisamente più ridotta: canali di scolo allargati, per permettere il transito agevole di trote, o tartarughe. Punti appositamente lasciati liberi, nel guard-rail tra i boschi ombreggiati, affinché grossi animali possano passare oltre, in presenza di precise segnaletiche ed inviti a rallentare con gli autoveicoli di turno. Ma il problema di cervi, coyote ed orsi è che i loro cervelli non riescono a capire, i loro occhi non riescono a distinguere, i colori ed il funzionamento di un semaforo del tipo costruito dalla genìa degli umani. Alla stessa maniera in cui è per loro totalmente impossibile fare a meno di una certa liberta dei movimenti, al fine di spostarsi da un recesso a quello successivo delle terre funzionali alla propria sussistenza. Al punto da porre le basi di una sconvolgente stima pari a circa 2,1 milioni d’incidenti ai danni di animali sulle strade statunitensi nel corso del solo anno 2020, per non parlare degli oltre 20.000 feriti e ben 185 decessi umani. Questo non soltanto per il naturale tentativo di evitare l’impatto da parte di molti, con conseguenze spesso difficili da prevedere, ma anche l’effetto dell’investimento di un automobile che si sta muovendo a ritmo sostenuto di una creatura che può talvolta arrivare al peso di svariati quintali, che può altrettanto facilmente essere proiettata sopra il cofano e attraverso i vetri del parabrezza. Cifre niente affatto difficili da confermare, soprattutto nel corso degli ultimi anni, anche prendendo a campione la sola strada intestatale della I-90, importante arteria di collegamento tra le due coste degli Stati Uniti, capace di collegare i distanti centri abitati di Seattle (Washington) e Weston (Massachusetts) all’altro lato di un intero continente. Tragitto che attraversa molti “punti caldi” della vita selvatica e le sue importanti peregrinazioni, ma forse nessuno più strategico del passo di Snoqualmie, uno dei soli tre punti entro molte migliaia di chilometri capaci di costituire un collegamento tra le valli a settentrione e meridione del Cascade Range, non troppo lontano dall’omonima e caratteristica cittadina, dove vennero girate molte delle scene della serie Twin Peaks. Abbastanza cruciale, per automobilisti ed ungulati, da giustificare l’implementazione di una serie d’infrastrutture che potremmo definire a dire il vero alquanto risolutive…

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Cane che non mangia cane ma piuttosto, centinaia di migliaia di termiti al giorno

Non è sempre facile verso le ore del tramonto, sulla distanza, giungere a comprendere le vere proporzioni delle cose. O degli animali. Così scrutando l’orizzonte col binocolo, verso gli erbosi recessi di Zambia, Angola e Mozambico, può succedere di scorgere quello che sembra a tutti gli effetti una iena gradevolmente striata che si nutre dei rimasugli di una indefinibile carcassa animale. Chinando la sua testa con le grandi orecchie da pipistrello, una, due volte, il muso colorato di rosso per il sangue. Ma soltanto chi dovesse intrattenersi sufficientemente a lungo in tale osservazione, finirebbe per notare qualcosa di etologicamente inaspettato: che neppure in un singolo caso, lo spazzino carnivoro apre completamente la sua bocca, che non mastica, non strappa e non fagocita pezzi di carne. Preferendo, piuttosto, tirare fuori a un ritmo sostenuto la sua lunga e articolata lingua rosa eccezionalmente ruvida e corazzata, ancora e ancora. Siamo forse dinnanzi ad un fenomeno di vampirismo? Forse il mostro sta bevendo il sangue ancora tiepido della gazzella? Non proprio, o per lo meno, non solo. Poiché il pasto principale, in questo o un’altra grande quantità di casi, risulta essere piuttosto qualche cosa di assolutamente VIVENTE. Le larve di mosca, le uova, i vermi contenuti in quelle membra prossime alla putrescenza. E di sicuro, se questa fosse veramente una “semplice” iena, diversi altri aspetti finirebbero per suscitare un senso generale di straniamento. Trascorso un tempo sufficientemente lungo, un ratto delle canne dal peso approssimativo di 3 Kg entra casualmente nel raggio visivo dello spettatore. Completamente ignorato da quel potenziale predatore, gli gira attorno. Le sue vere proporzioni, a un tratto, appaiono evidenti: esso può raggiungerne in altezza una metà abbondante delle affusolate zampe. Questo perché l’insettivoro quadrupede misura, in effetti, non più di 50 cm al garrese. Più o meno come un cane di taglia medio-piccola che abita comunemente all’interno delle nostre case.
Eppure il nome comune che ad esso si riferisce, preso in prestito dalla lingua locale afrikaans, allude principalmente a due concetti: aardwolf (letteralmente: “lupo di terra”) finendo per assomigliare linguisticamente a un altro formidabile divoratore d’insetti, l’aardvark (“maiale di terra”) con cui condivide la massima parte della sua dieta. Costituita, nel presente caso del Proteles cristata, in larga parte di esponenti della famiglia Hodotermitidae prelevate direttamente dalla loro città di fango, consumate in quantità semplicemente spropositate. La mitologia vichinga parlava a tal proposito del grande lupo Fenrir, che secondo una profezia avrebbe ricevuto il compito di divorare il Sole negli ultimi giorni degli Dei e degli uomini. Una creatura che avrebbe potuto molto facilmente divorare interi eserciti nello spazio tra il tramonto e l’alba, il che potrebbe facilmente rientrare nella descrizione di una così piccola ed, almeno apparentemente, inoffensiva creatura. Secondo stime informate, largamente approfondite negli ambienti di studio, un singolo protele arriverebbe a trangugiare fino a un quarto di milione d’esapodi eusociali nel corso di una singola notte. Qualcosa di apocalittico e glorioso al tempo stesso, soprattutto per gli agricoltori che devono fare i conti quotidianamente coi problemi logistici presentati dall’improvviso palesarsi di un termitaio. Sebbene voglia il caso, ed è una triste contingenza, che la pessima reputazione posseduta dai suoi cugini “maggiori” porti a una crudele intolleranza anche nei confronti di questo atipico esponente dell’ordine dei carnivori, complice anche la poca conoscenza per la rarità in determinati territori. Tanto spesso cacciato o ucciso sul terreno delle fattorie, per la presunta quanto erronea idea che possa occasionalmente nutrirsi degli animali domestici contenuti all’interno di esse. Un errore niente meno che madornale: perché mai la suddetta creatura dovrebbe fare una scelta simile, quando un qualcosa di molto più dolce e nutritivo può costituire un pasto equilibrato, nutriente e soprattutto carico d’apocalittica soddisfazione… Secondo i ben precisi gusti alimentari della sua specie.

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Lo stravagante verso dei turaco, variopinti uccelli della foresta africana

Un valore che non figura particolarmente spesso nel novero dei comportamenti istintivi messi in atto da una creatura del mondo animale: l’altruismo. All’interno di una serie di circostanze, ed un ambiente di riferimento, in cui soltanto il più forte, scaltro ed attento può riuscire a sopravvivere contro le mosse reiterate di un Universo fondamentalmente ostile. Eppure nel tipo di relazioni mutualistiche capaci di determinare i rapporti inter-specie, esistono dei casi in cui un animale agisce in base a linee guida utili pere gli altri, senza trarne in cambio dei vantaggi particolarmente evidenti. È questo l’esempio offerto dal cosiddetto “uccello-scappa-via” o più semplicemente, da un’espressione onomatopeica, turaco. La cui analisi etologica non può prescindere dal lancio preventivo di un richiamo, tremulo e non sempre facilmente riconoscibile sulla distanza, per la marcata somiglianza alle grida di un gruppo di scimmie. Suono capace di mettere in evidenza l’incombente avvicinarsi di un predatore, permettendo in questo modo a chi lo sente di restare all’erta, e potenzialmente, fuggire via per tempo all’interno della propria tana. Un gesto utile per tutti (salvo il carnivoro affamato) ma che non parrebbe sufficientemente giustificata dal comportamento collettivo di uno di questi gruppi di fino a 30 sgargianti musofagidi, precedentemente ritenuti imparentati con i cuculi o persino l’hoatzin (Opisthocomus h.) bizzarro pennuto maleodorante dell’America meridionale. Il che pone interrogativi niente affatto trascurabili, quando si considera la natura endemica di questi arguti volatori del continente africano, rappresentando nei fatti uno dei pochi esempi di uccelli originari di quel particolare recesso geografico. Come avrebbe fatto, dunque, un uccello non-migratore e dotato di ali relativamente piccole, ad attraversare l’Atlantico in un’epoca successiva alla scomparsa di alcun ponte di terra percorribile, come dimostrato da un fossile piumato scoperto nel 1982 in Wyoming? Difficile immaginare punti di partenza maggiormente misteriosi, per analizzare questo amichevole genere di creature, tra le poche in grado di rivaleggiare nei colori alla ben nota ed apprezzata genìa dei pappagalli.
Prendiamo, per esempio, il turaco dalla cresta rossa (T. erythrolophus) dell’Angola, considerato l’uccello nazionale di quel paese. Un volatile di 45-50 cm, paragonabile ad una versione più smilza ed agile di un piccione, caratterizzato a differenza di quest’ultimo dalla più sgargiante e memorabile delle livree: una testa bianca incoronata da piume vermiglie, cui fa seguito il corpo verde lucido come quello di un coleottero, che sfuma gradualmente verso la blu di un color blu intenso. Qualcosa che richiama non soltanto, per la strana legge delle coincidenze, i colori della bandiera italiana, ma anche l’ideale immagine che potremmo custodire nella nostra mente per un uccello fiabesco o leggendario, convenientemente trasferito in un formato facile da maneggiare, ed accudire qualora se ne presenti l’opportunità. E non a caso, i turaco risultano tra gli uccelli più comuni all’interno degli zoo di tutto il mondo, intrigando i visitatori con le loro tonalità cangianti e tanto distintive, tra le caratteristiche capaci di motivarne l’inserimento in uno dei due soli ordini di volatili creati dall’evoluzione entro i vasti confini d’Africa, assieme ai Coliidae o uccelli topo. Dal che deriva la primaria conclusione raggiunta mediante l’analisi chimica del loro organismo, che dimostra caratteristiche capaci di concretizzarsi esclusivamente in quel particolare luogo di tutta la Terra…

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La vecchia teoria dell’albero che aveva bisogno del dodo per proseguire la propria specie

Era il 1973 quando l’ornitologo dell’Università del Wisconsin, Stanley Temple notò un gruppo d’alberi molto particolari durante un’escursione nell’entroterra delle isole Mauritius. Alti e contorti, dal tronco fibroso formato da una serie di steli attaccati l’uno all’altro in maniera non dissimile dal banano, quasi come fosse un’amalgama di piante differenti. Confrontando un tale vista memorabile coi resoconti degli abitanti locali e la documentazione di cui poteva disporre, quindi, non ci mise molto ad attribuire un nome alle 13, stranissime piante: doveva trattarsi di un raro gruppo di tambalocoque o albero calvaria (Sideroxylon grandiflorum) un rappresentante della famiglia delle sapotacee tenuto un tempo in alta considerazione per la durezza del suo legno. Nonché legato a uno stereotipo secondo il quale, essendo diventato progressivamente più raro attraverso i secoli, il suo ciclo vitale traesse fondamentale beneficio dall’assistenza di un particolare uccello, noto alle cronache come il dodo o dronte. Figura particolarmente nota nel senso comune, col suo poderoso becco e le piccolissime ali, il cui primario ruolo ecologico avrebbe potuto fare ben poco per salvarlo dai marinai dell’epoca delle grandi esplorazioni, che ben presto diventarono soliti ucciderlo per farne un banchetto degno del giorno del Ringraziamento, oppure catturarlo e mantenerlo in vita sulle navi per qualche tempo, per diversificare occasionalmente la ripetitiva dieta dell’equipaggio. Effettuando una stima soltanto approssimativa sulla durata della vita di tali alberi, data l’assenza di cerchi da contare all’interno del loro fusto plurimo, Temple si convinse quindi che dovessero avere un’età superiore ai 300 anni, antecedente all’inevitabile estinzione del grande e compianto uccello. Dal che fu soltanto naturale, per lui, ipotizzare un qualche tipo di relazione mutualistica tra la specie animale e quella vegetale, come dal soprannome indigeno della pianta utilizzato localmente di “albero del dodo” dal cui derivava la problematica situazione che si capace di dipanarsi nel proseguire dei tempi odierni. Poiché girando pedissequamente l’intero arcipelago, l’ornitologo non avrebbe purtroppo trovato altri esempi di alberi del tambalocoque, giungendo a convincersi che il gruppo precedentemente oggetto delle sue annotazioni fosse l’unico rimasto su questa Terra. E che non avrebbe mai più potuto continuare ad esistere, senza l’assistenza del suo non-volatile e compianto alleato!
Egli aveva infatti una teoria ben precisa su quale potesse essere, nella realtà dei fatti, la principale origine del contrattempo: possibile che la durissima scorza del frutto di questa pianta, fino a 10 volte più resistente del guscio di un anacardio, fosse in effetti la ragione del suo basso grado di successo riproduttivo? Dal che deriverebbe come fondamentale condizione sine-qua-non, nella propagazione riuscita dell’albero, un passaggio all’interno del sistema digerente di un grande uccello ed in particolare il ventriglio, la parte pilorica dello stomaco in cui tali esseri sono soliti tenere una certa quantità di sassolini, utili a massimizzare la triturazione dei bocconi preventivamente ingeriti, non importa quale potesse essere la loro coriacea resistenza. E nel corso di un tale processo, scorticare tra le altre cose quelle impenetrabili noci, creando una situazione paragonabile a quella del cosiddetto frutto dell’elefante africano (Omphalocarpum elatum) che diventa maggiormente propenso a germogliare se fa il suo ritorno alla terra assieme alle feci dell’eponimo animale. Un appartenente anch’esso, non a caso, della stessa famiglia delle sapotacee, gruppo di alberi particolarmente inclini a trarre beneficio da una tale tipologia di mutualismo. Dopo un primo attimo di smarrimento, dunque, il convinto seguace del metodo scientifico pensò di fare un esperimento…

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