La porzione avanzata del reggimento sovietico di Cavalleria Mongola Meccanizzata si dipanò dinanzi agli occhi di Tetsuo all’interno della valle del fiume Tumen, nella calda estate del 1945. Dozzine di carri armati, pezzi d’artiglieria, cannoni semoventi, accompagnati da una fila interminabile di uomini armati con fucili, mitragliatrici ed armi anticarro. Scrutando innanzi dall’angusta fessura del suo veicolo di fabbricazione tedesca, egli comprese come i suoi connazionali a Port Arthur avessero soltanto un’ultima possibilità di evacuare con successo il Kwangtung, sotto il comando del generale Otozo Yamada: un bombardamento strategico dei treni di rifornimento, possibilmente in grado di coinvolgere anche il munizionamento nemico. Una mansione possibile soltanto mediante l’identificazione precisa del punto da colpire, mediante l’accensione di un enorme faro notturno, l’ultimo fuoco d’artificio da lanciare prima dell’abbandono definitivo della speranza. A quel punto Tetsuo, stingendosi la fascia con il Sol Levante, osservo per un’ultima volta la foto della sua cara Asahi sopra il pesante contenitore d’esplosivo, verso l’alba splendente oltre l’oscurità di un mondo che non il significato del termine “speranza”. Egli sapeva fin troppo bene come l’armatura sottile del Kugelpanzer non avrebbe potuto resistere al fuoco sostenuto di un fronte di battaglia. Ma se tutto fosse andato secondo i piani, non ci sarebbe stato neanche la necessità di farlo; poiché un simile strumento di battaglia, rispetto a quelli nemici, aveva un vantaggio molto significativo: il rotolamento. E una capacità di movimento che mai nessuno, prima di allora, si era trovato ad affrontare. Nessun grido, né ultime declamazioni roboanti…Non ancora; “Lunga vita all’Imperatore, vendetta per lo spirito dei samurai.” Pronunciò tra se e se il soldato, preoccupato di attirare attenzioni indesiderate. Quindi con un colpo volitivo all’acceleratore, mano ferma sul manubrio, spinse innanzi quella sfera fino al punto di non ritorno. I cinque chilometri orari possibili lungo la strada orizzontale furono ben presto superati. Quindi i 10 e i 15, mentre la sella sopra cui era posizionato s’inclinava minacciosamente da una parte all’altra, lungo la scarpata in bilico sugli orizzonti di gloria. Il suono roboante del rotolamento continuava ad aumentare, quando grida riecheggiarono distanti e quale primo sparo, incerto, all’indirizzo dell’oggetto totalmente privo di precedenti. Foglie ed erba crearono un turbinìo vorticante. Gli occhi incollati alla stretta fessura di guida, Tetsuo fece il possibile per controllare la valanga, schivando prima uno, quindi due e tre forme corazzate, probabilmente appartenenti ad altrettanti T-34 o simili dispositivi corazzati. Adesso, è il momento, Tenno Heika Banzai! nell’attimo finale, non ci fu tempo di pensare ad altro che la posizione del pulsante d’innesco, e che il sommo spirito di tutti i Kami guidasse le bombe all’indirizzo del fondamentale bersaglio, temporaneamente illuminato dalle fiamme. Giunti a quel punto, non è possibile trovare un posto garantito tra le pagine della storia. Ma questo fatto, ormai da tempo, era riuscito ad accettarlo. Poiché c’era un’altra sfera, pronta a compiere l’estremo sacrificio se la sua missione non avesse raggiunto l’obiettivo desiderato. Dopo tutto, ogni palla deve avere il suo compagno.
Di sicuro, potrà sembrarvi ragionevolmente improbabile. Ecco perciò qualche altro possibile utilizzo per uno degli oggetti più bizzarri che i lunghi anni di guerra fossero riusciti a produrre: una postazione semovente di difesa (ma troppo vulnerabile) un veicolo di perlustrazione (ma troppo lento) un mezzo di avvistamento per l’artiglieria dotato di radio a bordo (ma troppo rumoroso). E così via, a seguire. Il semplice fatto che il carro armato tedesco sferoidale, il ragionevolmente iconico Kugelpanzer, sia fuoriuscito in un momento indefinito dalle fabbriche della Krupp sarebbe stato già abbastanza sorprendente. Se non fosse per il fatto che qualcuno, per ragioni poco chiare, aveva dato istruzioni di caricarlo sopra un treno e trasportarlo fino in Estremo Oriente, dove i sovietici lo ritrovarono durante le fasi culmine della campagna d’Oriente, all’interno di un deposito giapponese. Possibile che tutto ciò costituisse unicamente un errore? Chi aveva mai pensato che una cosa simile potesse servire a qualcosa, e perché?
Stati Uniti
La storia e lo stato della Cliff House, iconica dimora sugli scogli di San Francisco
Camminavo pensierosamente tra le sabbie di un famoso lungomare, quando vidi l’alta forma all’orizzonte. Come un alto castello medievale, posto in posizione irraggiungibile, sovrastando il feudo del suo signore. Mentre nella solitudine della foschia mattutina, gli unici soggetti di quei bastioni parevano appartenere al silenzioso gruppo di leoni marini, adagiati lietamente sulla roccia che sporgeva dal pelo antistante dell’Oceano Pacifico, intento a sussurrare il suo richiamo al loro posto. Quanti segreti albergano all’interno, dietro gli occhi di quell’alto maniero ormai da tempo privo di utilizzatori… Ma per sempre vivo nella mente di chi ne ha visto gli anni migliori, pranzando e cenando in un lieto convivio, al suono dell’organo meccanico posizionato nel suo vasto salone. Come fosse una balena la cui bocca si è ormai chiusa per l’eternità, mentre si trova in bilico tra questo mondo e quello successivo.
Le ossa, queste antiche ossa sbiancate dal mare: c’è del potere, nei ricordi di un luogo e le vicende che si sono susseguite al suo cospetto, come una certa quantità di naufragi. Il cui fasciame risultante, sulle generose spiagge di San Francisco, sarebbe stato ritrovato in base a una leggenda metropolitana dal giornalista e uomo d’affari mormone Samuel Brannan, il quale avrebbe deciso di farne la sua dimora sulla cima del pendio roccioso antistante… Una storia che, nonostante sia datata al 1858, sarebbe sempre risultata particolarmente difficile da confermare. Ciò che è certo, invece, è che dopo soli 5 anni in tale luogo sussisteva un edificio, di proprietà del senatore degli Stati Uniti John Buckley, che aveva adibito quelle mura alla mansione di locanda. Un punto di ristoro, dalla semplice struttura quadrangolare e il tetto spiovente, creato assai lontano dal centro pulsante cittadino, con lo scopo dichiarato di accogliere gli escursionisti, i cacciatori e i taglialegna che solevano percorrere la costa del Pacifico in determinate circostanze della loro quotidianità desueta. In una quantità destinata unicamente ad aumentare, con la costruzione della strada a pedaggio antistante nel 1877 e l’inaugurazione del vicino Golden Gate Park, dai 1.017 acri di verde pubblico a disposizione della popolazione locale. Fu in questo periodo ed in tale guisa, che l’affascinante struttura assunse tutte le caratteristiche di un ottimo investimento, prontamente individuato da un altro grande capitalista ed inventore della storia americana: niente meno che Adolph Sutro (1830-1898) già responsabile dell’ingegnoso marchingegno utilizzato per svuotare d’acqua la redditizia miniera d’argento di Comstock Lode, in Nevada. Il quale diventato sindaco di San Francisco nel 1894, pensò bene di riuscire a celebrare quel traguardo tramite la costruzione di un qualcosa di straordinario, persino monumentale nella sua apparenza. Come un letterale chalet in pieno stile vittoriano dell’altezza di 7 piani, costruito proprio sul terreno che era un tempo appartenuto a Buckley. Una struttura sproporzionata, quasi surrealista, tale da attirarsi non poche critiche da parte degli artisti ed intellettuali locali perché dolorosamente “fuori posto”, benché non tutti condividessero tale opinione largamente soggettiva. Cosa c’è di fondamentalmente spiacevole, d’altra parte, in una cittadella fatata che ti osserva, e può essere osservata dal basso in alto? Il che non fu giudicato, alquanto prevedibilmente, ancora abbastanza da Sutro, il che lo avrebbe portato nel giro di qualche mese ad ultimare la sua seconda regalìa nei confronti della brava gente di San Francisco. L’equivalente moderno di una basilica termale dei tempi degli Imperatori Romani…
Videografo riassume 10 anni di tempeste nel polveroso stato dell’Arizona
“Non c’era nessuno in città, e nessuno nei campi. Questa terra desolata aveva dato tutto quello che poteva…” Cantavano i Mumford & Sons nella loro Ballata del Dust Bowl, con riferimento tutt’altro che velato ad uno dei più grandi disastri ambientali nella storia degli Stati Uniti contemporanei. Il momento storico iniziato nel 1931, e terminato quasi 10 anni dopo, durante cui l’accumularsi di tecniche agricole e processi di sfruttamento inadeguati le vaste pianure del meridione diventarono terreno dannatamente fertile per un diverso tipo di fenomeno. Quello mostrato nel famoso documentario cinematografico del 1999 “La mummia” in cui l’espressione iraconda del faraone rimasto empiamente attaccato alla vita Imhotep, interpretato da Arnold Vosloo, compariva in un muro di polvere capace d’inseguire la jeep di Brendan Fraser e gli altri eroi al seguito, lasciando dietro di se soltanto una scia di soffocamento e devastazione. Togli quindi l’elemento sovrannaturale, frutto dell’umano desiderio di sdrammatizzare, e quello che resta è il surreale episodio dello haboob, parola in lingua araba che deriva per l’appunto dal verbo che significa “soffiare” o “bersagliare” di sabbia, offrendo un chiaro indizio in merito al drastico dipanarsi di un tale risvolto climatico all’inizio della fine. Che così elegantemente possiamo apprezzare, nell’antologia gentilmente offerta dal popolare fotografo dei timelapse di Phoenix (Arizona) Mike Olbinski, nell’anniversario del suo primo grande successo virale online, rivelatosi capace di cambiare ed agevolare sensibilmente il corso futuro della sua carriera. Associando il proprio nome, precedentemente specializzato in matrimoni e foto di famiglia, alla complessa e qualche volta pericolosa attività d’inseguire i sommovimenti atmosferici di questa Terra, documentandone l’eccezionale aspetto esteriore per il vasto ed eterogeneo pubblico dei suoi molti fans. Così come fatto in quell’epocale 5 luglio del 2011, quando il più eccezionale conglomerato di microparticelle accompagnate da una possente scarica di vento minacciò d’inghiottire completamente la città natia, in un perfetto esempio di quella che non a caso viene definita la “tempesta nera” così come sarebbe stato catturato dalla telecamera sapientemente posizionata sul davanzale della finestra di casa sua. E sebbene i conseguenti canali social di un simile creativo, tutti riconducibili alla stessa visione e tipologia d’offerta, si sarebbero progressivamente popolati di una vasta quantità di fenomeni, tra cui temporali, supercelle, uragani, tornado e cumulonembi particolarmente attraenti, sarebbe sempre rimasta la tempesta di polvere a costituire un fedele pilastro della sua poetica. Come rappresentazione maggiormente fedele dell’apocalisse incipiente, cui l’unica reazione logica è fermarsi e mettersi al riparo. Per le conseguenze tutt’altro che trascurabili, e spesso non così note, che simili nubi possono avere sulla salute dei polmoni umani…
Trascorsi 40 anni, l’atteso ritorno dell’auto così lunga che ancora non aveva lasciato il box
Nella mitica confederazione di Om, la fine dell’educazione scolastica era considerata molto più che un semplice periodo nella vita di una persona. Quando esattamente 123 giorni prima della Cerimonia del Lancio dei copricapi di forma quadrangolare sotto la bandiera del Futuro Radioso, i giovani rampolli si riunivano nella preparazione della Serata Alcolica Danzante, un prezioso momento d’interscambio la cui origine tendeva a scomparire nei recessi misteriosi del tempo. Fatta eccezione per la storia propedeutica di Euridyce e John Smith, lei migliore oratrice e valedictorian della sua classe, lui campione centroavanti nell’antico gioco della Palla Ovale, che nel secondo anno della 36° Presidenza si trovarono sotto l’albero del pero, dando inaspettatamente inizio ad una lunga e prosperosa dinastia. Si dice, in certi ambienti, che svariate bevande alcoliche abbiano giocato un ruolo in tale contingenza. Ma poiché le circostanze del loro incontro amoroso furono registrate nelle cronache come “scomode” ed “anguste” la leggenda vuole che a seguito di quel giorno, nella confederazione di Om sia nata un’importante tradizione: la costruzione di carrozze sufficientemente lunghe, da poter accogliere due bisonti sdraiati uno di seguito all’altro. O alternativamente, il corpo di una sacra anaconda senza costringerla a più di un’ansa o due nell’interspazio tra la testa e la coda screziata. Giungendo qualche volta a tali eccessi che lo stesso mezzo di trasporto lungo oltre due dozzine di cubiti, di suo conto, finiva per protendersi irrazionalmente all’Infinto. Prolungando con il suo passaggio la dolcezza insostituibile di quei momenti.
Col trascorrere degli anni, quindi delle decadi, le storie dei nostri Padri tendono ad appesantirsi ed affondare nel grande fiume della Storia. Ma i segni archeologici tangibili rimangono, all’interno dei parcheggi abbandonati, come un monito importante di quello che era, o ciò che nuovamente potrà essere grazie all’allineamento delle stelle nella volta scintillante dell’Universo. Strano, ma vero: l’oggetto che per oltre 4 decadi, riuscendo a passare miracolosamente inosservato, è rimasto ad arrugginirsi sul retro di un magazzino nel New Jersey, senza che a nessuno importasse attribuirne l’effettiva provenienza. Tale da collegarlo, come opera autorale certificata, allo stesso individuo responsabile di mezzi di trasporto iconici come l’automobile dei Dukes di Hazzard, il Generale Lee, la Ford Gran Torino di Starsky & Hutch, KITT di Supercar, la DeLorean di Ritorno al Futuro ed almeno tre generazioni successive di Batmobile dell’uomo pipistrello. Ovvero lui, Jay Ohrberg il creatore di automobili praticante di quel tipo di professione, così specifica e rappresentativa degli Stati Uniti, da non riuscire a immaginarne l’equivalenza in alcun altro recesso del globo terrestre. Poiché consistente nel prendere qualcosa di già fatto e finito, come sette pregevoli automobili Cadillac Eldorado, poi tagliarlo a pezzi e rimescolarne i connotati. Fino alla creazione di un esemble semovente, al cui cospetto il mostro di Frankenstein costituiva poco più che una semplice prova pratica di fattibilità, attraverso la lente più immediatamente comprensibile dell’anatomia umana. Perché volete mettere? In questo mondo esiste il lusso. Ed il prestigio di arrivare a bordo di un automobile allungata fino alla notevole misura di edificio di 9 piani…