Tutti nello spazio a poco prezzo, usando la centrifuga di una startup californiana

L’approfondita descrizione biblica della faccenda, come un duello tra individui che rappresentavano le rispettive civiltà: da una parte il gigantesco guerriero filisteo Golia in armatura pesante, dall’altro il giovane pastore armato soltanto di una delle più primitive, eppure brutalmente efficaci tra le armi a distanza. Che reinterpretato con la lente del trascorrere dei plurimi millenni, ci conduce con chiarezza fino a un cambiamento radicale delle forze in gioco: da una parte quel diverso tipo di colosso, da una scala molte volte superiore, che gli antichi definivano Atlante. E dall’altra l’uomo che per tanto tempo, sembrerebbe aver usato un tipo di approccio non completamente adeguato. Quello di un missile, pieno di carburante, in grado di spingere se stesso fino alle propaggini ulteriori dell’atmosfera. Ma poiché il tipo di barriera gravitazionale frapposta dal colossale avversario innanzi a tale orpello è tanto solida ed impenetrabile, ciò ha sempre comportato un’ampia serie di problemi e considerazioni. Tra cui quella della celebre equazione del razzo, secondo cui più aumenta il peso di quest’ultimo (e il suo carico) tanto più dovrà essere aggiunto al suo interno del carburante. Incrementando ulteriormente, in una feedback totalmente negativo, il peso e il contenuto del mezzo in questione. Il che permette d’immaginare, in un universo in cui le leggi della fisica ci fossero maggiormente amiche, un tipo di veicolo spaziale che scaraventato da una forza significativa nel momento della sua partenza, potesse procedere fino a destinazione soltanto, o quasi unicamente, grazie all’inerzia di quel momento. Riducendo esponenzialmente peso, costi e tempo necessario a implementare ciascuna partenza.
Un’idea, in realtà, non totalmente nuova e che ha già visto tentativi di realizzazione con approcci per lo più sperimentali della NASA statunitense, a partire dal Progetto di Ricerca HARP (High Altitude R. P.) degli anni ’50 e ’60, per la creazione di un cannone in grado di scaraventare il suo proiettile oltre i confini dell’atmosfera terrestre. Un’idea interessante ma fondamentalmente limitata, che venne infine abbandonata almeno fino al concept meramente teorico del 2010, per un acceleratore di massa su rotaie che potrebbe ipoteticamente instradare un piccolo velivolo verso i recessi più vicini dello spazio esterno. Eppure serpeggiava, fin da allora, la prudente idea che fosse possibile fare di meglio, come infine dimostrato a porte chiuse da un sincero visionario della costa Ovest, l’imprenditore ed ingegnere aerospaziale Jonathan Yaney, che dopo aver lavorato per qualche tempo nell’azienda per la creazione di atlanti ad energia solare del fratello, finì per concepire un suo sentiero d’accesso alternativo ai finanziamenti: l’ingresso a pieno titolo nelle schiere sempre più affollate dell’esplorazione cosmica da parte di privati, tramite l’impiego nel suo caso di una macchina decisamente diversa dal normale. Denominata, come l’impresa stessa, SpinLaunch (Partenza… Rotante?) proprio per la somiglianza concettuale all’arma del sopracitato israelita, consistente di un oggetto che ruota vorticosamente attorno ad un punto centrale. Prima di essere improvvisamente rilasciato, procedendo di gran carriera verso una destinazione distante. La testa del duellante nemico, un bersaglio appeso a un albero, persino la Luna. Ogni cosa diventa possibile, grazie alla tecnologia…

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Il riflesso argentato di tre grandi biglie inviate a rotolare nell’orbita terrestre

Forse uno degli oggetti più notevoli ad aver mai trovato collocazione all’interno di un hangar avrebbe fatto la sua comparsa in una struttura designata in quel di Weeksville, North Carolina, nell’inverno del 1964. In maniera totalmente inaspettata e improvvisa per tutti coloro non fossero stati coinvolti direttamente nella sua preparazione, quando un pallone in poliestere riflettente della massa di 256 Kg sarebbe stato riempito d’aria con un ritmo sostenuto, fino all’ottenimento di una sfera perfetta dal diametro di esattamente 41 metri. Argentata e magnifica, svettante come una sorta di manufatto alieno fuori dal contesto frutto di un contatto interdimensionale segreto, essa costituiva nella realtà dei fatti un oggetto dalla chiara funzionalità pratica, frutto di un piano ben preciso ed attentamente pianificato. Con radici risalenti ad almeno 6 anni prima, quando nel corso di un incontro sul tema dei satelliti per le telecomunicazioni l’ingegnere John R. Pierce, della compagnia telefonica Bell, ipotizzò l’eventualità d’impiegare un oggetto costruito dall’uomo come riflettore passivo per i segnali audio e video, permettendo ai relativi segnali di oltrepassare il bordo della curvatura terrestre. Idea che piacque a tal punto, in modo particolare al direttore del Jet Propulsion Laboratory californiano William H. Pickering, che entro il mese di ottobre di quell’anno venne designato dall’esercito statunitense un gruppo di tecnici incaricati di trasformarlo in realtà. Nel frattempo il JPL era passato sotto il controllo del nuovo ente governativo della National Aeronautics and Space Administration (NASA) ed aveva avuto inizio, formalmente, il programma spaziale degli Stati Uniti.
Reduci dell’esperienza dello Sputnik-1 sovietico, mandato in orbita nel 1957 ed un’intero anno prima dell’Explorer-1 americano, la superpotenza occidentale non aveva la benché minima intenzione di essere raggiunta o superata anche nel campo delle telecomunicazioni condotte mediante oggetti sospesi nello spazio cosmico esterno. E fu così che entro il 1960, il prototipo del cosiddetto progetto Echo, numero Cospar internazionale 6000901 fu pronto; il suo diametro era pari a 30 metri ed il materiale costituente, come quello dei successivi modelli, costituito principalmente in polietilene tereftalato (PET) schiacciato ed espanso, fino al punto di costituire una membrana spessa, flessibile e resistente. Una soluzione altrimenti identificabile con il suo nome commerciale di Mylar, che oltre alle caratteristiche strutturali presentava anche la dote niente affatto trascurabile di una colorazione argentea resistente al vuoto cosmico, idealmente perfetta per la realizzazione del fine originariamente auspicato. Come desumibile dal nome dei satelliti in questione, l’idea fondamentale era quella di utilizzare la grande sfera come una sorta di riflettore catarifrangente, capace non soltanto di restituire la stragrande maggioranza della luce ricevuta dall’astro solare, ma anche il 97% stimato delle microonde frutto dei segnali radio terrestri. Forse il modo più semplice e funzionale di far rimbalzare una trasmissione, se non che il più grave dei contrattempi si trovava purtroppo in agguato. Quando il 13 maggio del 1960, a causa di un problema con il razzo usato per portarlo in orbita del veicolo Thor-Delta, il pallone finì per ricadere nell’oceano Atlantico, dove per quanto ne sappiamo giace tutt’ora. Il che avrebbe certamente costituito un contrattempo eppure, nulla più questo…

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Drone mostra che per navigare a vela l’elemento umano può essere del tutto facoltativo

L’integrazione di automatismi nei processi collegati alla navigazione umana è un utile sentiero già percorso da diverse decadi, sebbene l’utilizzo di un’imbarcazione a vela sembri inerentemente interconnesso all’intervento, continuativo e reiterato, di un vero equipaggio con ben chiari accorgimenti e procedure necessari a mantenere il proprio punto d’approdo al centro della rotta predefinita. Ciò che la tecnologia rende possibile, di questi tempi, è tuttavia non solo superare tali limiti procedurali, bensì creare la realtà tangibile di uno scafo connotato da avanzati presupposti di autonomia, al punto da poter decidere di sua totale iniziativa il come e il quando di ciascun preciso intervento su comandi finalizzato a una manovra, al di fuori di un generale obiettivo definito a priori da coloro che hanno dato inizio alla tratta stessa. Un Saildrone in altri termini, intelligente robot dell’oceano, costruito sulla base di precise cognizioni provenienti da un settore non del tutto pertinente. Come sarebbe lieto di raccontarci con chiaro entusiasmo lo stesso Richard Jenkins, ingegnere, pilota ed avventuriero responsabile di aver stabilito nel 2009 il record di velocità su terra di un veicolo a propulsione eolica, il suo yacht su ruote Greenbird, capace di raggiungere agevolmente i 202 Km/h.
Mezzo il cui profilo distintivo, costituito da una vela rigida più simile ad un’ala verticale, con tanto di coda direttamente importata dal mondo aeronautico, ricompare a pieno titolo nella sua flotta di natanti, costruita e immessa sul mercato a partire dal 2013, anno corrispondente al varo dell’SD 1, ovvero il capostipite di questo nuovo, rivoluzionario approccio all’idea. Che la startup californiana portatrice di quel nome fosse in grado di assolvere al principio di mettere in mare un qualcosa d’indipendente e in grado di assolvere ad un’ampia varietà di missioni. Potendo garantire, nel contempo, l’assoluta aderenza ad ogni presupposto di economia nel funzionamento e l’impatto ambientale del suo passaggio. Il che risulta del tutto conforme, piuttosto che un ostacolo da superare, nella congiunzione di fattori e caratteristiche inerenti del mezzo, in cui ogni minimo elemento collabora alla massima efficienza del suo utilizzo. Se così vogliamo definirlo, quando la cabina di comando è situata in tutta sicurezza sulle coste di un distante continente, al fine di raccogliere la ricca selezione di dati e rilevamenti provenienti dall’antenna satellitare facente parte del corredo di bordo. Questo perché il Saildrone, per sua esplicita missione programmatica, costituisce primariamente un vascello di tipologia oceanografica, ovvero finalizzato all’agevolazione di studiare approfonditamente le caratteristiche degli Oceani terrestri. Il che, dopo tutto, ha senso: se si dice che simili recessi della Terra sono ancora meno noti delle stelle cosmiche, da noi avvicinate già più volte tramite l’impiego di sonde autonome ed alimentate dall’inerzia e l’energia solare. Perché non cercare di trarre vantaggio, dunque, più o meno dallo stesso approccio a partire da un diverso tipo di (non-spazio) porti?

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Ammirando il preciso veicolo che rovescia fiumi di fuoco in prossimità della fornace

Il giro dei turni si concluse. Ma per quanto un simile scenario fosse atteso, persino inevitabile, nessuno avrebbe mai potuto preparare Harley all’esperienza sul finire della pausa pranzo, di offrire il caffè ai colleghi di lavoro nel bar in piazza poco distante dall’ufficio dove aveva cominciato a lavorare la settimana scorsa. Non per il semplice gesto di pagare il conto, chiaramente, bensì la fondamentale tradizione secondo cui doveva essere il prescelto, di volta in volta, a trasportare il vassoio con cinque tazzine piene fino al tavolo fuori la porta, dove gli altri lo avrebbero ricompensato con una grandine di sentiti e sinceri ringraziamenti. Harry mise quindi la cravatta dentro, poco dopo aver abbottonato ogni singolo bottone della giacca. E con un gran respiro, sollevato il carico fumante, iniziò a spostarsi con un moto lineare ed uniforme. Ora un piede innanzi all’altro, mentre il fluido scuro ondeggiava pericolosamente in prossimità del bordo dei recipienti. Egli si prefigurava molto bene, persino troppo chiaramente, cosa sarebbe potuto accadere in caso di un suo errore in tale contingenza: ogni presupposto di cameratismo rovinato, una carriera stroncata sul nascere, l’annientamento umano e professionale della sua figura ancor prima di aver imparato tutti i loro cognomi. Così quando uno degli avventori in fila alla cassa si spostò improvvisamente di lato, urtandolo distrattamente, spostò agilmente il peso sulla gamba destra, nel disperato tentativo di salvare la giornata. Se si versa… Ci saranno conseguenze. Se si versa, è la fine.
Trasferendo quindi tale contingenza, come può talvolta capitare, all’ambito del tutto quotidiano di un sito di fabbricazione metallurgica dell’industria contemporanea, la faticosa esperienza di Harry può essere individuata in quella del pilota designato del cosiddetto Slag Pot Carrier, un tipo di veicolo dal peso approssimativo di appena 90-140 tonnellate. Almeno finché, nel fondamentale esercizio delle sue funzioni, non si trovi a sollevare l’imponente recipiente refrattario entro cui si trova un tipo particolarmente indigesto di caffè. Per non dire addirittura incandescente. Apocalittico eppure appetitoso, a suo modo. L’efficace risultanza del processo di raffinazione dei metalli più o meno ferrosi, in gergo definito, per l’appunto, slag. In altri termini una cosa inutile, se vogliamo attribuirgli un aggettivo, che può d’altra parte ancora assolvere ad almeno un paio di funzioni. Che includono, procedendo a ritroso nella progressione logica degli eventi, il riciclo come materiale economico per edifici e manto stradale, a seguire dell’esecuzione di un possente, catastrofico spettacolo generalmente molto amato da coloro che lo osservano a distanza di sicurezza.
Potremmo definirlo pirotecnico, in un certo senso. Se non fosse l’assoluto opposto della tecnica, consistendo essenzialmente nella semplice sversatura meccanica della pentola argillosa all’interno di un irto fossato. Che poi diventi gradualmente un pendio, percorso dalle venature laviche di un così diverso tipo di vulcano. Ed infine, il crepaccio delle umane circostanze, tanto estreme quanto inevitabili fino all’ottenimento dell’infuocata corrente…

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