Occhi gialli nel tombino che appartengono all’alligatore


Sembra ci sia un’ottimo motivo, se nel grande classico horror di Stephen King prossimo al remake, It (la cosa) il clown alieno trasformista Pennywise ha scelto di annidarsi nelle fogne della fittizia cittadina Derry, nel Maine. Perché se avesse scelto, invece, di dirigersi nel meridione, presso la penisola assolata della Florida, avrebbe ritrovato il territorio già occupato da qualcuno… Di altrettanto terrificante, a suo modo. Siamo qui ad Apopka, nel centro e l’entroterra dello stato, non troppo distante da Orlando, dove Louis Camacho, camminando allegramente nel vialetto di casa, aveva percepito all’improvviso un qualche tipo di misteriosa vibrazione nel terreno. Che lo indusse senza falla, pressapoco attorno allo scorso dicembre, ad inchinarsi sulla strada, e insinuarsi con lo sguardo per scrutare nel grande spazio aperto per lo scarico dell’acqua piovana. Soltanto per scoprire che la fonte della strana sensazione, alquanto incredibilmente, era il sibilo di un animale. Intento a difendere, nell’unico modo che conosce, il suo prezioso territorio. Visivamente, la scena è fantastica. E fantasticamente terrificante. Inquadrato al centro del rettangolo nero s’intravede la sagoma di un muso tondeggiante, con due occhi sovrastanti che paiono risplendere di luce propria. La chiazza chiara sul davanti appare stranamente simile al sorriso dello Stregatto. Di fronte alla creatura, per qualche ragione inesplicabile, si trova una piccola sfera di gomma verde. Ora, non sto dicendo che questo giocattolo smarrito costituisca l’esca per qualche sfortunato bambino, un po’ come il palloncino tenuto in mano dal mostruoso essere citato in apertura. Ma è un fatto noto che gli alligatori americani, unici tra i rettili di tutto il mondo, siano soliti talvolta mettere in equilibrio un bastoncino sulla testa. Per attrarre, senza falla, gli uccellini in cerca di materia prima per costruire il nido (Some crocodiles use lures […] University of Tennessee, 2013). Troppo orribile per essere vero? E chi lo sa?
La leggenda degli alligatori fognari è una delle più antiche e rispettate nell’ambito del folklore contemporaneo urbano. Tanto che in ultima analisi, non è poi così difficile immaginare qualcuno che getta dei piccoli nella rete, semplicemente per fare un dispetto ai negazionisti delle dicerie. Che poi questi riescano a sopravvivere, o persino a prosperare, in un simile ambiente malsano, andrebbe certamente dimostrato… Ma qui siamo di fronte ad un fenomeno, in effetti, ancora differente. Il grosso rettile di Mr Camacho si trova in realtà all’interno di quello che viene definito in gergo tecnico uno storm drain, ovvero un condotto di scarico collegato direttamente ad un vicino corso d’acqua o laghetto, e quindi benché presumibilmente inquinato (siamo pur sempre, dopo tutto, al di sotto di un insediamento umano) almeno in teoria privo delle mefitiche acque nere. E questo, a conti fatti, può voler dire solamente una cosa: rischio alligatori. È una questione largamente risaputa nell’intero stato della Florida, che qualsiasi specchio liquido, non importa quanto paludoso ed apparentemente povero di fonti di cibo, finisca irrimediabilmente per essere decorato dalla presenza dei più celebri e diffusi dorsi-a-scaglie sopravvissuti alla Preistoria, gli Alligator mississippiensis. Il che genera, negli abitanti, un terrore ed una riverenza verso tali luoghi paragonabile soltanto al sacro ed utilissimo terrore degli australiani verso tutto ciò che striscia, zampetta o polipeggia tra gli scogli delle spiagge di quel rinomato paese. Sostanzialmente, si tratta di paure ataviche inculcate fin dagli anni dell’infanzia, che difficilmente possono essere superate successivamente, anche a seguito di un trasferimento in luoghi meno selvaggi e faunisticamente incontaminati. Un po’ come successo al gruppo della banda dei Perdenti, i ragazzi di Derry che nel corso della loro vita ebbero il dovere di affrontare, ed in ultima analisi distruggere, il clown-ragno Pennywise. Gli incidenti per alligatori, ai danni di animali domestici, e purtroppo talvolta anche umani, non sono d’altro canto rari: si stima che dal 1948, a causa 257 attacchi documentati, 23 vittime abbiano perso la vita. Ma non c’è niente di sovrannaturale, in tutto questo, nulla di inerentemente pianificato. Si tratta dell’effetto collaterale di una difficile ma antica convivenza, che corrobora il rapporto dell’uomo con la Natura. Nella maggior parte dei casi, nonostante le apparenze, i coccodrilli sono dei buoni…Vicini?

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La craniotomia spontanea del cinghiale indonesiano

Mamma scrofa lo diceva sempre ai piccoli suini: “Se non potete essere graziosi, siate famelici. Grugnite, agitatevi, battete gli zoccoli per terra. Arrabbiatevi! Ed avrete da mangiare.” Funziona in molte situazioni differenti: nella foresta, dove un gruppo sfortunato d’escursionisti potrebbe incontrare la tipica versione selvatica dell’animale, il peloso, zannuto e temutissimo cinghiale. Come del resto, allo zoo, luogo privo della grazia ineffabile della totale libertà, ma d’altro canto di qualsiasi preoccupazione legata al cibo. Tranne che… Se avere 2 può essere abbastanza, se avere 3 un’occasionale colpo di fortuna, riuscire a conseguire per se stessi 7, 8 oppure 9 (patatine? Noccioline? Piadine?) può davvero colorare il senso e la struttura di una lunga e appiccicosa giornata. Il che riesce molto meglio se si resta impressi al primo sguardo, in senso non soltanto necessariamente positivo. Lo sa bene babirusa, il più misterioso e strano artiodattilo al mondo, il cui nome significa letteralmente nella lingua di Sulawesi e Buru “cervo-maiale”. Ora, se osservate attentamente questo esemplare in ottima salute, la cui aria posseduta ebbe certamente modo di far sogghignare quel giorno i visitatori di un qualche resort animale del Sud Est Asiatico, noterete che la coppia delle sue due zanne più grandi, arricciate sopra il muso come protezioni di un casco da football, è stata attentamente limata e spuntata dagli sfortunati guardiani preposti a tale mansione. Volete saperne la ragione? Perché altrimenti la natura grama, che di certo questa bestia non doveva averla in palmo di mano, avrebbe condotto tali denti senza falla a ritorcersi contro il suo stesso cranio. Arrivando, si ritiene, a trasformarne il possessore in carne pronta per fare il bacon.
Càspita, che convenienza! Per noi abitanti delle regioni circostanti al Mediterraneo, presso cui animali appartenenti alla stessa famiglia s’interfacciano con noi alla maniera, grosso modo, di giganteschi topi invasori, un tale feature non potrebbe che essere assai gradita. Un sistema di autodistruzione per i grandi capi del branco, in grado di farli fuori senza falla al raggiungimento del supremo stato di perdominio? Dove dobbiamo firmare per avere i vostri maiali? Ma la realtà è che tutti gli appartenenti alla sottofamiglia Babyrousinae, nonché all’unico suo genus Babyrousa, non invadono proprio nulla, appartenendo collettivamente all’ambito degli animali a rischio lieve d’estinzione, per la progressiva riduzione dell’habitat di appartenenza. Come gli animali preistorici a cui tanto rassomigliano, questi esseri a metà tra il cinghiale e l’ippopotamo potrebbero presto sparire, lasciando come testimonianza della loro esistenza solamente un riecheggiante grugnito. Assieme ad un gran mucchio di teste perforate. Potrebbe in effetti, sembrare l’esatto opposto del senso stesso dell’evoluzione. Un animale i cui denti possono ucciderlo: qual’è la ragione? Come in molti altri aspetti della vita ed il senso di questa creatura, la questione non sembrerebbe avere alcun senso. Le due zanne superiori, che tecnicamente sono i canini del maschio, crescono verso l’alto, fuoriuscendo dal muso attraverso la pelle, ma risultano in realtà piuttosto delicati, e per questo largamente inutili nei combattimenti. Fatta eccezione l’opportunità occasionale di deviare un colpo dei rivali in amore, evitando che gli occhi vengano colpiti dalla vera arma dell’animale, i due canini inferiori che crescono diagonalmente verso l’alto e l’esterno, arrivando a costituire delle vere e proprie sciabole, utili anche per scavare nel sostrato boschivo. Il che risulta molto importante per il babirusa, che essendo privo del disco osseo prenasale dei suini nostrani, non può scavare penetrare col muso direttamente nel terreno per cercare il cibo, a meno che si trovi in una zona paludosa dal suolo molle. Un aspetto molto significativo della sua biologia è la presenza di tre stomaci distinti, come i bovini, fattore che ha fatto sospettare per lungo tempo che potesse trattarsi di un ruminante, benché la realtà dei fatti abbia in effetti smentito l’improbabile teoria. Il cinghiale indonesiano si nutre di frutta varia, mango, funghi, foglie, insetti e noci dal guscio duro, che rompe facilmente grazie alla forza della sua mascella. Più raramente, dei cuccioli di altri mammiferi o persino, della sua stessa specie. Il suo aspetto e stile di vita bestiale, attraverso i secoli, ha influenzato gli usi e leggende delle popolazioni indonesiane…

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La lunga notte del pappagallo vampiro

Ciascuna nazione tende a rappresentare sulle proprie banconote ciò di cui va maggiormente fiera, ed allo stesso modo in cui le lire facevano sfoggio dei ritratti di alcuni dei maggiori scienziati ed artisti italiani, così come l’euro mostra monumenti e punti di riferimento dell’Unione, il quarto paese per grandezza nel continente d’Oceania ha sempre avuto la tendenza a far figurare sopra i soldi i suoi animali più famosi. Tra cui l’imponente pappagallo kea (Nestor mirabilis, fino a 50 cm di lunghezza) che aveva figurato sul retro del biglietto da 10$ per l’intero periodo tra il 1967 e il 1992, come fulgido simbolo della Nuova Zelanda.  Strigopide decisamente insolito, perché vive preferibilmente sulla neve, unico nella sua famiglia. Giocherellone, curioso e qualche volta un po’ troppo espansivo, al punto da guadagnarsi l’appellativo prototipico di “cheeky” (sfacciato) essendo in grado di allietare ed infastidire da oltre un secolo i turisti che vengono per sciare ad Arthur’s Pass, presso le Alpi Meridionali dell’Isola del Sud. “Perché?” Potreste a questo punto chiedervi “Che cosa aveva fatto il poverino per meritarsi di essere sostituito in tale onore dal kārearea, il semplice falco neozelandese?” Il quale non è per dire, ma in fin dei conti non è altro che un semplice rapace di palude, incapace di elaborare un pensiero più complesso di: “Dov’è il topo? Dov’è il topo? Prendo il topo!” La risposta in effetti potrebbe stupirvi. E cambiare i vostri presupposti in merito a quello che ci si può aspettare da un pappagallo: uno di questi svolazzatori verde oliva, dal riconoscibile sotto-ala di un arancione acceso, era uscito ben dopo il tramonto del sole. Per uccidere di nuovo.
Sembra a tutti gli effetti una leggenda metropolitana, come quella, della vicina Australia, secondo cui dei giganteschi koala carnivori si nasconderebbero sulla cima dei più alti alberi di eucalipto, pronti a lanciarsi sulla vulnerabile ed impreparata testa dei passanti dall’aspetto più saporito ed invitante. Eppure, si tratta di una questione di vecchia data: fu per la prima volta attorno al 1860, che i pastori delle valli e colline verdi attorno alla città di Christchurch, rese celebri dalla saga cinematografica del Signore degli Anelli, iniziarono a trovare strani segni sulle loro pecore più preziose. Profonde ferite sanguinanti, sui fianchi ed in prossimità dei quarti posteriori, dove gli animali non avrebbero potuto procurarsele da soli neanche volendo. Alcuni esemplari più giovani, oppure vecchi e malati, iniziarono ad essere trovati morti, letteralmente dissanguati per l’effetto della spiacevole situazione continuativa nel tempo. Per anni si pensò a una nuova, sconosciuta malattia, finché il proprietario di una tenuta nei dintorni, James MacDonald, non ebbe modo di assistere all’episodio in prima persona: era il 1868. Quando nelle sue retine spalancate sarebbe rimasta impressa l’immagine del verde, assatanato pappagallo, che nel profondo della notte balzava sopra la pecora, ignorando i suoi belati terrorizzati e colpendola selvaggiamente, con il grosso e acuminato becco ricurvo, di un simbolico colore nero. Nulla sarebbe stato più lo stesso. Nel 1889 il naturalista Alfred Wallace, nel suo libro sull’evoluzione intitolato Darwinism, citò l’esempio del kea in merito all’adattamento comportamentale, per cui una specie animale primariamente vegetariana, a seguito di un cambiamento della situazione ambientale, può scoprire ed esplorare nuove fonti di cibo. Ciononostante, per oltre un secolo furono in molti a non credere possibile che un simile uccello, tutto fuorché minaccioso, potesse addirittura uccidere un mammifero quadrupede di tali dimensioni. Finché nel 1993, all’interno di un documentario della NHNZ, non vennero incluse le riprese di prima mano di uno di questi attacchi, effettuate da un anonimo testimone di tanta animalesca brutalità.
A questo punto, la Nuova Zelanda si trovò di fronte ad un dilemma: rinnegare il maligno torturatore, oppure continuare a ricordarlo unicamente per i piccoli fastidi, il modo in cui era solito, durante le sue scorribande diurne, rendersi tutto fuorché benvoluto, benché sempre in maniera ragionevolmente simpatica, dovuta al suo desiderio di provare tutto e tutti, comprendere la vera ragione delle cose… Certo che alla fine, per quanto egli possa esser stato un saggio e ferreo governante, ce l’avreste mai visto il conte Vlad III di Valacchia sopra i soldi della Romania?

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La battaglia delle aquile giganti

Il grido distante dell’uccello, simile a quello di un cane con la tosse, sottolineò il momento dello scambio d’opinioni. Allo stesso modo di un frullar di piume, sempre più vicino, come se la natura, stanca di sopportarli, stesse per richiudersi sopra di loro. Lui sapeva bene di cosa si trattava: la battaglia infuriava di nuovo. “Per l’ultima volta Georg: non nutrirò i miei uomini con bacche, foglie e radici. Soprattutto adesso. Soprattutto in un luogo tanto ricco di cibo…Che tra l’altro, lasciamelo dire: è assolutamente…” Il grande navigatore ed esploratore Vitus Jonassen Bering, dall’alto dei suoi oltre 50 anni d’età, morsicò con gusto la coscia fumante del gabbiano kittiwake (Rissa tridactyla) tanto da trasformare la successiva parola in un goffo ed indistinto: “Deh-lischo-sho!” I pochi denti rimasti non aiutavano affatto la situazione. Assumendo un’espressione indescrivibile, l’interlocutore scrollò, per la duecentesima volta, le spalle. Naturalmente. A cosa serve un naturalista laureato a bordo? Scrivere un diario, inviare qualche lettera una volta fatto ritorno all’Accademia Imperiale di Mosca, promuovere le imprese del grande uomo che, alla ricerca di nuove rotte commerciali, gli ha permesso di vedere cose che nessuno, prima di allora, avrebbe mai neppure sognato. Non di certo, dare consigli al capitano! Per settimane e interminabili mesi, questo scambio si era ripetuto ad intervalli regolari, grossomodo con le stesse obiezioni e il risultato altrettanto inconseguente. Mentre la stragrande maggioranza degli uomini a bordo, uno dopo l’altro, cadeva vittima dello scorbuto. Finché ad un certo punto del 1741, di ritorno dalla spedizione che avrebbe aperto i mari a settentrione della Siberia ai mercantili del glorioso zar Pietro il Grande, non si giunse all’inevitabile finale. Da tempo separato dalla sua nave gemella e compagna di viaggio, la nave San Pietro aveva continuato a navigare verso Nord Est, fino ad approdare presso una terra ricoperta di ghiaccio che tutti, a bordo, sospettavano potesse essere l’Alaska. Ma a quel punto, gli uomini di mare che erano ancora in grado di svolgere le proprie mansioni si contavano sulle dita di due mani. E includevano, ovviamente, l’ospite d’onore tedesco Georg Wilhelm Steller, assieme al suo sollecito assistente. Tutti fecero il possibile, spronati dal carisma e le capacità di navigazione del vecchio e beneamato capitano. Nessuno, essenzialmente, commise errori di sorta. Ma la nave, con le vele in condizioni pessime per una precedente tempesta, alla fine naufragò.
In Paradiso, credete a me: l’isola di Bering, a largo della stretta striscia di terra segnata sulle mappe come Kamchatka, era più di ogni altra la dimostrazione in Terra dell’esistenza di Dio: florida, nonostante le temperature molto al di sotto dello zero, e brulicante di ogni forma di vita immaginabile dall’uomo. Poco dopo l’incidente, la nave San Pietro fu giudicata irrecuperabile, e i marinai ancora in grado di muoversi iniziarono immediatamente a costruire un vascello più piccolo, a partire dai rottami di quest’ultima, che potesse dimostrarsi sufficiente a tornare in patria. Tutto questo, a posteriori, fu drammatico. Ma ebbe un grosso, ed imprevisto punto a favore: dare a Georg il tempo di disegnare, appuntare e descrivere ciascuna di tali incredibili creature, poco prima di cuocerle a puntino sopra il fuoco della pura e semplice sopravvivenza. Sottoposti alle continue scorribande delle volpi artiche, i membri della spedizione non potevano conservare a lungo il cibo. Proprio per questo, ogni giorno uccidevano una delle gigantesche “mucche di mare” che di lì a poco si sarebbero viste attribuite il nome scientifico di Hydrodamalis gigas, e banchettavano serenamente. Ma lo scorbuto, senza sosta, continuava ad avanzare. “Capitano, adesso ascoltatemi. Molte miglia a sud di questa posizione, vive il popolo dei Jipangu, che è vissuto per generazioni del tutto isolato dal resto del mondo. Il loro paese, prima di essere unito, era suddiviso in clan che si facevano la guerra tra loro. E sapete, fra una battaglia e l’altra, cosa mangiano costoro? Pesce crudo ed alghe. Erba, erba proveniente dai fondali più profondi dell’Oceano stesso…” Ancora una volta, l’uomo stava superando il suo grado. Ma le sue storie… Troppo interessanti! Un’aquila abbaiò di nuovo. Ra-ra-ra-raurau, ra-ra-ra…
Li sto lentamente convincendo, pensò Steller. Sopravviveremo. Mentre si allontanava per l’ennesima volta dal campo base, inoltrandosi oltre le scogliere pietrose, dove sapeva bene cosa avrebbe avuto modo di vedere. Ancora una volta, come ogni giorno, gli uccelli più grossi e nobili di tutti i continenti, ridotti al ruolo di semplici passeri arrabbiati per qualche gustosa briciola di pane. L’aquila reale (A. chrysaetos) e quella dalla coda bianca (Haliaeetus albicilla) egualmente intente a litigarsi lo stesso scampolo di cibo. In trepidante attesa che giungesse, sulla scena, la più grande e terribile di tutte. Becco arancione, piume nere e zampe bianche, come se portasse i pantaloni. Fra tutte, l’unica con cui Steller sentisse d’identificarsi davvero.

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