La sottile differenza tra la sabbia e il mare

Il Nostromo osservò quietamente il terzo Sole che sorgeva all’orizzonte, talmente piccolo e distante da poter essere fissato ad occhio nudo. La corona di nana bruna appena visibile nell’aria tesa dell’atmosfera. Gradualmente la sua ombra, proiettata sul cemento delle mura cittadine per l’effetto della possente fornace galattica nota come Alpha Centauri A, o Rigil Kentaurus, diventò più tenue, quindi sparì del tutto. “Come l’ultima traccia d’acqua su questo pianeta rinsecchito…” Sussurrò tra se e se. Di questi tempi difficili, mentre i messaggi dalla Terra diventavano sempre più rari, era più facile pensare al passato. Quando gli enormi depuratori trasportati durante la Migrazione funzionavano a pieno regime, prima che l’umanità smettesse di bere. Il vento delle grandi distese sabbiose soffiava senza sosta, minacciando di strappargli via l’ornato tricorno color del bronzo. Con un sospiro lungo all’incirca 4 secondi, lui premette la manopola sul casco, attivando il riconvertitore d’idrogeno a materia oscura. Mentre il suo corpo acquisiva idratazione dall’aria, secondo una prassi che da questa parte diventava comune all’età di un anno, fece un passo in avanti sul molo d’acciaio cromato, presso cui era attraccato il suo vascello di viaggiatore certificato, lo yacht 22-466, Elderleaf. La porta automatica sul ponte anteriore si aprì scivolando verso l’alto, mentre già il padrone di casa si sedeva ai comandi. Con gesto fluido, premette il tasto contrassegnato come “Pompa fluidizzante” in ideogrammi galattici, mentre con l’altra mano si allacciava la cintura di sicurezza. Appena in tempo: la nave ebbe come un sussultò, quindi con un boato roboante sprofondò per circa tre metri nella sabbia. Il contraccolpo fece quasi cadere a terra la bottiglia di rum sul tavolo in fondo al ponte di comando. Il Nostromo imprecò. “Computer, annotazione: acquistare un nuovo solenoide gravitazionale.” Ma a quel punto, il peggio era già passato. Come già migliaia di volte in passato, la sua nave aveva trasformato la sabbia del deserto in un liquido non newtoniano, iniziando, essenzialmente, ad immergersi fino alla linea di galleggiamento. L’Elderleaf stava fluttuando nella sabbia del deserto. Il senso di libertà spazzò istantaneamente via la sua cupezza residua. Abbassando la leva con il pomello a forma di teschio, dispiegò la vela maestra. L’àncora si smaterializzò automaticamente e il vascello salpò via, verso le più vicine caverne di quarziti luminescenti.
È possibile navigare su un solido? Si può annullare la distinzione tra gli stati della materia? Cosa c’è nella sabbia che la rende diversa, in linea di principio, da qualsiasi altro tipo di sostanza in grado di sostenere il peso di un essere umano (o nave)? In termini semplici e diretti, potremmo affermare che si tratti del suo essere composto da una matrice di particelle interdipendenti, coese unicamente per l’effetto della forza di gravità. Ma niente è assoluto in questo universo, neppure tale forza fisica da noi soltanto parzialmente compresa. Così che uno stato di caduta libera mantenuto nel tempo, come ben sanno gli astronauti di stanza sull’ISS, può cancellare il concetto stesso di “peso”. Oppure può farlo, in maniera molto più immediata, un fluido sparato con sufficiente pressione, tale da disgregare lo stato d’equilibrio latente delle cose. È un esperimento scientifico adatto all’aula di scuola, questo, ma anche un qualcosa che trova diretta applicazione in diversi campi industriali. Trae l’origine da uno strumento dal nome di letto fluidizzato, composto da una serie di elementi codificati per la prima volta nel 1922 da Fritz Winkler, chimico tedesco, che si era proposto di impiegarlo durante la gassificazione del carbone. Un campo, quello della preparazione dei carburanti, in cui trova ancora un vasto impiego, vista l’efficacia dimostrata a margine del processo di cracking, che consiste nella separazione delle macromolecole organiche in cherogeni ed idrocarburi, gli ingredienti primari della benzina. Per non parlare del suo impiego improtante in metallurgia, altro settore primario della moderna società industriale. Tutto inizia con un compressore ad aria…

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V-22 Osprey: il ronzio possente del convertiplano

Ciò che vola, talvolta non può che volare, in funzione delle sue caratteristiche aerodinamiche che ridirezionano la forza del vento. Inghiottendola in un buco nero sotto forma di ali e carlinga, che misteriosamente genera portanza. Certe volte, tuttavia, ciò che vola non dovrebbe neppure staccarsi da terra. Tozzi, sghembi, tutt’altro che affusolati. Quando il presidente Trump, all’inizio del suo mandato, fece visita alla nuova portaerei USS Gerald Ford prossima al completamento presso i cantieri di Newport, in Virginia, per il suo atteso discorso sul “Riportare agli antichi fasti l’arsenale americano” dietro la forma rassicurante dell’elicottero VH-3D “Marine One” (controparte con rotore del più rinomato Air Force) campeggiavano due sagome mostruose, dinnanzi alle quali persino il mostro di Frankenstein sarebbe stato chiamato “un tipo”. Il muso simile a quello di un aereo di stazza media, le ali ridicolmente piccole, due eliche giganteggianti, la coda biforcuta che ricorda vagamente quella dell’A-10 Thunderbolt II, l’aereo celebre per essere stato costruito attorno ad un cannone. Ma qui è palese, al primo o secondo degli sguardi, che ci troviamo su un diverso livello di stranezza, un’altra dimensione dell’inaspettato campo della scienza tecnica applicata. Non tutti sanno in effetti che per le trasferte nazionali che coinvolgono l’intero staff della Casa Bianca, ovvero quelle che non prevedano necessariamente l’impiego di uno dei due 747-100 presidenziali, l’usanza vuole che il grosso dell’entourage di The One viaggi a bordo dei più grossi elicotteri a lungo raggio a disposizione dei corpi militari statunitensi. I quali, per ironia del processo ingegneristico aerospaziale, non sono più propriamente, degli elicotteri. A partire dal 2007, quando entrò in servizio il primo convertiplano prodotto in serie dell’intera vicenda fluttuante umana.
Una contraddizione a cui si arrivò per gradi. Ovviamente, tutto ebbe inizio dall’epoca della seconda guerra mondiale, quel grande calderone dalle drammatiche conseguenze, che bene o male (decisamente più male che bene) rimescolò le nazioni, costringendole ad analizzare ogni centimetro di vantaggio funzionale che potessero acquisire sopra, sotto e dietro il campo di battaglia. La Germania, forse proprio in funzione dell’eclettismo disfunzionale della sua classe dirigente, fu notoriamente maestra in questo, producendo il più alto numero di prototipi avveniristici, non tutti destinati a giungere a un’impiego effettivo. Tra questi, alcuni dei primi e maggiormente significativi esperimenti nel campo degli elicotteri. Fu così che verso la fine del 1941, il Reichsluftfahrtministerium (Ministero dell’Aviazione del Reich) stabilì un mandato presso l’importante industriale e fornitore d’aeromobili Heinrich Focke, per un nuovo tipo di caccia da combattimento, che fosse in grado di effettuare il volo VTOL (fluttuare immobile nel vasto cielo). Costui lavorando quindi, con il suo collega e pilota Gerd Achgelis, riuscì ad assemblare nelle sue fabbriche il primo esemplare di quella che si sperava, sarebbe diventata la serie Fa 269, un aeromobile di 8,93 metri di lunghezza armato di due cannoncini da 30 mm, i cui propulsori ad elica avevano una caratteristica particolare: potevano essere riorientati a 90°, per puntare in senso perpendicolare al terreno. Dell’apparecchio non si sa più nulla: esso compare soltanto in alcuni disturbati video di prova, in cui viene usato nella configurazione di elicottero per sollevare da terra alcuni carichi pesanti, dimostrando la potenza del suo motore BMW 801. Esso non fu mai usato in battaglia. Al termine del conflitto gli Stati Uniti vennero a conoscenza di tale (ed innumerevoli altri) progetti decidendo di farli propri, un po’ come era capitato con l’elite degli ingegneri missilistici al servizio del Reich. Dopo tutto, immaginate di cosa stiamo parlando? La praticità d’uso e versatilità di un elicottero, unita al raggio e l’affidabilità di un aereo. Qualcosa di straordinariamente utile dal punto di vista della logistica militare. Fu quindi il presidente Harry Truman (mandato: 1945-1953) a formalizzare per primo questa esigenza, dando inizio al progetto inizialmente segreto dal nome di XV (Experimental Vehicle). Il primo prodotto di questa iniziativa fu commissionato alla McDonnell, che riuscì nel 1954 ad assemblare una nuova versione del concetto di elicottero, dotato di un doppio jet a turbina di coda che poteva spingerlo fino a 322 Km/h. Esso non era, tecnicamente, ancora un convertiplano, bensì una sorta di versione a reazione del concetto di girocottero. Ma risultò soprattutto straordinariamente costoso, per un guadagno di prestazioni irrisorie rispetto alla sua complessità produttiva. Per qualche tempo, dunque, i presidenti americani dovettero ancora accontentarsi del loro classico Marine One.

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In Australia si accende lo stadio che sembra un flipper gigante

Fin dall’epoca del primo volo a motore, l’uomo è stato attratto dalle stelle distanti posizionate nel cielo notturno. Il loro aspetto misterioso, la forma invitante, la musica visuale della loro conturbante luminescenza. Ogni singolo passo del progresso scientifico relativo a questo ambito fu accompagnato da una simile consapevolezza, incluso l’invio in orbita della navicella spaziale Friendship 7 nel 1962, terzo volo spaziale statunitense, con a bordo il coraggioso pilota John Glen. Ma ci sono momenti in cui il tuo sguardo deve tornare sulla Terra, attimi in cui senza un punto di riferimento solido, ogni cosa appare perduta. Fu così che durante una fase cardine della sua esplorazione durata poco meno di cinque ore, l’astronauta dovette iniziare una complessa manovra di rientro, durante la quale l’orientamento della capsula sarebbe stato determinante, o potenzialmente fatale. In quel preciso momento, egli si trovò all’improvviso sopra lo spazio aereo (l’aria spaziale?) della base di Munchea, in Australia, quando scorse oltre l’orizzonte una città straordinariamente luminosa, come un’esplosione di gioia nella cupa distesa a ridosso dell’Oceano Pacifico. E allora che Gordon Cooper, l’addetto radio della missione, pronunciò una serie di parole destinate a rimanere nella storia: “Quella che stai vedendo è la città di Perth. Tutti gli abitanti hanno acceso spontaneamente le luci, nella speranza di essere visti da te.” Da quel momento, la strada era chiara. La capitale dello stato dell’Australia Occidentale, nonché quarta città più popolosa del suo continente, sarebbe diventata nota come “The City of Lights”. Con buona pace della Ville-Lumiere, Parigi.
Del resto di sfolgoranti bagliori, Perth ne possiede parecchi. La terra stessa su cui è stata fondata, un tempo appartenente alla popolazione aborigena dei Noongar e che il capitano James Stirling nel 1829, mettendo piede per la prima volta in Australia, definì: “Il luogo più magnifico che avesse mai visto.” Il suo ruolo nell’epoca coloniale, in cui seppe determinarsi un ruolo di primo piano nella nascente Federazione, attraverso le abili manovre dei suoi primi amministratori. Lo svettante distretto finanziario, con tanto di prototipico Central Park. E le due squadre locali di Football australiano, i West Coast Eagles e il Fremantle Football Club, che fino ad oggi hanno giocato i loro derby esclusivamente all’interno del Subiaco Oval, il vecchio stadio a ridosso del fiume Swan, collocato nell’omonimo quartiere della città. Una struttura… Vetusta, risalente al 1908, e proprio per questa dotata di una sua lunga e importante storia sportiva. Ma viene un momento in cui, persino simili luoghi, raggiungono un grado d’usura che non può essere più tollerato. Ed a quel punto la città può fare soltanto due cose: rimetterli in sesto a fronte di una spesa davvero significativa, oppure sostituirli con qualcosa di nuovo, più grande, sostanzialmente migliore sotto ogni punto di vista. L’amministrazione governativa dello stato dell’Australia Occidentale ha dato ordine che entro il 2018, la struttura sia infine demolita. Vi lascio immaginare, dunque, quale strada sia stata scelta per assolvere alla questione!
La questione del nuovo stadio di Perth ha costituito negli ultimi anni un importante tema urbanistico e politico di questa città. Al punto di diventare, durante la recentemente conclusa amministrazione del premier Colin Barnett, un fondamentale punto d’orgoglio davanti al popolo degli elettori. Scartata l’ipotesi di costruire l’arena in prossimità di quella precedente, sempre a Subiaco, si è quindi deciso per un’area del vicino quartiere di Burswood, come parte di un progetto inclusivo di un nuovo ponte e una stazione del treno, ma nessun parcheggio: questo perché, nell’ottica della moderna attenzione per l’ambiente, si presume che il pubblico giunga alla partita utilizzando in prevalenza il trasporto pubblico. Una visione che chiamerei ottimistica dell’intera questione. Ma l’aspetto più affascinante dello stadio è senz’ombra di dubbio il suo fantastico sistema d’illuminazione, creato in collaborazione con Philips sul modello del grande successo avuto a partire dal 2011 dal loro sistema ArenaExperience, presso il nuovo stadio della Juventus a Torino. Il tutto, su una scala completamente nuova: lo stadio di Perth potrà infatti vantare il più esteso sistema d’illuminazione al LED della storia.

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750 Km orari: il più veloce aereo telecomandato al mondo?

Tecnologia che si concentra per il raggiungimento di un singolo scopo, il massimo dell’efficienza, la sommità del muro che divide la materia dalla realizzazione di un sogno. A cosa dovrebbe servire, in tutto questo, l’elemento umano? Nient’altro che fornire l’indirizzo verso cui si trova l’obiettivo, la direzione in cui si trova lo scopo ultimo dell’avventura. Un percorso che può durare molto a lungo, ed arrivare a richiedere un’importante dose d’abnegazione. Esiste un punto di vista, importante nel campo dell’informatica, secondo cui il più importante difetto di fabbricazione possibile si trovi dinnanzi al monitor e la tastiera. Poiché l’unico, e più importante errore, che può rovinare il calcolo finale, dovrebbe derivare da un’errore di un inserimento dei dati. E in maniera simile, ma diversa, qual’è lo scopo di un pilota a bordo di un jet? Zavorra, soprattutto, e un limite biologico al tipo di manovre che si possano portare a compimento. Ai possenti motori che spingono innanzi la scheggia dei cieli, non interessa che una persona possa scendere, dopo aver infranto la barriera del suono, in un diverso aeroporto. Non più di quanto un cavallo selvatico possa desiderare l’esperienza di avere una sella assicurata sulla sua schiena. Partendo da questa considerazione, la più sfrenata realizzazione dell’aeronautica è quella che richiede l’impiego di un telecomando, poiché separa l’utile dall’utilizzatore, ovvero l’oggetto dal predicato verbale. Naturalmente il concetto di “utile” è del tutto soggettivo. Non credo in effetti che molti di noi sarebbero pronti a spendere 10.000/15.000 euro (soltanto la turbina in miniatura, ne costa 3273) per l’esperienza di trovarsi ai comandi di un simile fulmine rosa personalizzato, dal nome di Speeder Inferno, costituito essenzialmente da un’ala a delta curvilineo della lunghezza di circa un metro e mezzo, vertiginosamente affusolata nella sua parte anteriore e dotato del non-plus ultra disponibile in materia di elettronica e superfici di controllo. Una creazione straordinariamente efficiente di Niels Herbrich (pilota) e Christoph Meier, pensata con l’obiettivo specifico di trovarsi iscritta nel Guinness dei Primati, ma anche segnare nuove strade per il futuro del loro passatempo, un hobby che pressoché nessuno potrebbe essenzialmente definire, rilassante. Per la cronaca, il video dello scorso agosto mostrato in apertura è quello più chiaro ed informativo, benché in esso si raggiungano “appena” i 727 Km/h largamente superati ad esempio in un altro, risalente a giugno del 2016.
Finché si trova a terra, il velivolo in questione non sembra avere niente di tanto particolare. Ricorda vagamente il Concorde. Costruito per massimizzare la resa, piuttosto che con lo scopo di riprodurre in scala un vero mezzo civile o militare, esso presenta in effetti una continuità aerodinamica pressoché totale, con l’unica esclusione del Behotec JB-180, il propulsore a jet dell’omonima compagnia di Dachau, un piccolo oggetto capace di sviluppare 180 Newton di forza da soli 1500 grammi di peso. Il che permette di raggiungere a malapena i 7 Kg e mezzo per l’intero aeromobile, offrendo un rapporto di peso/potenza semplicemente inimmaginabile per dispositivi dalla scala più prossima a quella reale. In parole povere, se immaginassimo la stessa situazione numerica a bordo di un “vero” aereo, esso potrebbe compiere il giro del mondo in poche decine di minuti. A completare un quadro estetico scoraggiante, l’apparecchio non dispone neppure di un carrello per decollare, che avrebbe presumibilmente reso troppo complesso e pesante l’insieme dei fattori in gioco. In funzione di questo, l’operazione di lancio è portata a termine mediante l’impiego di una catapulta con fionda, accuratamente calibrata e concepita dagli stessi realizzatori di questo piccolo miracolo dei cieli. La stessa operazione di avviamento risulta piuttosto interessante: poiché prima di procedere, Herbrich svita un pannello nella parte frontale dell’aeromobile, ed immette all’interno quella che sembra essere a tutti gli effetti dell’aria spray. Si tratta di un passaggio importante per questa classe di mezzi creati a misura di telecomando….

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