Un robot da taschino che trascina 2000 volte il suo peso

Micro Tug

È la domanda che si sentono fare di continuo: “Si, ma cosa serve?” Gli artisti, i filosofi, gli scienziati. Quasi mai, gli inventori e gli ingegneri. Perché loro è il campo dei problemi da risolvere direttamente, in modo chiaro per la gente: un buco da tappare, il caffè da riscaldare, un cardine da far movimentare. Mentre è diversa la storia di chi, visionario dei possibili sentieri, si applichi sinceramente nel produrre…Qualcosa. Qualsiasi cosa ed è proprio questo il punto: incrociando i meri presupposti, sovrapponendo le risorse disponibili, talvolta riscrivendo ciò che sia “possibile” all’interno di un laboratorio…E tutto per dare i natali a una realtà completamente nuova e totalmente fuori dagli schemi a noi già noti. Che non ha un’applicazione in campo pratico, proprio perché ne fuoriesce pienamente. È sostenuta da una pura idea. Ma che razza di fantastico pensiero! Quello che ha guidato il Laboratorio di Biomimetica ed agile Manipolazione dell’Università di Stanford, nella costruzione della sua imprevista e imprevedibile mascotte, subito battezzata con un nome dalla forte componente commerciale (alquanto strano, in quel contesto) ovvero l’adorabile µTug. Capitalizzando sul tipico schema del mondo informatico, che ormai da tempo mutua la “i” minuscola dalla tradizione Apple, per indicare voglia di creatività, ma qui sostituita con quel suono bilabiale dell’alfabeto greco, usato nel campo della fisica per riferirsi a tutto ciò che ha un milionesimo della grandezza del suo punto di riferimento. Siamo scienziati, che ci volete fare. Ed era un’iperbole, naturalmente: non è “così” piccolo. Ma per quello che riesce a fare il qui citato robottino, per lo meno quando le condizioni sono adatte alla sua operatività, risulta ad ogni modo eccezionale. La questione è semplice davvero rilevante: da una parte abbiamo l’evidenza degli insetti, creature che nonostante la loro relativa piccolezza riescono a influenzare anche notevolmente il loro ambiente circostante. E dall’altra l’evidenza degli esseri artificiali provenienti da simili progetti accademici, generalmente frutto di una qualche innovazione nei campi della mobilità motorizzata, della conservazione dell’energia etc. Generalmente troppo piccoli per svolgere una mansione d’effettiva utilità. Così nasce la risposta-tipo a quel quesito di apertura: “Ecco…È un drone. Può portarsi dietro una telecamera, per cercare sopravvissuti tra le macerie di un qualche disastro naturale.” Davvero, la frequenza con cui ricorre un simile obiettivo dichiarato è sorprendente. Perché l’emergenza, per sua stessa definizione, è una condizione in cui i metodi convenzionali non servono a risolvere il problema. In effetti è teoricamente possibile che si verifichi, nell’intera storia futura del mondo, un caso in cui ciascun pesce robotico, serpente articolato, salamandra radiocomandata, sarà proprio quel che serve per salvare vite umane. Strisciando fino al punto del pericolo, dove un umano in carne ed ossa non avrebbe mai potuto penetrare. Possibile, non vuol dire poi probabile.
Ma qui si sta facendo il passo ulteriore: quello dell’interazione. Chiunque abbia tenuto in mano un coleottero lucanide, una di quelle creature lunghe diversi centimetri, con il rostro aculeato sul davanti e un gran bel paio d’elitre cangianti, ben conosce l’illusione che ci trae in inganno: simili esseri, benché più piccoli del palmo di una mano, sono tutt’altro che deboli o delicati. Vivono le loro giornate, piuttosto, racchiusi in rigide armature chitinose, che scalate a dimensione umana ci renderebbero del tutto impervi ad urti, colpi o schiacciamenti. E poi sono, soprattutto, FORTI. Si aggrappano con le sei zampette come fossero altrettanti artigli, facilmente in grado di lasciare un segno sulla pelle umana. Sarebbe il tipico paradosso dell’artropode: più sono piccoli, più riescono a stupirci per il modo in cui riescono ad imporsi sull’ambiente circostante. Nei due articoli scientifici di supporto al progetto, liberamente disponibili sul sito del laboratorio, viene citato altrettante volte il caso della formica tessitrice, con tanto d’immagine a corredo: l’insetto sospeso a testa in giù, che sostiene facilmente un peso di metallo da 500 mg. Per intenderci, grande due volte lei. Come, come ci riesce? Il segreto è tutto nel principio dell’adesione.

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Tagliar la pietra usando dei colpetti musicali

Deer Island Granite

Puoi dire tutto, poeta, retore o cantore. E tu puoi fare tutto, minatore. Puoi svegliarti al canto del tuo pappagallo! Puoi guidare l’auto fino in bagno, poi mangiare le lattine della Coca Cola! Puoi saltare fuori dalla porta, rotolando fino ad un computer per spalare neve vitruviana, picconando con dell’enfasi cubetti virtuali. Basta che ci pensi, per un attimo, dodici ore: non c’è nulla che fuoriesca dal possibile dell’intenzione, granitica è l’essenza del profondo desiderio. Addirittura esiste il caso, ed è un caso certamente dimostrato, che la forza stolida dell’insistenza muova le montagne, cavi fuori il loro sangue e poi lo metta all’aria ad asciugare, purissima essenza di un ammasso così grande, tanto immondo (nel senso che proviene da un diverso tempo e luogo) da non poter servire ad altro scopo, che quello di esistere, giacendo. Ora, naturalmente sono molti i modi di trattare sua maestà la pietra, quasi tutti dipendenti da quella potenza accumulata in forme tecnologiche e dispositivi in grado d’espletare l’energia: molti conoscono, qualcuno si ricorda, del caso strano della roccia ignea intrusiva felsica, altresì detta granito, che era dura, resistente, potenzialmente utile in diversi campi. Componente primaria della crosta del nostro pianeta. Però piuttosto raramente utilizzata in architettura fino ai tempi più recenti, visto quanto fosse permeabile agli sforzi degli umani, tutti gli scalpelli e i vari orpelli rivelatisi incapaci di graffiarla. Per lo meno, facilmente; perché come dicevamo, tutto può essere portato a termine, previa l’applicazione del corretto grado d’insistenza. È un concetto che risulta chiaro tramite l’applicazione di metafore, stavolta: ecco il vento. Che per la maggior parte dei suoi giorni non potrebbe mai spostare un sasso da 200 tonnellate. Eppure dagli 100, 1000 anni, ne avrà fatto briciole da sparpagliare, poi raccogliere col tubo dell’aspirapolvere della miniera. E così quel giorno Dennis Carter, fondatore e proprietario del principale albergo di Deer Isle, lassù nel Maine, isola boscosa a qualche chilometro di suolo e mare dalla cara vecchia Boston, capitale del Massachusetts e città simbolo della regione del New England, che si estende per il territorio di ben sei diversi stati.
Colui che qualche anno fa, mirabilmente, si apprestava ad applicarsi in un mestiere antico eppure poco noto, fuori dal campo dello scalpellino e i suoi colleghi, al punto che il suo personale exploit, così rappresentato per la gioia degli utenti di YouTube, sarebbe presto diventato un simbolo e principale rappresentazione odierna di quella particolare attività: il paletto e la piuma (plug & feather) oppure il cuneo e la zeppa (wedge & shim) o ancora il feather and tare, come lo chiavano nel gergo della regione Devon d’Inghilterra, sul principiar del secolo 1800, quando venne riscoperto per l’impiego al tempo di grandi costruzioni e relative industrializzazioni. Un approccio semplice al problema complicato, di tagliare un blocco grande come un’automobile in due parti uguali, e poi praticare su ciascuna di esse quella stessa cosa per la divisione equa e regolare, finché non si giunga ad un coronamento di un buon numero di pietre grandi, eppure trasportabili su schiena umana. O ancor più probabilmente del testardo mulo. Perché occorre convinzione ed insistenza raggiungere la meta, ma sopra ogni altra cosa, l’intenzione. Il concetto è chiaro al primo sguardo: qui si tratta di praticare, lungo una stessa linea invisibile, una serie di fori nel pietrone. Che nel presente caso, Mr Carter ci presenta con il numero spropositato di ventiseimila pounds di peso (11 tonnellate ca.) davvero molto. Troppo, per gestirli tutti assieme. Quindi in ciascuno dei buchi, con enfasi fattiva, s’inserisce uno strumento a cuneo con forma di V e due alette laterali rastremate. Tali da poter rendere uguale la cima del componente centrale alla sua punta, per lo meno una volta poste a contatto in senso longitudinale. Ma lo spazio necessario è superiore a quello ricavato nella pietra. Ma chi ha detto che questo sarebbe un problema? Anzi!

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La casa sulla roccia a Narragansett Bay

Clingtone 0
Via

Il sole infuoca il braccio di mare prospiciente il porticciolo di Jamestown, mentre un’altra lunga giornata si conclude tra le mura della Clingstone House. Un luogo per staccare dalle fatiche e le preoccupazioni della vita urbana, si, ma lavorando. Finestre da pulire. Tegole da rimettere in posizione. La legna da portare faticosamente, su dal proprio scafo, fino al gran camino della stanza principale al primo piano. Fosse settiche da svuotare nel piccolo “giardino”, reso quasi verticale dalla forma digradante dell’unica via d’accesso alla magione. C’è sempre da fare, nell’abitazione centenaria costruita sopra il mitico dumpling (gnocco, raviolo) di roccia, parte della costellazione d’isolotti e scogli del frastagliato Rhode Island che un tempo preoccupavano i migliori marinai, di arrivo dalle terre di un distante continente. Ma che adesso più che mai, è diventato una parte inscindibile del paesaggio marino, un punto di riferimento beneamato per chiunque si ritrovi a percorrere quelle acque, per svago, per lavoro, da o verso il confine galleggiante con lo stato di New York. E chi può, davvero, contare i suoi abitanti? C’è Mr Henry Wood, ovviamente, l’architetto di Boston che famosamente, con un colpo di mano estremamente significativo, riuscì ad acquistare la casa nel 1961, per la cifra trascurabile di appena 3.600 dollari (“Ne avevo offerti 3.500” racconta “Ma dissero che era troppo poco”) con sua moglie e i figli, di ritorno puntualmente per quella che si è trasformata in una vera istituzione familiare, il Clingstone Work Weekend. Ci devi credere, per trarne beneficio? Di questi tempi, in quelle sale corre una costellazione di nipoti, l’intera nuova generazione familiare, destinata a ereditare un giorno l’edificio che fu il sogno dei suoi innumerevoli restauratori, spesso stipendiati unicamente col piacere di esserci, mangiare tutti assieme, bere e dare feste sregolate. Difficile pensare che Nettuno, un giorno, possa venire a lamentarsi! Ma nello spirito, se non nei fatti, in quell’edificio resistente, costruito come quello di un mulino, albergano anche i costruttori originari: quel J. S. Lovering Wharton, socialita, industriale e finanziere, che alle soglie del 1900 era stato scacciato, suo malgrado, dalla residenza estiva costruita presso Fort Wetherill, a Jamestown Sud, per un progetto governativo d’ampliamento della vicina base militare. E che quindi si ritrovò a promettere a se stesso: “Costruirò la mia prossima casa il più vicino possibile, ma in un luogo tanto isolato da non permettere a nessuno di mai venirmi a disturbare!” Cosa che in un certo senso, estremamente letterale, riuscì a realizzare, forse più di chiunque altro prima di quel giorno. Perché fu allora che chiamò il suo amico William Trost Richards, pittore paesaggista di Philadelphia una certa fama, ed assieme a lui mise a punto il progetto di una tale meraviglia: una lunga serie d’inquadrature, sostanzialmente, ciascuna corrispondente ad una diversa facciata del maniero sopra il mare. 360 gradi d’acqua e nulla più; tre piani, 65 finestre e pareti costruite per durare, ricoperte di pannelli sovrapposti in legno (shingles, letteralmente tegole verticali) sulla parte esterna come pure in quella interna, a far da complemento insolito allo stile strutturale. Alcuni dissero che l’insolita trovata fosse dovuta alla prossimità del terribile fortino, i cui cannoni tendevano a crepare l’intonaco delle case costruite secondo i metodi convenzionali. Ma c’è ben poco di affine alla normalità, nell’approssimazione architettonica di questo incredibile natante, perennemente immobile fra tante vele e motori di passaggio, stolido ed eternamente resistente alle intemperie, nonostante tutto il resto.

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I predatori dell’amaca volante

Space Net

Scimmia e ragno, scimmia-ragno. Non è fatta come il difensore del quartiere, il suo costume rosso-blu con stemma nero che richiama alla visione dell’ottuplice zampettamento, protagonista di pellicole davvero molto amate. Neanche potrà tessere, la nerastra Atelidae pelosa, una propria appiccicosa tela; a meno che volessimo includere per inferenza, tra i traguardi di quel piccolo animale, l’ultima creazione di codesto gruppo di arrampicatori dello Utah, giovani e senza una visione limitante del pericolo, che da un tempo medio han preso l’abitudine di farsi definire gli/le Moab Monkeys, alludendo assai probabilmente alla tipica agilità di tale classe di creature, i primati. Ma che adesso, con questo progetto del Pentagon Space Net, così gentilmente ospitato presso il canale ufficiale delle telecamere GoPro, sembrano fuoriuscire dal circondario più meramente biologico, sforando nel caotico e variopinto mondo dei supereroi. Facendosi emuli di quella scena da trailer, famosa eppure poi tagliata, in cui Spiderman bloccava l’elicottero fra le due torri gemelle, proprio in quegli anni tristemente demolite. Quale imprevedibile eventualità… Fra le stesse rocce dove scorre il Colorado River, appesa sotto il cielo ma ben distante dal remoto suolo, costoro hanno edificato una speciale costruzione. Solo cinque corde tese, usate per tenere in posizione l’equivalente aerodinamico di una penthouse (suite dell’ultimo piano) ma con sotto l’aria. E in mezzo un buco. Ah! Questa è veramente bella. E a cosa servirebbe mai, quel buco?
Quando si dice che certi paesi sono straordinariamente grandi, non si fa riferimento unicamente alla questione geografica, delle migliaia di chilometri dall’una all’altra costa, intervallate da montagne, fiumi e valli erose da quest’ultime, fino allo sfogo del remoto mare. È una questione che si estende anche alla sfera concettuale: un conto risulta essere la vita con la completa identità di luogo, nazionalità e contesto. Un altro è fare parte della corposa fetta umana che compone il variegato popolo degli Stati Uniti, che dall’integrazione nasce, e nell’alternanza dei periodi in cui quest’ultima è stata variabilmente praticata, ha fatto le fortune o meno dell’intero sistema socio-economico globalizzato. Pensate all’area metropolitana di New York sopra l’Atlantico, dove l’unione architettonica tra il ferro ed il cemento, negli anni correnti riesce a sostenere una densità di popolazione che si aggira sui 10,756 individui per chilometro quadrato. Poi mettetela a raffronto con le vaste pianure ed i deserti posti al centro di quel continente, ove la quantità di pietre, su cui mano umana ancora non si è mai posata, risulta grandemente superiore a quella delle opere volute dalla mente. Luoghi come questa Grand County dello Utah (lassù, sopra l’Arizona) in cui la scienza statistica ci parla di una media di una singola persona ogni chilometro, più la parte decimale variabile, 0.1, 0.2; diciamo, la lunghezza della barba e dei capelli? Come, verrebbe a noi da chiederci, è possibile disporre di un’identità che sia davvero nazionale, eppure applicabile all’uomo di quel primo ambiente, come a quello della remotissima frontiera! Cactus saguaro al posto dei pali della luce e come altrove corrono le strade trafficate, qui coyotes, Road Runners e le trappole dei primi a danni dei secondi. A.C.M.E. Nella frontiera c’è spazio per tutti, ovvero i folli e le loro sorelle, le famiglie intere e pure quelle…Dedite a dei passatempi molto preoccupanti. Vedi ad esempio quella trifecta della dannazione, che difficilmente può trovare spazio nei contesti urbani: scalare le cose, lanciarsi giù da esse, tendere una corda, appena a sufficienza. L’ultima che resta forse la migliore, in questo sport moderno (ma non lo sono forse tutti) del camminare sopra il nulla dei bisogni, all’alta quota della massima concentrazione ed abnegazione di se stessi. All’inseguimento del perfettissimo equilibrio, si, ma non soltanto fisico e persino spirituale. Stiamo parlando, per intenderci, dello slacklining d’alta quota. Provateci voi a farlo, nel bel mezzo di una gran città!

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