La solitudine di un albero senza eredi

encephalartos

Un atrio principale illuminato dal sole, con due ottagoni ai lati dotati d’ingressi, identificati da svettanti e sottili archi, affiancati da statue classiche di divinità. La più grande struttura vittoriana di vetro e ferro, un vero monumento all’ingegno architettonico del secolo dell’industria. Negli interi 121 ettari dell’orto botanico reale di Kew, sito a pochi chilometri a sud-ovest di Londra, nulla attira lo sguardo dei visitatori quanto la maestosa Temperate House, una delle serre più vaste e spettacolari del mondo. 4.880 m² all’interno dei quali il clima viene attentamente monitorato, al fine di garantire la sopravvivenza di piante provenienti dai più reconditi angoli del globo, meraviglie quali la Jubaea chilensis di 16 metri, la singola palma più alta sopra la quale sia mai stato posto un tetto, o l’Amorphophallus titanum, il fiore mostruoso e maleodorante che può richiedere anche 10 anni per riuscire ad aprirsi, per poi appassire in appena un paio di giorni (vedi precedente articolo sull’argomento). Ma come questa intera struttura costituisce un ricordo di tempi ormai reconditi e quasi dimenticati, non c’è forse un singolo tronco, un solo fusto, un’unico agglomerato di radici fra simili trasparenti mura, ad avere un’importanza cosmica superiore a questo: l’ultimo esemplare nato spontaneamente in natura di Encephalartos woodii, un vero fossile ancora vivente risalente (persino!) all’epoca dei dinosauri. La storia del vegetale, che potrebbe sembrare una sorta di palma ma in realtà è imparentato direttamente con le cycas, è al tempo stesso significativa e commovente, per certi versi uno dei romanzi più tristi ad essere durati per più di un secolo, ma che probabilmente si estendeva ancor più lontano a ritroso nel tempo.
Questa creatura dalla corona di foglie lucide fu infatti scoperto nell’ormai remoto 1895 da John Medley Wood, un naturalista inglese intento in una spedizione nella foresta di Ngoya, tra i pericolosi abitanti e le bestie selvagge delle terre di Zululand. In una regione del Sudafrica, dalle precipitazioni annue di 750-1000 mm, dove una palma non avrebbe realmente fatto notizia. Se non che quest’uomo dal nome piuttosto programmatico (John…Misto Legno?) al primo sguardo capì di trovarsi di fronte a qualcosa di straordinariamente raro, e dopo un lungo periodo d’introspezione durato ben quattro anni, fece ritorno sul luogo della scoperta assieme a una troupe, e lavorando alacremente rimosse uno dei quattro fusti dell’agglomerato vegetale, al fine di riportarlo con se in patria, presso gli orti di Kew. Ciò perché l’intero ordine delle Cycadales, ed in particolare le Zamiaceae che normalmente risultano più simili a felci, hanno l’utile caratteristica di poter ritornare a crescere da un singolo ramo trapiantato, specie se questo viene prelevato dalla parte più prossima alle radici, caso in cui viene definito comunemente il pollone (basal shoot). Così facendo, dunque, non soltanto l’esploratore dava seguito alla prassi tipicamente anglosassone per cui ogni tesoro del mondo dovesse ornare le auguste sale della terra d’Albione, ma compiva il primo passo verso la preservazione in ambiente controllato di una creatura che altrimenti, di lì a poco, avrebbe del tutto cessato la sua esistenza. Considerate: tutte le piante di questo ordine sono dioiche, il che significa che non possono riprodursi naturalmente senza un esemplare maschio ed uno femmina. E l’Encephalartos trovata da Wood copriva la prima delle due necessità, ma ovviamente non la seconda. Iniziò quindi una lunga, e difficile, ricerca…

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Echi nella pampa: lo strano abbaio del cervo-cane

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Un fruscio tra l’erba sudamericana, un movimento ai margini del proprio sguardo. All’improvviso, in mezzo alla vegetazione, si palesano due orecchie triangolari. Una volpe rossa? A queste latitudini? Con la barba bianca? Poteva sembrarlo, fino a poco fa. Se non che in questo momento, dietro a quel paio di acuti occhi neri, si sta sollevando una criniera scarmigliata, simile per certi versi a quella di iena. E poi, cosa ancor più strana, tutto l’animale parrebbe fluttuare nell’aria fresca della pianura, tanto è distante da terra in proporzione alle sue apparenti dimensioni. Esso avanza lentamente all’altezza di 90 cm circa, senza sobbalzare in alcun modo. quindi fuoriesce  dalla copertura del sottobosco, per mostrare…. Quattro zampe nere, lunghe, lunghe, affusolate. Degne del più leggiadro tra i levrieri o gli ungulati. Che si muovono in alternanza, negli spostamenti: prima le due destra, poi quelle in opposizione. Finché l’impossibile chimera, giunta ormai troppo vicino, apre la sua bocca. Ed inizia a parlare.
Si usa dire che il lupo sia l’antenato del cane, così come la scimmia lo è dell’uomo, ma se lupi e scimmie ancora esistono, come potrebbero mai questi essere i nostri progenitori? Non è attestato, nell’evoluzione così come in qualsiasi aspetto dell’universo, il concetto di un qualcosa che resta immutato attraverso i secoli e i millenni, senza sviluppare dei tratti che derivino in qualche maniera dal suo ambiente naturale. Sarebbe quindi più corretto affermare che, in ciascuno dei due binomi citati, sia presente un punto di partenza in comune. Un precursore, una creatura simile a una delle due rimaste che colonizzò il pianeta, incorporando il seme della propria crescita futura. Proprio per questo si usa parlare di “albero” genealogico, in cui il tronco è antico e solido, mentre i rami molteplici, flessibili e progressivamente più sottili. Certo, non fa piacere pensarlo! Che una creatura elevato come l’uomo, persino all’apice delle sue possenti e variegate civiltà, non possa fregiarsi di una discendenza più onorevole di quella dell’orango, del gorilla e dello scimpanzé. Ma la stessa cosa si sarebbe potuta dire dell’Homo neanderthalensis, e guardatelo ora. Riprodotto nella cera, dietro le vetrose teche dei musei. L’abbiamo (fin troppo) chiaramente dimostrato: noi non siamo figli suoi.
Mentre il genere canis, cui appartengono le mille e più razze del nostro compagno domestico più diffuso, si sa, è piuttosto omogeneo. Non c’è una grande differenza, dal punto di vista genetico, tra un carlino, un pitbull, un alano, o persino la temibile creatura che divorò la nonna di Cappuccetto Rosso. Benché i ruoli e gesti quotidiani, questo è inevitabile, risultino piuttosto vari. Diverso è invece il caso, se prendiamo in considerazione l’intera famiglia dei canidi, della quale fanno parte anche gli sciacalli, i dingo le volpi… Esseri non così distanti nell’aspetto superficiale, ma che presentano caratteristiche altamente specifiche nella dieta, nella dentatura, nella forma del cranio e per innumerevoli altri marker distintivi della biologia. Tanto da costituire, a tutti gli effetti, dei rami ben distinti dell’antico arbusto, il cui punto condiviso è tanto in basso che potremmo situarlo, se vogliamo, anche nel punto in cui s’incontrano le radici; che per inciso, nella classica metafora non andrebbero considerate. Tutto cresce e muta, dunque. Ma talvolta, riesce a farlo rimanendo ben distante dai suoi simili, tanto da mantenere la propria fondamentale identità. Se oggi esistessero ancora gli uomini di Neandertal, che fine avrebbero fatto? Li avremmo riconosciuti come nostri distanti e meritevoli cugini? Nel mondo dei cani, qualcosa di simile è già successo. Purtroppo, nessun lupo accetterebbe nel suo branco un crisocione.

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La tenera caparbietà dei cuccioli di panda

Panda Pups

In quel giorno memorabile fu chiaro a tutti fin da subito che c’era stato un forte vento, tra le fronzute recinzioni della Base di Ricerca di Chengdu per l’Accoppiamento dei Panda (BDRCPLAP?) O in altri termini, che stava per giungere un tifone, carico di nubi delle alterne circostanze. Perché ogni drammatica volta, in ciascun singolo caso, in cui le foglie secche finivano nell’area riservata agli animali, a ciò faceva seguito un’astrusa e incomprensibile battaglia. Con Mei, la responsabile di questo particolare aspetto della loro custodia, che scendeva nell’arena in mezzo ai suoi adorabili protetti, due giovani esemplari di Ailuropoda melanoleuca, localmente detti “orsi-gatto giganti” (dàxióngmāo) oppure “orsi del bambù” (zhúxióng) con lo stesso recipiente usato per portargli il loro vegetale preferito, con la scopa e un grosso portarifiuti di metallo e poi tentare, strenuamente, di rettificare il senso di disordine che da fastidio al capo dell’istituto, ai colleghi guardiani, al gruppo dei visitatori. Da fastidio a tutti, tranne a loro. I panda. Che dinnanzi alle montagne che si stagliano sull’orizzonte, suggestione di una vita libera che non faranno mai, sembrano quasi aver giurato l’uno all’altro: “Io, mi divertirò tutto il possibile, finché sarò in possesso dei miei giorni migliori. E tu? E tu?” Ciò che segue è ormai leggenda, nell’ambiente professionale degli ammaestratori di panda, così come tra gli osservatori da lontano, passanti casuali del vasto e labirintico catalogo dei video con i cuccioli sul web. Immaginate per comparazione uno scoiattolo, che tenti di radunare tre ghiande in un prato mentre un passero le becca per sentirne l’ottimo sapore. Il roditore riuscirà a ad avvicinarne un paio,  per poterle poi nascondere fino alla fine dell’inverno. Poi si affretterà verso la terza, spostata via da un colpo dell’uccello dispettoso. Ma recuperata quella, con suo sommo dispiacere, scoprirà che lo stesso fato è ormai toccato alle altre due, finite a una distanza di diverse paia di decine di centimetri, costringendolo a ripetere tutto da capo. E così via.
In questi giorni in cui il futuro dei panda giganti appare più lungo e prosperoso che mai, visto l’aumento di popolazione consentito dallo sforzo di installazioni come quella di Chengdu, torna nuovamente attuale un chiarimento relativo a questo animale così giustamente amato, di cui quasi nessuno, tuttavia, conosce le reali specifiche comportamentali: se fossimo persone completamente insensibili, potremmo affermare che il più celebrato orso della Cina sia a tutti gli effetti un rompiscatole viziato. Ma la giusta maniera per esprimersi in materia, perché valida a comprendere il fondamentale nesso dell’intera questione, è che in gioventù esso possiede in se un’incommensurabile desiderio di comprendere e capire il mondo. Il che significa, esattamente come accade per noi umani, giocare. Facendo fruttare gli strumenti di cui l’evoluzione l’ha dotato, tra cui l’osso sesamoide attaccato ai tendini di ciascuna zampa, ingrossato per svolgere in qualche misura le funzioni di un vero e proprio pollice, con la funzionalità teorica di agguantare i germogli di bambù. Ma che funziona altrettanto bene per afferrare il bordo di una cesta di fibre intrecciate, come pure il manico di una scopa e i portarifiuti. Così, prima ghianda: la guardiana sorride, stacca l’orsacchiotto dal recipiente, mentre nel frattempo un altro gli si aggrappa ad un gamba. Seconda ghianda: Mei sorride, spinge via quel malandrino, mentre già il fratello sta agguantando gli altri attrezzi, con l’unica finalità apparente di gettarli a terra. Terza ghianda: Mei sorride, sconsolata. Ma come chi lavora con i panda già saprà molto bene, tutto questo non è ancora nulla, rispetto a quello che può far succedere il più amato dei divoratori seriali di piante…

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La lumaca più grande che abbiate mai visto

Black Sea Hare

A seguito delle feroci scorribande, i pirati si recavano presso una spiaggia nota solamente a loro, scavavano una buca e vi depositavano una parte del bottino. Ciò rappresentava, se vogliamo, il gruzzolo per la vecchiaia, la loro pensione. Ma la vita in mare è già davvero molto dura, e questo senza aggiungere i problemi di un brutale fuorilegge. Così questi individui, predoni e malviventi, spesso finivano per incontrare da vicino palle di cannone, lame di baionetta, punte di sciabola o i denti acuminati di uno squalo, dopo essere stati gettati fuoribordo dalla vittima che si trasforma in trionfatore. Lo scrigno del tesoro, dopo un tale evento, rimaneva incustodito per chiunque avesse voglia di cercarlo, ricordando, come da manuale, che la “X” marca il punto, ma non sempre puoi sapere ciò che troverai laggiù. E non è poi così diversa dalla vita del cacciatore di tesori, anche quella del naturalista cercatore, colui che cerca di trasmettere la sua passione, in Tv o sul web, mediante l’entusiasmo di scovare le creature più bizzarre, misteriose, all’apparenza aliene del pianeta Terra. Coyote Peterson, protagonista di tre differenti serie dagli alti valori di produzione ospitate sul suo canale Brave Wilderness, è molto bravo in questo. Perciò quando l’abbiamo visto dirigersi verso le pozze di marea (tidal pools) sulle coste del Pacifico, in prossimità della città di Los Angeles, ben sapevamo che lì c’era un qualche cosa di straordinariamente speciale, una creatura degna di essere spontaneamente approfondita. La lepre di mare, grossa e nera, più impressionante che sia mai stata inquadrata da telecamera umana.
Ci si arriva per gradi, ovviamente. Altrimenti come sarebbe mai possibile costruire un adeguato grado di suspense? In questa occasione speciale, il conduttore si è anche procurato l’assistenza di Aron Sanchez, presentato al pubblico come un esperto di questo particolare bioma naturalistico, caratterizzato da significativi e frequenti processi di mutamento ambientale. I due a quel punto, senza neppure l’aiuto di una vanga o un coltello fra i denti per autodifesa, iniziano a cercare in parallelo il ricco patrimonio vivente di cui sopra, la cui presenza, per quanto assai probabile, pare stranamente ardua da riconfermare nel momento attuale. Anche perché il gesto stesso di muoversi nel mezzo degli scogli tra cui l’acqua resta ferma da una fase all’altra della giornata, e proprio per questo rese frastagliate e scivolose come non mai, richiede un senso d’equilibrio e una cautela che probabilmente, eluderebbe i più. Non è certo un caso se questa particolare location, pur con tutte le sue notevoli attrattive naturalistiche, risulta vergine di strutture artificiali e ragionevolmente incontaminata dal turismo. Cammina e ri-cammina, proprio quando i due sembravano pronti a gettar via la spugna (ma questo forse era dovuto) si ode Sanchez che conferma, esultante: “L’ho trovata!” (per i più impazienti, succede al minuto 3:44). Sulla scena accorrono, dunque, Coyote con la telecamera. Per mostrarci qualcosa che non dimenticheremo tanto facilmente.
La lumaca era lì, in attesa. Un mostro da 60 cm abbondanti, peso stimato: 4 Kg e mezzo. Ma sia chiaro che siamo assolutamente nella normalità di questa particolare specie di gastropode opistobranchio, la Aplysia vaccaria, creatura che comunemente viene definita lepre di mare nera. Il libro Pacific Coast Nudibranchs di David Behrens, pubblicato per la prima volta nel 1980, citava addirittura un esemplare da record che fu registrato misurare 99 cm dalla testa alla punta della coda, per ben 14 Kg di peso. Praticamente, quello di un cane di taglia media. Chi avrebbe potuto esimersi, trovandosi dinnanzi a un tale essere, dal tendere le mani e raccoglierlo immediatamente, per portarselo a pochi centimetri dal volto? Certo non lui…

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