“Buongiorno Chantelle, ti saluto dal luogo delle operazioni.” Alza l’indice e il pollice, afferra al volo un’ombra nera. Quindi con un gesto rapido, la getta via. “Questo sterminio lo dedico a te. SQUISH!” Internet ci appare, in particolari occasioni, come un lungo corridoio in cui riecheggiano le voci. Il verbo di esperienze disparate, vissute da individui che tendono a considerarle, senza falla, meritevoli di essere diffuse tra l’inconsapevole comunità. Perciò se Timmy dice Rosso, Jimmy, Getty e Swifty contribuiranno molto spesso alla conversazione, descrivendo con dovizia di particolari la loro esperienza pregressa col col colore Rosso e l’eventuale preferenza per il Blu. Immancabilmente seguìta dal modo in cui quest’ultimo ha dato un tono alla loro infanzia e gioventù. Ma cosa succede, invece, se quel fomentatore di dialoghi scegliesse di accennare alla questione con la “V”? Il pericolo ronzante, il terrore delle case, il caccia intercettore a strisce con le zampe prensili ed il morso doloroso, ma ancor peggio di quest’ultimo, l’arma del temuto attrezzo velenoso sul sedere, il periglioso, umanamente deleterio pungiglione. Panico immediato nell’ambiente, un brivido diffuso: “Una Vvvv-vespa, dddd-dove?” Nei ricordi, solamente nei ricordi. “Aaah, allora DEVO necessariamente raccontarti di una volta al campeggio in cui…” E a quel punto, si trasforma in un continuo. “Io ne ho vista una, durante gli anni del liceo, che era grossa >—< così…” A cui fa eco un gruppo periferico di musicanti, al suono accelerante del tamburo: “Durante la sfilata, mi era entrata nel trombone, nel trombone, sai cosa vuol dire?” E via così, finché ciascun aneddoto raggiunge il culmine, e immancabilmente si trasforma in una storia di uccisioni. “Fiumi d’insetticida, caricata dentro il Super Soaker, poi sparata fuori dalla piccola finestra del mio bagno!” E ancora “Sono uscito con due bombolette, una per mano. Dopo un rapido passaggio in strafing sopra al nido, ho messo gambe in spalla urlando la mia rabbia per l’effetto dell’adrenalina.” Senza considerare il tecnico, colui che conoscendo la potenza della chimica, afferma che niente di meglio esista a questo mondo di semplice acqua e sapone, perché la prima compromette le molecole di carta dell’ammasso globulare, mentre il secondo con il semplice contatto, corrode l’esoscheletro vespoide e uccide il proprietario in due respiri. Sempre più voci, un maggior numero di versi. Finché fra tutti non compare un uomo dalla provenienza incerta. Alto, cupo, calvo, dalla pelle scura. Lui non ha bisogno d’imporsi, perché basta la sua semplice venuta per indurre un senso d’assoluta reverenza. “Io” inizia ad annunciare accompagnato dal rimbombo del silenzio pressoché totale: “Ho avvolto queste mani attorno all’alveare. Poi ho stretto saldamente, per ucciderle in un solo battito di ciglia. Tutte quante, fino all’ultimo uomo. Fino. All’ultimo. Uomo.”
È una visione alquanto atroce. Uno scenario che fa senso, per almeno un paio di ragioni. Da una parte, mette ansia perché fa temere per l’incolumità di costui, il cui nome non ci è noto, che almeno in apparenza sembrerebbe non aver alcun senso di autoconservazione. Dall’altra per il fatto che, benché sia piuttosto incredibile nei fatti, le pericolose vespe finiscono per farci un po’ pena. Letteralmente schiacciate e fatte a pezzi dalla spropositata forza sovrartropode, sfruttata con spietata sicurezza e pregiudizio da quest’individuo alquanto terrificante. Reso alle nostre orecchie tese ancor più misterioso dall’accento insolito, che secondo un’opione diffusa potrebbe provenire dalla repubblica isolana di Trinidad e Tobago. Mentre la lingua è chiaramente inglese e per l’appunto ci troveremmo, almeno secondo il rilevante articolo del Daily Mail, esattamente a Lutz, in Florida. Un luogo da 19.000 abitanti famoso essenzialmente per due motivi: un’insolita abbondanza di Cleistocactus, che ha fatto chiamare tale centro abitato con il nome informale ma simpatico di “Cappello di Cactus” ed il fatto che nei pressi sia stata girata una parte significativa di quello che è probabilmente il film più famoso di Tim Burton, Edward Mani di Forbice. A questo punto, il paragone è d’obbligo, il risultato fin troppo chiaro: neppure il tenebroso uomo artificiale, esperimento di un moderno Paracelso, avrebbe abusato dei propri taglienti con questa spregiudicatezza, senza temere la vendetta delle piccole abitanti dell’insediamento. La puntura di una vespa non è cosa da poco. Ma sapete cos’è peggio? Quella di due, venti, trenta vespe. Eventualità tutt’altro che improbabile, quando si considera la loro rinomata furia comunitaria, accentuata ulteriormente dall’impiego dei feromoni che gridano: “Uccidi, uccidi e uccidi ancòra…”
ambiente
Caramelle di lumaca tra i giuncheti del bayou
Non è un ambiente particolarmente adatto agli umani, si può ben dire con estrema enfasi e profonda consapevolezza: questa vasta pianura alluvionale dove i sedimenti del fiume Mississipi, ad ogni fluttuazione meteorologica, si espandono e ritornano da dove sono provenuti, lasciandosi alle spalle un gigantesco pantano. Non quello risultante da una pioggia o un temporale estivo, destinato a prosciugarsi con i primi soli della primavera. Ma uno stato di costante umidità del suolo, con acqua che ristagna, eserciti di pesci, rane, coccodrilli e zanzare. Ma anche preziosa vegetazione e una notevole biodiversità. Nella malsana, non bonificabile palude. Eppure da queste parti, in prossimità del territorio di New Orleans, il rapporto delle persone con l’ambiente si basa su una serie di presupposti molto caratteristici, tali da trovare un senso a tutto questo, ed in qualche modo, trasformarlo in una valida risorsa. È perciò del tutto comprensibile la reazione d’istintiva diffidenza e un vago senso di premonizione, vissuta dalla prima guida turistica, pescatore o studioso della natura, nel momento in cui lo sguardo si posò accidentalmente sulla strana cosa. Una specie di…Grossa gomma da masticare rosa, fatta aderire sopra la corteccia di mangrovia da un agente misterioso e lì lasciata, a monito apparente del costante senso d’ingiustificata familiarità. Poiché a quel punto, con un rapido sguardo gettato tutto attorno, di simili cose ne sono comparse non dieci, ma un numero variabile tra cento e quattrocento, ad evidente dimostrazione che si, qui c’è un qualche tipo di problema. Siamo tutti vittime di un’invasione? Chi è lo strano mattacchione che trova piacere a fare questa cosa? No, no, nessuno. Davvero. Di umano. Ma qualcosa di diverso, viscido e molliccio, che proviene da una terra relativamente lontana: il Sud America o in alternativa, per alcune specie, le profondità ben più remote dell’Africa nera. Tutto questo è opera della lumaca mela.
Succede di notte, quando finalmente nella terra umida comincia la stagione del silenzio. Il momento in cui gli animali tacciono, e nessuno di volante, strisciante o che sia in grado di tendere un agguato fa nient’altro che dormire, nel profondo della propria fangosa tana. Perché è soltanto allora che la chiocciola grande fino a 15-20 cm emerge dall’acqua, ed inizia lentamente ad arrampicarsi. Sopra un filo d’erba, sul macigno, sulla corteccia, sullo scafo della vecchia imbarcazione rovesciata e abbandonata dall’uomo. Finché i suoi gangli cerebrali, programmati attentamente dall’evoluzione, non comprendono che quello è il posto giusto, al sicuro dai pericolosi predatori acquatici. E proprio lì, depone le meravigliose uova. È una visione decisamente surreale, considerato l’aspetto complessivo delle stesse: piccole palline di pochi millimetri di diametro, di un colore quasi fluorescente e all’apparenza innaturale, che fuoriescono dal guscio del mollusco ed iniziano a muoversi lungo il suo corpo, come trasportati da una macchina a nastro industriale. Una quantità sempre maggiore di materiale, il quale, una volta raggiunta l’estremità dell’animale, aderisce alla superficie scelta grazie ad un composto della sua miracolosa saliva. Quindi, completata l’opera, la lumaca inizia il lungo viaggio di ritorno verso i suoi territori di caccia e di accoppiamento, che sono sempre, rigorosamente sul fondale. È così una doppia vita, questa delle Ampullariidae o lumache mela, o ancora mistery snails, come amano chiamarle gli americani, particolarmente per il mercato degli acquari, da cui in un momento imprecisato fecero la loro mossa di evasione. Che nascono fuori dall’acqua nel giro di 2-4 settimane da questo evento, ma vi fanno subito ritorno e poi lì restano, fino all’epoca della maturità. Quindi, chiaramente, il ciclo ricomincia e così via fino all’eternità. Quale sarebbe mai, dunque, il problema di tutto ciò? È presto detto: esse non smettono mai di farlo. Iscritte ad ottima ragione nell’elenco delle 100 specie più invasiva al mondo, queste grosse lumache si riproducono più volte l’anno, producendo ogni volta svariati grappoli da 400-1000 uova ciascuno. I quali, oltre a risultare ben protetti dai pericoli della palude, sono del tutto incommestibili per chiunque tranne la formica rossa (Solenopsis geminata) in funzione di un composto neurotossico che le ricopre, come evidenziato per l’appunto dalla vistosa colorazione aposematica delle stesse. Nessuno sa, in effetti, com’è possibile che la formica riesca a digerirli. E tutto questo non finisce qui: poiché queste lumache, nei fatti, non hanno predatori in grado di scovarle e penetrare il loro resistente guscio, nel quale possono rinchiudersi completamente grazie all’opercolo sul loro dorso, e sopravvivere per lungo tempo in un luogo ben distinto e irraggiungibile dal mondo. Finché un segnale noto solamente a loro, nuovamente, non gli dice di trovare un/una compagna, per trasmettere se stessi fino alla prossima generazione. Si, avete capito bene: QUESTE lumache, come del resto innumerevoli altre, non sono ermafrodite e presentano due sessi ben distinti tra di loro.
Quattro passi nel giardino più letale d’Inghilterra
Qualcosa di terribile alberga nel territorio annesso al castello di Alnwick, posto originariamente a guardia di una strada che attraversa il fiume Aln dall’omonimo barone, attorno all’anno 1096 d.C. Lo spettro ed il residuo karmico degli eventi: da quando circa due secoli dopo, per la sconveniente ed imprevista estinzione della famiglia costruttrifce a seguito di un’accusa di alto tradimento, la residenza fortificata passò ai Percy della Northumbria, che si erano distinti durante la guerra contro gli scozzesi. Molte furono, a seguire da quel giorno, le spietate battaglie combattute in questo luogo. Soprattutto durante la lunga e sanguinosa guerra delle due rose (1455-1485) conflitto dinastico tra i Plantageneti dei Lancaster e degli York, quando il castello diventò un bastione per gli oppositori di Edoardo IV, colui che aveva iniziato, ed avrebbe concluso, il conflitto come re d’Inghilterra. Ma non prima di aver fatto annegare, secondo la leggenda, il suo stesso fratello in una tinozza per fare il vino. Occasione a seguito della quale anche il sostenitore di quest’ultimo Thomas Percy, VII earl di Northumberland, venne imprigionato e messo a morte dal re. Più volte assediato e messo a ferro e fuoco, il castello perse una parte significativa del suo antico splendore e finì abbandonato, almeno fino al XIX secolo, quando Algernon, IV duca di Northumberland, spese 250.000 sterline per restaurarlo, cambiando lo stile degli interni goticheggianti in un più contemporaneo Italianizzante di epoca Vittoriana. Ma i suoi giardini, per quanto ne sappiamo, continuarono a rimanere del tutto privi di fascino, almeno per tutto il secolo del ‘900, durante il quale trovarono l’impiego dapprima come campi coltivati per sostenere lo sforzo bellico, poi nel ruolo di spazio per la coltivazione sistematica degli abeti di Natale. Finché nel 1995 il duca regnante del castello di Alnwick, Henry Percy non morì improvvisamente per overdose da anfetamine, e suo fratello Ralph, a seguito dell’evento, non ereditò il titolo e tutte le proprietà.
Da quel giorno Ralph vive nel castello con sua moglie, l’attuale duchessa Jane Percy, una donna che definire anticonformista sarebbe alquanto riduttivo, la quale mise immediatamente in pratica un vasto ventaglio di idee. Fermamente intenzionata a trarre il massimo dal suo nuovo status nobiliare, ella si dichiarò fermamente intenzionata a trasformare il castello nella più importante attrazione turistica del nord d’Inghilterra. E i passi intrapresi, a tal proposito, risultarono subito in grado di cambiare sensibilmente le cose. Nel giro di qualche anno, il castello ebbe l’occasione di comparire nel primo e secondo film di Harry Potter, prestando le sue alte mura ad Hogwarts, la scuola dei maghi. Contemporaneamente ed anche prima di questo, la Percy aveva iniziato un lungo percorso di restauro e rinnovamento dei giardini, procurandosi l’aiuto di Jacques Wirtz, un architetto famoso per aver lavorato con i Tuileries di Parigi e l’aver contribuito al rinnovamento della residenza del presidente francese. Furono disposte le alte siepi formali, furono portati in sede i rari alberi e le altre piante di pregio, benché nulla, sostanzialmente, corrispondesse alle aspettative del gotha tecnico dei giardini all’inglese. Fu costruita una “casa sull’albero” con centro visitatori e ristorante. Venne poi disposta, al centro del viale principale, una fontana a gradoni, con l’acqua scrosciante che ricordava quella di una grande cascata. Eppure nessuno di questi luoghi, secondo le molte interviste rilasciate negli anni, avrebbe mai costituito quello preferito dalla duchessa di Alnwick. Che si trova, invece, dietro un’alta cancellata di ferro, decorata col simbolo del teschio e delle ossa incrociate.
Può sembrare strano che un luogo costruito come una sorta di Disneyland della campagna inglese, con lo scopo specifico di risollevare una regione spesso trascurata dal turismo, possa ospitare un angolo portatore di assoluta e profonda dannazione. Ma una delle frasi più celebri della duchessa recita: “Ai bambini non interessa conoscere la natura delle piante in quanto tali, o le loro intrinseche connotazioni utili e medicinali. Ciò che cattura immediatamente la loro attenzione è la pericolosità vegetale, il modo in cui una bacca o una foglia possono ucciderti. Senza tralasciare un’approfondita descrizione di quanto sarai destinato a soffrire, prima di raggiungere l’ora della tua morte.” Proprio così: qui al castello di Alnwick, una delle attrazioni più popolari è un piccolo, ma fornitissimo giardino dei veleni. Con oltre 100 piante, provenienti da ogni regione del mondo, ma un più largo spazio dedicato, alquanto sorprendentemente, a molte delle più tipiche ospiti dei giardini all’inglese. Questo risulta essere, in effetti, uno dei punti che il giardino mira ad esporre dinnanzi all’opinione dei visitatori: le piante potenzialmente letali sono tutto intorno a noi in qualsiasi momento, ed invero costituiscono, molto spesso, persino parte della nostra dieta. Poiché sono soltanto le dosi, e la preparazione, a fare la differenza. Secondo una voce di corridoio ripetuta nella maggior parte degli articoli sull’argomento, probabilmente parte in origine di una press release, l’idea del giardino sarebbe venuta alla duchessa a seguito di una visita a Padova, dove avrebbe avuto modo di conoscere direttamente, e cito: “I giardini in cui la famiglia de’ Medici coltivava i veleni da somministrare ai suoi nemici.” Che a dire la verità, sembra un po’ un’esagerazione romantica. È più probabile che ella avesse in effetti visitato, molto semplicemente, il più antico orto botanico di Europa, fondato nel 1545 e che fin da allora, venne usato dall’ateneo cittadino per approfondire lo studio delle piante medicinali. E quelle velenose, che come potrete forse immaginare, molto spesso sono esattamente la stessa cosa.
Le strane creature rotolanti del lago di Akan
Ho inserito nell’acquario qualcosa di nuovo e straordinario, che molto chiaramente viene da lontano: una certa quantità di sfere. Della misura variabile tra i 10 e 20 cm, quasi perfettamente simmetriche, pelose (erbose?) di un color verde brillante che potrebbe ricordare da vicino uno smeraldo. Non nuotano con le pinne, non hanno occhi, non producono rumore. Eppure sono a tutti gli effetti e molto chiaramente, per come si comportano e l’effetto della loro presenza, assolutamente vive. Qualcuno potrebbe chiamarle pecorelle di mare, oppure minuscoli globi terrestri, per una visione idealizzata in cui questo pianeta fosse totalmente, meravigliosamente rigoglioso e ricoperto di vegetazione. Il loro nome scientifico Aegagropila linnaei, mentre i giapponesi, fin dall’epoca della loro scoperta, li hanno semplicemente definiti marimo (毬藻) dalla parola che vuol dire “palla rimbalzante” mari (iga 毬) ed il suffisso mo (藻) riferito alle più svariate creature vegetali delle profondità lacustri, fluviali o marine. Proprio così, sebbene non lo sembri, siamo al cospetto di un’alga. Una delle più particolari ed amate al mondo, per la sua capacità di assumere, in determinate condizioni ambientali, questa forma geometrica pressoché perfetta, in grado di renderla un elemento decorativo. E molto più di questo… Persino una sorta di animale domestico, per lo meno nel suo paese di provenienza, dove gli sono state dedicate leggende, racconti ed almeno due mascotte antropomorfe. E questo non è un caso accidentale, vista la regione in cui si trova la loro maggiore concentrazione al mondo: un lago di origine vulcanica sito tra le montagne O-Akan e Me-Akan, sull’isola settentrionale di Hokkaido, parte dell’arcipelago in cui tutto, ma proprio tutto, tende ad acquisire un paio d’occhi e deambulare in giro sulla base di un modo di essere in qualche maniera buffo o grazioso. Eppure, persino in questo, le sfere marimo presentano delle significative particolarità. Poiché risultano legate, per lo meno nella loro interpretazione contemporanea, al particolare mondo delle tradizioni degli Ainu, l’antico popolo che un tempo abitava questi luoghi in solitudine, prima che le genti del Sole, provenienti dalla terra meridionale di Yamato, li assimilassero completamente nella loro società. Il che, da un certo punto di vista, non è sbagliato: ogni essere naturale, in effetti, può costituire per la religione di tale popolo il ricettacolo di un Kamuy, o spirito della Natura, in grado di giudicare e ricompensare il comportamento meritevole dell’uomo. Una visione che del resto si ritrova, in qualche misura, anche nella più diffusa religione dello Shinto, la Via degli Dei. L’effettiva valenza folkloristica di questa graziosa pianta, tuttavia, è stata ripetutamente messa in dubbio, vista la natura non confermata dell’unica u’uepekere (storia a trasmissione orale) sull’origine dei marimo, costituita da una stereotipata storia d’amore tra un cacciatore e la figlia del capo villaggio, proibita nel più universale dei drammi dalle solite norme della società. I cui spiriti si sarebbero trasformati, dopo l’ora della loro morte, nelle magnifiche sfere verdeggianti, in qualche modo rappresentative della perfezione dei sentimenti umani. Mentre una visione più realistica dell’intera faccenda è che le Aegagropila fossero in effetti addirittura sgradite agli Ainu, che le chiamavano torasampe (folletto dell’acqua) per la loro tendenza ad impigliarsi tra le maglie delle reti da pesca.
La pianta in questione giacque dunque dimenticata, nelle profondità di un tale remoto lago, fino all’epoca del 1898, quando il botanico Tatsuhiko Kawakami, la riscoprì e classificò dal punto di vista scientifico, accomunandola alla colonia di simili creature scoperte esattamente 55 anni prima da Anton E. Sauter presso il lago Zell, in Austria, e che ben presto avrebbero rivelato la loro presenza anche in Islanda, Scozia ed Estonia. Benché in effetti, in nessuno di questi luoghi il “muschio acquatico” avrebbe mai raggiunto le dimensioni e la bellezza della sua versione giapponese, rendendo facile comprendere perché soltanto lì, fra tutti i luoghi citati, la pianta fosse destinata a diventare ben presto un Tesoro Nazionale formalmente designato. Stato di grazia mirato a preservare un tale bene naturale ma che invece ottenne l’effetto diametralmente opposto, quando negli anni ’20 dello scorso secolo un’ampia fascia di popolazione decise all’improvviso che doveva possedere una simile curiosità, ed il lago iniziò ad essere oggetto di una caccia feroce, con migliaia di piantine sottratte ogni settimana e rivendute a caro prezzo sul mercato delle grandi città. Quello fu l’inizio dell’epoca più oscura per i marimo, in un capitolo di una storia che, tuttavia, avrebbe avuto una sorta di risoluzione verso l’inizio degli anni ’50.