Rasoio marino: i pensieri di una gazza dallo sguardo sottile

È principalmente un concetto che deriva dall’invenzione del metodo scientifico, l’idea secondo cui l’occhio dell’osservatore non debba modificare la percezione della natura. Ma che dire della percezione della creatura dotata di un occhio che osserva, a sua volta, l’osservatore? Bulbo dell’acquisizione della conoscenza, scuro, grande, lacrimoso che contribuisce al senso generale di un agglomerato di fenotipi, intesi come l’essenza risultante di svariati millenni d’evoluzione. In salita sulla strada che conduce via dal mare e fin sopra le rocce ove risiede, in trono, l’alca. Torda, nello specifico ed è così che recita il suo nome latino (Alca t.) benché presso i suoi luoghi di provenienza, gli indigeni o locali cacciatori preferiscano chiamarla “becco a rasoio” con diretto riferimento alla sua indole carnivora ed il piglio di perfetta tuffatrice tra le onde ricche di tesori guizzanti. Laddove il suo tratto maggiormente distintivo, soprattutto se la si osserva da vicino ed a partire dalla documentazione fotografica dei nostri giorni, resta proprio la livrea della sua testa nera con due strisce sottili. Una verticale sopra il becco e l’altra ad accentuare, come dicevamo le aperture iridate per la percezione della luce. Che sembrano passare in secondo piano, di fronte all’impressione che l’uccello indossi un qualche tipo di occhiale, visore o mascherina oculare. L’effetto estetico, per un volatile dalla forma idrodinamica che ricorda vagamente un pinguino assottigliato, è sorprendente: quasi come se osservando di nascosto egli abbia qualcosa di effettivo da nascondere ed in conseguenza di ciò, risulti essere tre o quattro volte più pericoloso. Il che non è così lontano dall’effettiva realtà dei fatti: come la maggior parte degli altri uccelli della famiglia degli alcidi, ed invero l’intero genere dei caradriformi, il razorbill è un carnivoro che mangia altri carnivori, mangiato a sua volta da carnivori. Il che lo pone nella difficile posizione in bilico di un ingranaggio funzionale al grande sistema interconnesso dell’Atlantico settentrionale, dove si concentrano i suoi territori riproduttivi e principali siti di residenza. Il che non impedisce certe volte in inverno, durante i lunghi tragitti migratori che è incline a percorrere, che scelga di spingersi fino alle parti centrali del Mediterraneo, raggiungendo agevolmente l’Italia, Malta, la Grecia e il Maghreb. Con la comparsa in grande numero documentata ad esempio sulle coste della Toscana negli anni 1885, 1912, 23, 53, 81-82. E nella casistica più recente, tra il novembre ed il dicembre del 2022, con ampia copertura pressoché spontanea ed immediata sui social network. Certo, quanto spesso ti aspetteresti di vedere, a queste latitudini, un pennuto cibernetico che pare fuoriuscito direttamente dal catalogo accessorio del film Tron?

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Il piccolo terrore super soffice del Borneo, lo scoiattolo vampiro

L’idea che possano esserci dei mondi, paralleli al nostro, dove le regole del mondo e della fisica sono simili ma sottilmente diverse. Spazi alternativi biologicamente e in senso preternaturale, in cui l’ecosistema è stato capovolto da casistiche perverse o alternative. E le creature appaiono padrone della propria foresta, piuttosto che il contrario. Orbene quando il tempo è quello giusto e nessun tipo di ostacolo immanente può frapporsi a un tale fenomeno, le siepi universali possono lasciar filtrare un varco. Il singolar pertugio se si varca il quale, l’ospite può diventare permanente. A patto che sia piccolo abbastanza, da passarci attraverso! Come Rheithrosciurus macrotis, l’abitante lungamente trascurato degli spazi collinari interni al Borneo. Che non vive sopra gli alberi, come potremmo essere inclini a immaginare, bensì attorno ad essi e nelle siepi, essendo un tipo di scoiattolo chiamato “di terra”. Il che non è neppure, a ben pensare, la caratteristica particolare che lo definisce in senso maggiormente evidente; bensì la terza in termini di trattazione enciclopedica, dopo la grande coda da cui prende il suo nome comune (trattandosi di sciuride “dal ciuffo” o tufted) e la leggendaria propensione, niente meno che terrificante, a tendere dei sanguinari agguati ai cervi. Da una scena più che impressionante a descriversi, apparentemente ben nota ai nativi, consistente nel roditore non più lungo di 33 cm che balza giù dai rami come un personaggio di Assassin’s Creed, aggrappandosi con le sue zampette al collo del grande mammifero ungulato. Procedendo quindi a mordergli, sapientemente, la giugulare. Tanto che ogni volta che un cacciatore di etnia Dayak vede una di quelle nobili bestie a terra, esanime e coperta di sangue, già si aspetta prima di guardare d’incontrare la mancanza più probabile di quelle viscere malmesso. Poiché il “vampiro” mangia in modo pressoché esclusivo, ciò dice l’aneddoto, il fegato ed il cuore delle vittime dei propri morsi impietosi. Verità? Fantasia? Il fatto che in effetti esistano degli scoiattoli carnivori, come il gigante pallido (Ratufa affinis) della stessa isola del meridione asiatico, cacciatore ben documentato di uccelli e piccoli mammiferi, non dovrebbe trarci in inganno. Soprattutto di fronte alla semplice analisi geometrica della lunghezza delle “zanne” del Rheithrosciurus, una volta messa in relazione allo spessore della pelle e la profondità della giugulare del tipico muntjac dei sussistenti lidi. Il che ci porta alla VERA dieta del nostro draculiano abitatore, a suo modo non molto meno eccezionale dell’ipotesi testimoniata dal folklore isolano…

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“Che il tuo giardino possa essere visitato dal poligono della tigre” – Antico anatema giapponese

La timida foglia in mezzo all’erbetta sembrava proprio, ai tuoi occhi, il piccolo cuore stilizzato tra le pagine di un fumetto per bambini. Amore, grazia ed armonia erano i sentimenti che suscitava: “Oh, fantastico! Evviva la natura, che porta spontaneamente le piante nel mio giardino…” Avrai detto, meditando sull’aspetto che una simile ospite avrebbe teso a dimostrare. Finché pochi giorni dopo, attorno ad essa ne spuntava un’altra. E poi un’altra ancora. Ben presto la massa fibrosa e intricata continuò a crescere, e tu avresti potuto fare una di due cose. Essendo una persona ottimista o disinteressata alle cose vegetali: lasciarla stare. Un grosso errore. O contando sull’intuito e il potere del pollice verde, con grosse forbici ed altri attrezzature: tagliare, tagliare. A conti fatti, uno sbaglio persino peggiore! Poiché non è possibile sconfiggere ciò che non vuole e non può morire. Per il mandato ereditario dei propri fenotipi darwiniani, che l’hanno resa invincibile in un’ampia gamma di possibili circostanze incluse quelle, nello specifico, naturali. È il superamento in un certo senso della siepe concettuale, oltre la quale un qualsiasi essere vivente, semovente o meno, può serenamente affermare di essere in grado di sopravvivere all’estinzione dell’uomo. E se lasciato alle proprie macchinazioni, cominciare serenamente a sovrascriverlo, fin da ora. Fallopia japonica o poligono, tuo nome è verità. Accompagnata da una rivelazione: se qualcosa convive tranquillamente con gli uomini nel suo spazio legittimo di appartenenza, questo non significa che potrà farlo altrove. Dove “altrove” è praticamente ogni singolo altro paese al mondo, inclusi Inghilterra, Stati Uniti, Olanda, Italia e luoghi lontani, come l’Australia, in cui attraverso l’ultima decade una simile pianta ha trovato l’opportunità di affondare i suoi rizomi. La parte del ramo che cresce sottoterra, invisibile e impossibile da individuare, finché gradualmente, inesorabilmente, sbuca attraverso la terra, le crepe dell’asfalto, le intercapedini delle mattonelle. I tubi dell’acqua o del gas. Le pareti. Capite ciò di cui sto parlando? Ci sono piante come l’edera che ricoprono graziosamente le dimore avìte, disegnando superfici eleganti che alludono alla natura. Altre, dal conto loro, le stritolano e ci passano attraverso. Persone colpite dalle fasi successive di questa condanna, sanno che ogni volta che si allontanano dal proprio giardino per più di una settimana, lo troveranno di nuovo marcato dai segni inesplicabili dell’invincibile dannazione. E pensare che questa pianta oggettivamente ornamentale, alta fino a 4 metri nei periodi delle sue infiorescenze gialline e visivamente simile per il resto a un bambù dal gambo maculato (da cui l’impiego nel suo paese d’origine del nome Itadori – 虎杖: canna della tigre) fu trasportata intenzionalmente in Europa a partire dal XIX secolo, da botanici convinti di aver trovato la specie perfetta per ornare i viali e stabilizzare i fiumi. Vedi il caso dell’avventuriero tedesco Philipp Franz von Siebold, che ne scalò un vulcano per riportarne una radice agli orti londinesi di Kew. Aprendo letteralmente l’angusto pertugio, senza ritorno, alla scatola di Pandora e tutto ciò che poté derivarne in epoche ulteriori…

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Macronectes, la draconica presenza che dipinge con il sangue i mari del sud

La creatura campeggia nell’inquadratura al centro di uno spazio circolare, delimitato con cornice tondeggiante da un profilo lievemente irregolare. Vermiglio è il suo perimetro, come figura il tono delle linee oblique che s’intersecano da un lato all’altro della scena, come fili dell’ordito di una sciarpa da indossare a Natale. Gli occhi sbarrati e le ali parallele al suolo di una spiaggia che compare in parallasse, nel frattempo, sembrano esprimere un senso di cupa soddisfazione per l’uccello, dal cui becco uncinato cola un rivolo che tinge il sottogola e le piume grigie del suo petto reclinato in avanti. Non ci vuole poi un tempo eccessivamente lungo, per comprendere che quella macchia è SANGUE, come altrettanto si dimostra essere, dopo un’analisi più approfondita, l’intero pigmento utilizzato per il macabro decoro di questa scena. In cui la telecamera, o punto di vista, è stata coraggiosamente messa non vicino bensì dentro la carcassa di quella che può essere soltanto una foca, attualmente sottoposta al duro compito di dare nutrimento a colui che potrebbe essere, o meno, il suo uccisore. Di sicuro, difficilmente la tipica ossifraga meridionale (Macronectes giganteus) potrebbe essere incline a formalizzarsi. Lontana parente dei gabbiani in quanto volatile marino membro della famiglia dei Procellariformi, caratterizzati dal possesso di un distintivo tubulo per l’espulsione del sale contenuto nell’acqua marina che riesce entrargli nell’organismo, essa condivide con il più diffuso, comune e comparativamente piccolo esponente del clan dei Laridi le abitudini alimentari fortemente opportuniste, nonostante la preferenza per la carne di creature più grandi ne faccia l’approssimazione più vicina di un avvoltoio o aquila diffusa principalmente a meridione del 60º parallelo. Oltre ad essere, in assenza degli artigli prensili del tipico rapace di terra, in questo caso sostituiti dai ben più pratici (nel suo contesto) piedi palmati, un vero e proprio carro armato inarrestabile tra i pinguini e i cuccioli di foca.
Con i 99 cm di altezza, fino 205 di apertura alare ed un peso massimo di 5,6 Kg, accompagnati da una propensione al combattimento e l’aggressività degni di essere l’invidia di un grande felino africano. Finanche alla conferma del beneamato detto latino Canis canem edit, vista la predisposizione ben documentata al cannibalismo, anche in assenza del periodo di magra che nel mondo animale anticipa comunemente l’occorrenza di una tale prassi senza ritorno. Così veniva documentato, per l’appunto, in uno studio del 2021 redatto da scienziati dell’Università della Valle del Río dos Sinos capace di confermare effettivamente un sospetto lungamente mantenuto in considerazione tra coloro che si erano trovati a stretto contatto con simili creature. Giacché non esiste praticamente nulla, a questo mondo, che possa rallentare la famelica esistenza di un’ossifraga intenta a cacciare…

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