La forma ideale di una creatura del mondo naturale non è sempre facile da determinare utilizzando unicamente l’impressione che se ne ricava. Sarebbe assolutamente logico, persino condivisibile, immaginare per i pipistrelli un paradigma simile a quello degli uccelli, glabri soltanto al momento della nascita e per i qual l’utilizzo delle piume è necessario alla sopravvivenza, in quanto un requisito imprescindibile al fine di poter spiccare il volo. Laddove le loro controparti che decollano dopo il tramonto dell’astro diurno, per lo meno nella stragrande maggioranza dei casi, volano soltanto grazie all’aerodinamica e la forma stessa del corpo, con ali membranose costituite da un sottile strato di pelle e l’unico rivestimento di una peluria fine, utile soltanto a proteggerli dal freddo e le intemperie del ciclo annuale dei mesi. Come aeroplani progettati con finalità designate all’interno di una galleria del vento, ogni altro aspetto di questa fisicità è la precisa risultanza delle forme necessarie ad instradare ed imbrigliare il flusso che genera portanza. I pipistrelli dalle ali corte ed ampie, ad esempio, sono più agili ma volano con una certa cadenza rallentata. Quelli che hanno arti sottili ed appuntiti come il Cheiromeles torquatus, risultano invece particolarmente veloci e decisi nello svolgimento delle proprie attività di foraggiamento. Che cosa succede, dunque, rimuovendo l’inutile pelliccia dall’equazione? Nella qui presente creatura definita per analogia con altre specie il “pipistrello bulldog nudo” dal suo primo classificatore nel 1824, l’americano Thomas Horsfield (1773-1859) è possibile trovare una risposta parziale all’importante domanda. Non fino in fondo perché, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il chirottero in questione presenta coperture irsute in vari punti del proprio corpo, inclusa la testa, la coda facilmente distinguibile capace di muoversi liberamente, il collo e le zampe davanti. Benché la pelle scoperta del resto del suo corpo basti a renderlo il singolo micro-pipistrello insettivoro più scattante della Terra (anche il più grande, con 138 mm di lunghezza) che fuoriesce dalle sue caverne come un missile a ricerca per ghermire termiti, ditteri, libellule e altri insetti, individuati grazie all’ecolocazione e trangugiati direttamente durante il volo. Un’attività che risulterebbe già abbastanza impressionante, nella sua pur innegabile utilità ecologica, senza menzionare la partecipazione contemporanea di fino a 20.000 esemplari ad un singolo evento, come documentato almeno una volta negli immediati dintorni di una vasta caverna in Borneo. Risultando una vista abbastanza frequente nell’intero estendersi di un areale fino alla Thailandia, la Birmania, le Filippine e Singapore da giustificare la famosa espressione di un articolo sull’argomento del 1979, in cui un giornalista dello Strait Times affermava: “È un volatile spennato, è un ratto maleodorante, no, è il pipistrello bulldog.” Uno strano modo, senz’altro, per celebrare una delle creature maggiormente riconoscibili di questo vasto habitat di provenienza…
scienza
Inseguendo il sogno vittoriano di un buco magico tra le città distanti
È davvero straordinario in quanti e quali modi gli scrittori di fantascienza siano riusciti a prevedere l’andamento degli eventi futuri. Nelle grandi o nelle piccole cose, dall’esplorazione dello spazio alla costruzione dei primi robot, passando per l’ambito della tecnologia applicata al mondo delle telecomunicazioni. Così William Gibson, uno dei padri della corrente poetico-sociale del Cyberpunk, scriveva già nel 1999 American Acropolis (All Tomorrow’s Parties) il cui uno dei protagonisti della narrazione, dopo gli eventi dei precedenti romanzi, lavorava come guardia di sicurezza in un grande magazzino della catena “Lucky Dragon”. La quale presentava come marchio di fabbrica, oltre al logo titolare, uno schermo con videocamera interconnessa a dozzine di altri dei altri negozi identici dislocati in giro per il paese. Con l’immagine che passava ciclicamente dall’uno all’altro, onde evitare che venissero presi di mira dai “giovani desiderosi di praticare l’esibizionismo erotico” il che del resto non fermava il regolare utilizzo da parte della popolazione generalista di tale apparato al fine di un’ampia varietà di gesti osceni, indirizzati alle anonime controparti dell’altro lato. Spostandoci in avanti di 22 anni dunque, all’inaugurazione di qualcosa di assolutamente e sorprendentemente simile collocato in piazze molto trafficate delle due città di Lublino (Polonia) e Vilnius (Lituania) ci è possibile meravigliarci della quantità di commenti reperibili online, in cui il primo pensiero della gente di Internet sembra essere rivolto alla stessa forma di scurrile vandalismo tramite l’esposizione di natiche o l’immancabile organo genitale, simbolo per eccellenza della noncurante mascolinità dell’individuo contemporaneo. Difficile in effetti immaginare quanto spesso ciò possa essere successo, davvero, alla scultura/installazione artistica di Benediktas Gylys, titolare di una fondazione desiderosa di riavvicinare i due paesi dopo gli oltre due secoli trascorsi dall’ultima e definitiva spartizione del Commonwealth, per l’effetto di forze politiche non necessariamente rappresentative del plebiscito popolare o le aspettative di coloro che ne furono direttamente coinvolti. Dal che l’idea di una struttura di cemento dalla forma ad anello, direttamente e dichiaratamente ispirata all’inflazionato concetto fantascientifico dello Stargate, attraverso cui osservare i passanti che si trovano più o meno casualmente da ambo i lati, venendo in questo modo ripresi dalla telecamere ad alta definizione inserita nei basamenti delle insolite costruzioni. L’incipit perfetto per una perfetta storia d’amore alla ricerca di un/una sconosciuto/a, o il racconto giallo di un compiuto innanzi a un testimone accidentale che si trovava a circa 300 Km di distanza, benché l’eventualità nei fatti pratici una semplice versione sovradimensionata di un Chatrandom o Chatroulette spostata negli spazi pubblici appaia decisamente più calzante nello spazio dell’universo in cui si spostavano gli stessi personaggi immaginati da W. Gibson. Per non parlar dell’estendersi, in direzione cronologicamente anteriore, di un filo ininterrotto con la storia della tecnologia moderna, capace d’immaginare qualcosa di simile già pochissimi anni dopo l’invenzione brevettata del telefono nel 1876. Quando i giornali scrissero, anticipando decisamente i tempi, delle capacità praticamente magiche di un dispositivo battezzato come il telescopio elettrico, o più in breve, telectroscopio…
L’acuto pesce che scansiona con la pelle i colori dei fondali marini
La biomimetica è quel campo della scienza, e della tecnologia applicata, in cui l’ingegno umano sceglie di appoggiarsi ai più avanzati traguardi già raggiunti dalla natura, traferendoli all’interno di ambiti dove possano facilitare la nostra vita. Ma non sempre ciò tende a verificarsi come conseguenza di un intento preciso, risultando altrettanto facilmente come l’effettiva conseguenza dell’approccio collettivo usato per relazionarsi ai fattori ambientali. Che ci porta a riprodurre, l’una dopo l’altra, le cose che troviamo in qualsivoglia modo interessanti, verso la creazione di apparati come la fotografia a colori, la televisione al LED e l’auditorium maxi-sferico della città di Las Vegas. Pixel: questa è la parola chiave. Unità minima del mondo delle immagini, atomo visibile che definisce gli schemi e la logica dell’artificiale visualizzazione di soggetti, schemi o annotazioni. Così come la cellula risulta esserlo, in un certo senso, per gli organismi e le forme di vita bilateralmente simmetriche attorno alla linea di suddivisione di una notocorda. Osservazione utile ad anticipare la maniera in cui le due suddette cose, almeno in un caso in natura, tendono a convergere in un singolo elemento, il cui nome e cromatoforo o “portatore di colori”. Di cui questo pesce è niente meno che un maestro, essendone completamente ricoperto come si trattasse del mantello magico che può dare accesso all’invisibilità. Ave, Lachnolaimus maximus altrimenti detto hogfish (pesce-maiale, per le sue zanne sporgenti soprattutto a partire dalla mandibola inferiore) rappresentante monotipico di un genere dei Labridae, cercatori di molluschi ed altre prede deambulanti tra il disordine vivace della barriera corallina, che consumano grazie all’uso di una bocca instancabile e dotata di notevole prestanza masticatoria. E sono, a loro volta, le vittime elettive di molti pinnuti più grandi, se è vero che risorse assai considerevoli nel loro pregresso evolutivo sono state investite nel produrre una capacità cangiante simile a quella della seppia e di molti polpi del proprio areale di appartenenza. Situato unicamente nell’Atlantico Occidentale, tra il Golfo del Messico, il Canada e l’America Meridionale, dove un team di scienziati appartenenti in massima parte al dipartimento di Biologia Marina dell’Università della North Carolina sembrerebbe aver scoperto la maniera in cui questi prestigiatori riescono a compiere la loro magia visuale. Che ha origine nell’organo più vasto di ogni organismo, ovvero quella sottile membrana protettiva usata per coprire gli organi, i muscoli, i nervi e tutto il resto…
Viaggiando sull’onda di Radcliffe, autostrada galattica del braccio di Orione
L’equilibrio perfetto della rotazione di un fluido può riuscire a generare alcuni dei sistemi maggiormente stabili noti alla scienza umana. L’acqua che circola in una turbina, il sangue all’interno del labirinto venoso, le correnti ventose di un pianeta gassoso. Basta osservare un corpo astrale come Urano o Saturno, in effetti, per comprendere l’elevata occorrenza in natura di cerchi perfetti, disposti attorno al perimetro visibile di una sfera. Ma è nel preciso momento in cui lo sguardo si sposta verso l’esempio principale di quel tipo d’ambiente all’interno del Sistema Solare, la sfera rossastra del grande Giove, che le cose iniziano a farsi complicate. Poiché sussiste su di esso la macchia spropositata, sufficiente a inglobare tre volte la Terra, che costituisce una tempesta inesauribile da almeno 300 anni. Chi, o cosa, può averla causata? In che modo lo spostamento lineare della materia è stato condotto fuori dal suo binario, generando una tale cospicua, ingombrante irregolarità? Ma soprattutto, se una cosa simile può verificarsi su scala così ampia, fino a che punto l’ordinata massa dell’Universo può dirsi davvero prevedibile, ovvero una danza che risponde a crismi e regolamenti rispondenti alla logica dettata dagli astrofisici dei nostri giorni…
Non poi così lontano, è stato scoperto nel recente 2020, grazie ai dati raccolti nel corso della missione spaziale Gaia, così reinterpretati da un team internazionale composto, tra gli altri, da João Alves, Alyssa A. Goodman, Catherine Zucker. I quali si sono ritrovati ad annunciare tra l’incredulità dei presenti, durante un convegno ad Honolulu dell’inizio di quell’anno, la maniera in cui le nostre immediate vicinanze all’interno della Via Lattea apparissero caratterizzate, all’insaputa di tutti fino a quel particolare punto di svolta, da uno schema spaziale inaspettatamente preciso, battezzato per l’occasione e in onore dell’istituto di appoggio “l’onda di Radcliffe”. Una vera e propria struttura della lunghezza approssimativa di 9.000 anni luce e una larghezza di 400, distante “appena” ulteriori 500 dal nostro piccolo angolo di galassia. Il che suscita nei lettori di fantascienza l’immediata immagine all’inizio della Guida Galattica di Douglas Adams, in cui la collettività umana rischia di essere spazzata via per il vezzo di costruire uno svincolo della grande rete stradale interstellare. Ed è di questo, niente meno, che stiamo parlando: una ininterrotta concatenazione, o filo di perle dislocato in senso sinusoidale, di corpi luminosi alimentati dall’energia atomica, intervallati dalla stessa materia gassosa che permea le loro indistinte corone fiammeggianti. Il che potrebbe in ultima analisi farne, nell’opinione degli studiosi, la potenziale nursery o “forgia” mai osservata fino a questo momento storico, dimostrando ancora una volta l’importanza di mantenere una giusta prospettiva. Coadiuvata da una possente, inarrestabile marea di pixel, all’interno di sistemi tecnologicamente irraggiungibili ai nostri insigni predecessori col telescopio…