Gli alberi che assorbono l’oro dal sottosuolo australiano

Nell’esperienza di percorrere questa particolare forma di deserto, inteso come vasto spazio disabitato e non del tutto arido a differenza del più remoto entroterra, la parte sud-ovest dell’Australia può talvolta offrire modo di sperimentare il più imprevisto legame tra il concetto di miraggio e il mondo materiale della natura interpretata dall’occhio umano. Una mera conseguenza dell’alzare il proprio sguardo verso l’orizzonte, all’indirizzo delle intricate diramazioni di un albero di Jarrah solitario, per scorgere una luce lievemente cangiante ai margini delle sue foglie lanceolate. Nient’altro che un effetto, più o meno diretto, dell’accesa luce solare che batte contro l’emisfero meridionale, producendo riflessi variabili tra il verde acceso, il rosso e lievi sfumature dorate. Eppure è stato dimostrato già nel remoto 2013, a partire da una ricerca condotta per conto dello CSIRO (Organizzazione di Ricerca Scientifica e Industriale del Commonwealth) dal geochimico Dr. Mel Lintern, che il più prezioso dei metalli fin dall’epoca remota della nostra civilizzazione fa realmente atto di presenza in quelle foglie, in quantità infinitesimale ma sufficiente ad assolvere a uno scopo molto utile, per quanto ci è dato di comprendere in potenza.
La questione del metallo identificato con il codice elementale AU che si mescola ad un organismo vegetale, entrando a far parte del suo tronco, rami e soprattutto foglie, rientra in una categoria dello scibile senz’altro in grado di lasciare sorpresi: ciò perché, come tanto eloquentemente descritto dallo scienziato russo Vladimir Vernadsky nel 1926 all’interno del suo famoso saggio La Biosfera, l’ordine acquisito del nostro mondo prevede una precisa suddivisione tra sfera Biotica (gli esseri viventi) Abiotica (minerali ed altri elementi) e la Noesi (spazio dei processi cognitivi umani) ciascuna delle quali influenzata in maniera variabile dai nostri desideri e proficui intenti. Come è possibile dunque che una pianta, la più “passiva” forma di vita immaginabile, abbia il coraggio, per non dire l’arroganza di oltrepassare un simile confine, mescolando i suoi stessi geni a ciò che l’ordine della Creazione aveva precedentemente nascosto al di sotto della superficie percorribile dagli umani?
Ciò che il team dell’abile scienziato ha quindi appreso, percorrendo la via suggerita da un sospetto grazie all’analisi spettrografica di alcune foglie raccolte a campione con le potenti microsonde a raggi X del Sincrotrone Australiano di Melbourne, è che non soltanto ciò poteva avvenire, ma non avrebbe potuto mancare di farlo. Per il tramite delle specifiche caratteristiche di alcune specie tra le 700 attestate dell’albero più rappresentativo d’Oceania, prima fra tutte quella del succitato Jarrah (Eucalyptus marginata) con le sue radici capaci di spingersi, un poco alla volta, oltre l’impressionante profondità di 40 metri…

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Riemerge un materiale capace di resistere a qualsiasi temperatura

Luce incandescente al calor rosso che si abbatte sulla mano senza guanti, sopra quella che potrebbe a pieno titolo sembrare una frittella bruciacchiata. Sulla quale, per qualche istante ancora, trova posto un piccolo tesoro di monete. Che si squagliano e appiattiscono, l’una di seguito all’altra, come fossero di cioccolata. In una scena da annoverare a pieno titolo nell’albo d’oro del “Non Provateci Assolutamente a Casa” (e mi sento di reiterare: quasi NIENTE di quanto che fa quest’uomo è sicuro da riprodurre senza un adeguato background chimico o esperienza reale in laboratorio) il famoso YouTuber a tema scientifico NightHawkInLight prende ispirazione stavolta da un celebre segmento della Tv britannica, durante il quale andò in onda la dimostrazione pratica di un invenzione che avrebbe dovuto cambiare il mondo e che invece, per ragioni certamente difficili da determinare, sarebbe stata completamente dimenticata al trascorrere di quel fatidico 1990. Benché intendiamoci, sia difficile immaginare uno scenario in cui manca di fare colpo la scena in cui il presentatore dell’eterno Tomorrow’s World, programma andato in onda per un periodo di oltre 38 anni, punta una torcia ossidrica accesa per svariati minuti all’indirizzo di un’uovo, per poi aprirlo di fronte alle telecamere mostrandone l’interno ancora del tutto crudo. E in effetti l’inventore dietro allo straordinario materiale di cui era stato ricoperto, il parrucchiere per professione Maurice Ward di Hartlepool, contea di Durham, sarebbe riuscito così a catturare l’attenzione di enti di portata internazionale quali la National Aeronautics and Space Administration (NASA), l’Atomic Weapons Establishment (AWE) e le Imperial Chemical Industries (ICE). Senza tuttavia ottenere il lucrativo contratto di fornitura del suo brevetto a cui riteneva di avere un assoluto e imprescindibile diritto. Finché nel 2011, all’età di 78 anni, improvvisamente morì. Forse portandosi, per quanto ci è stato fatto capire da sua moglie e le quattro figlie, la misteriosa ricetta al di là del mondo tangibile dei viventi.
Starlite, era (e resta) il suo nome a scopo commerciale attribuitogli dalla nipote dell’inventore, che poi significa “Luce Stellare” e a dire il vero sono stati in molti a provare a riprodurlo e infine ritenere, in qualche modo, di aver catturato il suo segreto. Il fatto stesso che Ward si fosse dimostrato molto spesso ben disposto a dare in prova dei campioni ai suoi possibili clienti, senza però mai permettergli di analizzarli in modo approfondito, costituisce infatti la prova che dovesse trattarsi di una miscela sorprendentemente semplice, forse persino realizzabile all’interno di una comune cucina. Inoltre materiali simili, benché non esattamente uguali, sono stati nel frattempo perseguiti ed alla fine brevettati in vari campi, dandoci almeno una vaga idea di quello che potesse essere scaturito dalla mente di quel geniale autodidatta all’inizio dell’ultimo decennio del 1900. Così ancora una volta il nostro autore di brevi esperimenti divulgativi, inventa, sperimenta e mette alla prova. Ponendoci di fronte al fatto compiuto di un qualcosa che “potrebbe” forse essere Starlite. Ma la di la di questo, rientra certamente nella stessa categoria di super-materiali termici, capaci di proteggere a partire da un sottilissimo strato persino la delicata pelle umana, dinnanzi a temperature capaci di annientare completamente il metallo. Giunti a questo punto, vediamo di analizzare la scena in cui NightHawkInLight introduceva, col suo solito stile pacato e tranquillo, l’imprevedibile argomento…

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Le molte sorprese di una pianta capace di far volare gli aerei a reazione

Puoi riconoscerla facilmente durante una passeggiata nei boschi decidui centroamericani, ma anche in India, Africa e Sud-Est dell’Asia. Con lo sguardo, per l’aspetto di un alto cespuglio o piccolo albero di 6 metri d’altezza massimi, dai cui rami pendono piccoli grappoli di frutti verdastri tendenti al marrone. O perché no al tatto, vista la resina irritante che scorre al suo interno e ricopre talvolta i rami, capace di indurre arrossamenti pruriginosi, particolarmente in chi presenta una maggiore vulnerabilità genetica ai cianuri e inibitori della tripsina prodotti dalla pianta. Eppure capita spesso, sopratutto tra i più giovani abitanti del suo areale di un mondo vegetale globalizzato, che qualcuno corra incontro alla Jatropha curcas e ne stacchi immediatamente un ramo, col solo scopo di spezzarlo, portarlo alle labbra e… Soffiarci dentro. Si tratta di uno scherzo. Un gioco. Una visione accattivante. Poiché dal compiersi di un tale gesto, consegue l’effetto probabilmente più inaspettato dell’intero repertorio previsto dal regno naturale: nell’aria inizieranno a diffondersi delle piccole bolle di sapone. Nient’altro che l’iridescente conseguenza dell’insolita composizione chimica del contenuto, che include una quantità anomala di saponina. In altre parole, si: è possibile usare una simile sostanza per la produzione dell’olio turco rosso, una delle forme più antiche, ma funzionali, del concetto stesso di una sostanza capace di sciogliere i grassi e rimuoverli da superfici o tessuti. Previa l’aggiunta di acido solforico, al fine d’indurre il processo detto di esterificazione, che trasforma gli acidi organici in esteri e li rende utili a un tale scopo. Ma questo è soltanto l’inizio: una tale pianta, nota agli indigeni americani fin dai tempi più remoti, veniva anche chiamata noce purgante o curativa, per la sua capacità d’indurre la depurazione del corpo una volta assunta in quantità moderata. Per diventare, quindi, pericolosamente velenosa qualora si dovesse esagerare. Un doppio volto condiviso con il suo parente delle euforbiacee Ricinus communis, da cui viene tratta la sostanza lassativa detta in inglese castor oil. Che può anche essere sottoposto a lavorazione, oggi, per creare una forma di carburante biodiesel pronto all’impiego nei campi più disparati del trasporto umano. Come del resto, quasi ogni espressione vegetale che possa essere spremuta o pressata al fine d’estrarre un liquido combustibile sufficientemente privo d’impurità e in conseguenza di questo, del tutto trasparente allo sguardo.
Detto ciò e una volta considerata l’esigenza del consumo pro-capite di carburanti da parte della società contemporanea, accade infrequentemente che il ricino venga usato a un tale scopo, semplicemente perché esistono le alternative economicamente più vantaggiose del mais, la soia o l’olio di canola, un prodotto tratto dalla spremitura della colza. Per non parlare dell’enorme potenziale costituito dalla più celebre macchina per fare bolle del mondo naturale. È particolarmente diffusa in effetti a partire dall’inizio degli anni 2000, una sorta di corrente sperimentale dall’ampio potenziale ritorno d’investimento, specie per la piccola industria agricola e le aziende a conduzione familiare, dedita allo sfruttamento sistematico della Jatropha, in funzione della sua capacità di crescere praticamente ovunque, a patto che la temperatura non scenda mai sotto i 25 gradi. Particolarmente discussa, in ambito agroeconomico, risulta essere dunque il suo potenziale una volta piantata sui terreni per così dire marginali, ovvero che siano già stati privati delle loro principali sostanze nutritive, permettendo così di ritrasformarli in potenziali fonti di guadagno. Come hanno tuttavia scoperto a loro spese alcuni imprenditori che avevano tentato di trasformare un simile approccio nel loro stesso modello di business, poiché stiamo parlando di una pianta non del tutto addomesticata e per questo imprevedibile, non sempre tale presunta adattabilità riesce poi a garantire il raccolto sperato, con immediate conseguenze deleterie sull’investitore poco avveduto o l’intera quantità dei suoi dipendenti. Come in tutte le cose, nella ripartizione dei terreni occorre perseguire il giusto equilibrio…

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Lo strano alambicco giapponese per fare il caffè in 12 ore

Consideriamo, come riferimento, due galassie. La prima creata nel vortice incontrollato di materia all’origine dell’universo, in un turbinìo plasmatico d’idrogeno ed elio, raffreddatosi gradualmente fino al formarsi di molti milioni di stelle, ciascuna delle quali dotata della sua collana di pianeti. A causa dell’intenso calore primordiale dovuto alla relativa densità di materia, tuttavia, nessuno di questi ultimi assume un aspetto del tutto solido e adatto alla vita superiore, disegnando un panorama cosmico di sfere celesti splendide, quanto largamente incontaminate. Nel nostro secondo termine di paragone, invece, l’universo ha già una lunga storia alle spalle. Una stella particolarmente grande attraverso un ciclo durato svariati eoni, raggiunge lo stadio di supernova, ingrossandosi fino all’esplosione, dalla quale scaturisce una quantità inusitata di materiale, che dovrà dare forma ai corpi celesti a noi più familiari. Mentre il nucleo centrale si trasforma in un buco nero, quindi, il gelo siderale si propaga improvvisamente per pervadere ogni cosa. A partire da quel momento, alcuni dei pianeti diventano roccia fusa, poi iniziano a ricoprirsi d’acqua. La prima cellula, intesa come struttura pulsante di esseri che nuotano, respirano e mangiano i loro simili, non può che essere il passaggio successivo. Quale di queste due evenienze relative alle origini del Tutto, dal punto di vista umano, dovremmo considerare maggiormente unica e preziosa? Nel primo caso il “sapore” dell’esistenza può dirsi più coerente, ovvero utile ad osservare l’espressione della natura pura e incontaminata, intesa come massima espressione della catena di causa ed effetto. Nel secondo, invece, albergano aromi prodotti da circostanze imprevedibili, ciascuno dei quali destinato, un giorno, a trasformarsi in un profondo mistero.
Siamo talmente abituati a consumare il caffè caldo, preparato possibilmente attraverso il pratico sistema della caffettiera italiana, che non abbiamo più concezione del modo in cui, negli antichi paesi di provenienza di questo letterale nettare degli Dei, esso è stato apprezzato a temperatura ambiente, attraverso approcci tanto diretti, quanto inerentemente funzionali allo scopo di trasformare i semi di una simile appartenente tropicale alla divisione delle angiosperme, in un infuso prontamente assimilabile dall’organismo umano. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla fatica che comportava, prima dell’invenzione dell’elettricità, mantenere accesa e scoppiettante una fiamma viva, senza considerare la letterale impossibilità di raggiungere le pressioni necessarie a dare origine alla nostra beneamata versione espressa della bevanda. E se non puoi avere le cose subito, tanto vale farle per bene. Giusto? Così abbiamo cognizione del modo in cui le popolazioni d’Etiopia e delle regioni confinanti d’Africa e Arabia, erano solite sminuzzare i chicchi e lasciarli a bagno anche per molte ore, ottenendo una sostanza densa che, successivamente, veniva allungata con l’acqua prima di berla, possibilmente tutta d’un fiato. Ma forse l’espressione destinata a lasciare un segno maggiormente indelebile di questo approccio possiamo trovarla nell’assai più recenti 1600 d.C, quando sulle navi degli esploratori olandesi, la ciurma era solita assumere caffeina attraverso metodi largamente simili, evitando così di mettere a rischio zone incendiabili delle loro navi, con il valore aggiunto che il caffè preparato a temperatura ambiente, in genere, riesce a conservarsi bevibile per oltre una settimana. Quando costoro giunsero, tra i molti luoghi, nell’arcipelago d’isole situato all’estremità orientale del mondo, i nativi che non avevano mai assaggiato niente di simile rimasero immediatamente colpiti. E come loro massima prerogativa attraverso la corrente di pensiero e i molti esperimenti del cosiddetto rangaku (studi della gente d’Olanda) iniziarono subito a pensare come potesse essere migliorata.
C’era stata la grande battaglia di Sekigahara, a quei tempi, e i molti signori della guerra perennemente intenti a combattersi si erano riuniti sotto un solo stendardo, dando origine al grande governo pacificatore dei Tokugawa. Mentre il paese rifiutava quindi in maniera formale ogni contatto con l’esterno, diversamente dalla politica dei commerci praticata da molti dei daimyo (signori feudali) dell’epoca precedente, nelle grandi città costiere, all’interno di quartieri speciali adibiti allo scopo, l’interscambio coi visitatori europei continuava indisturbato. E fu per la prima volta a Kyoto, per quanto ci è dato di sapere, che a qualcuno venne in mente di costruire una di queste torri. Forse la maniera più lenta, eppure a suo modo apprezzabile, di assaggiare questo sapore che toglie il sonno, acuendo al contempo la sensibilità delle percezioni, sebbene in maniera leggera. Andando a costituire un’ulteriore espressione della forma di doping maggiormente diffusa e accettata al mondo. Detto questo, è indubbio che occorra una certa dose di pazienza…

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