La curiosa meraviglia degli abissi che contrasta lo stereotipo della medusa tentacolare

Quando il sottomarino oceanografico ufficialmente facente parte della Marina Statunitense venne inviato verso la metà degli anni ’60 presso l’isola di Baker, situata nel bel mezzo del Pacifico a metà strada tra l’Australia e le Hawaii, ai suoi comandi avrebbe trovato posto una delle figure più influenti nella storia della biologia marina: niente meno che Jacques-Yves Cousteau, il grande esploratore e documentarista formatosi all’Accademia Navale di Brest. Che all’apice della carriera, seppe documentare e divulgare una pletora di specie precedentemente mai osservate, muovendosi di pari passo all’introduzione di nuovi e più avanzati strumenti da includere nel corredo tecnologico di bordo. Attrezzatura come le potenti luci e telecamere che gli avrebbero permesso, in quel particolare frangente, di scorgere alla profondità approssimativa di un migliaio di metri qualcosa di eludere persino la sua ineccepibile conoscenza pregressa delle forme di vita abissali. Un’apparente mongolfiera mutaforma, capace di assumere alternativamente l’aspetto di un cuscino, una lanterna o un sacchetto di plastica, coperta da un reticolo evidente. Capace di ricordare, con il suo incedere scorrevole, un mollusco nudibranchio come l’affascinante ballerina spagnola (H. sanguineus) con cui condivideva la dimensione di circa 60 cm oppure un sifonoforo fluttuante (ordine Siphonophorae) appartenente al phylum degli Cnidaria. Una potenziale ipotesi, quest’ultima, senz’altro più vicina alla verità, sebbene l’avvistamento di siffatta creatura avrebbe costituito certamente una scoperta significativa, data la rarità con cui fossero capaci di spingersi a profondità tanto elevate. E fu partendo da un simile presupposto che l’esperto Cousteau, ancor prima di riportare in superficie il suo materiale, già aveva iniziato ad elaborare una teoria che in seguito si sarebbe rivelata corretta: che la strana creatura potesse essere effettivamente uno Cnidaria, ma piuttosto appartenente alla classe degli Scifozoi o “vere meduse” particolarmente ben differenziate per il possesso di uno dei cicli vitali più insoliti dell’intero regno animale, nonostante fosse totalmente priva della più rappresentativa arma impiegata da questa categoria di predatori per lo più carnivori: i tentacoli dotati di cnidocisti, per la paralisi e cattura delle prede. Soltanto in seguito, con la cattura incompleta di diversi esemplari tramite l’impiego d’impianti di suzione a bordo di sottomarini e ROV ancor più avveniristici, ed il lavoro del biologo inglese Frederick Stratten Russell, si sarebbe infine giunti ad una classificazione ufficiale della creatura, con il termine scientifico binomiale Deepstaria (dal nome del primo veicolo) Enigmatica (in quanto connotata da un significativo alone di misteri). Destinata in seguito ad essere avvistata soltanto una manciata di volte nel ricco repertorio dei cataloghi marini, causa l’evidente collocazione remota e irraggiungibile del suo principale habitat d’appartenenza, la nostra medusa avrebbe mantenuto fede alla seconda parte del suo nome al punto da riuscire a suscitare, ancora nel 2012, una sensazione mediatica per la comparsa di un video ripreso presso un impianto petrolifero a largo di Tampa, nel golfo del Messico, ripreso da mezzo radiocomandato entrato accidentalmente in contatto con un “bizzarro essere alieno”. Frangente destinato a suscitare un rinnovato interesse, anche in campo professionale, a ridurre in parte l’offuscante bagaglio di nozioni che accompagnano simili esseri vagamente affini al concetto di leggenda dei marinai…

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L’orrido dualismo tra il tesoro degli abissi e morire intrappolati dall’ostrica gigante

Secondo il testo taoista parzialmente autobiografico dello Huahujing (Conversione dei Barbari) nel momento in cui l’umanità divenne sufficientemente consapevole dell’esistenza del Dao, dinnanzi alla luce del sole si formò una nube formata dalle tre energie fondamentali, Jing, Qi e Shen. Quindi, consolidando la sua essenza sul sentiero della luce, il Venerabile Signore che risiedeva in essa scelse di vivere una vita sulla Terra, concretizzando se stesso come il nascituro nel predestinato grembo della Fanciulla di Giada del Mistero e delle Meraviglie. Secondo il filippino-americano Wilburn Dowell Cobb, in visita presso il suo paese natìo nel maggio del 1934, la presunta immortalità del divino Lao Tzu fu tuttavia dovuta al possesso di un singolo talismano: la raffigurazione scolpita di se stesso, Buddha e Confucio, delicatamente posta all’interno di un mollusco affinché fosse ricoperta da strati multipli di rigida ed impenetrabile conchiolina. Più e più volte, il profeta avrebbe quindi trasferito l’oggetto all’interno di un’ostrica più grande, fino all’ottenimento di un bulboso ammasso bianco del peso di 6,3 Kg dalla forma approssimativa di tre volti, lungamente identificato come la perla più congrua al mondo. Successivamente al suo ritorno nel Regno Celeste, il sacro talismano sarebbe rimato quindi tra i mortali, passando tra una dinastia imperiale e l’altra, fino ad essere trasportato segretamente nell’arcipelago delle Filippine, dove Cobb ebbe modo di ottenerlo come ricompensa per aver salvato dalla malaria il figlio di un capo villaggio. Una vicenda molto affascinante di cui effettivamente, soltanto l’ultima parte parrebbe contenere un tenue barlume di verità, visto il modo in cui il precedente proprietario della reliquia, non del tutto ignoto alle cronache, avrebbe in seguito identificato la perla come il “turbante di Allah”, per la sua presunta somiglianza con il copricapo e il volto del fondatore dell’Islam. Ed ovviamente, l’effettiva provenienza del divino talismano, il quale applicando la semplice regola del rasoio di Occam, poteva solamente nascere dall’opera di un singolo animale molto imponente, piuttosto che l’improbabile trasferimento presunto dal suo possessore, evidentemente impreparato su questioni relative alle formidabili capacità ed il ciclo vitale del genus Tridacna. Più comunemente detto delle ostriche/vongole giganti o alternativamente, assassine, data la leggenda secondo cui potrebbero idealmente chiudersi in corrispondenza della gamba o braccio di un nuotatore disattento, intrappolandolo senza possibilità di scampo fino al sopraggiungere dell’annegamento. Il che potrebbe anche essere fisicamente possibile, data la dimensione acclarata di fino a 130 cm di ampiezza degli esemplari più grandi, la forma ondulata del loro guscio bivalve e l’effettiva tendenza, agevolata dal possesso di una lunga fila di ocelli primitivi, a serrarsi non appena un’ombra si palesa nei più immediati dintorni, con conseguente percezione da parte del subacqueo di un’improvviso spostamento d’acqua commisurato alla grandezza della stranissima creatura. Benché si tratti nella realtà dei fatti di un’attività motivata dal bisogno di proteggersi dai predatori, piuttosto che da eventuali ed improbabili aspirazioni carnivore della bestia nella conchiglia, che si nutre effettivamente di semplice plankton filtrato mediante l’utilizzo di un efficace sifone. Vittime non poi così dissimili da ciò che lei stessa era stata, nelle settimane e mesi successivi alla fuoriuscita dal minuscolo uovo fluttuante…

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Le avveniristiche permutazioni dell’ondeggiante murena cromosessuale d’Oriente

In un quesito degno della mitica creatura greca nota con l’appellativo di Sfinge, rovina dei Cadmei, potrei farvi sollevare un sopracciglio domandando a seguire: quale creatura nasce nera, è principalmente blu nel periodo mediano della propria esistenza, e poi diventa gialla una volta prossima al coronamento dei suoi giorni da trascorrere sulla Terra? Intesa come nome del Pianeta che condividiamo, piuttosto che la mera parte emersa di quel mondo dall’ambiente relativamente temperato ed accogliente. Questo perché l’essere in questione, di suo conto, trascorre i propri giorni a una profondità mediana di 30-40 metri, qualche chilometro a largo di luoghi come l’Indonesia, la Polinesia, la Nuova Caledonia, la Cina ed Il Giappone. Ed un po’ più raramente l’Australia, l’Africa Orientale, il Madagascar, l’India. Un indizio dunque forse meno indicativo di quanto si sarebbe indotti a pensare, vista l’estrema vastità di questo territorio, dando l’opportunità di coadiuvarlo con un altro cenno in merito all’intestatario dell’enigma mitologico convenientemente modificato. Perché si tratta, in modo estremamente distintivo, di quel tipo di essere che la scienza è solita classificare come ermafrodita protandrico, ovvero che nasce maschio, per poi diventare solamente, con il trascorrere di anni, una femmina a tutti gli effetti pronta a deporre le proprie uova. Il che stringe significativamente il cerchio, a patto che abbiate già sentito parlare di questo notevole animale. Esatto: Rhinomuraena quaesita, l’anguilla (a nastro) con il naso prominente “[molto] ricercata”, per una comprensibile, quanto imprescindibile ragione: la loro bellezza e unicità variopinta. Così come esemplificato dal naturalista statunitense Samuel Walton Garman, che nel 1888 pensò di aver trovato una specie cognata delle già note R. amboinensis, più piccole e del tutto cupe nella tonalità dominante della propria livrea, mentre la nuova versione di un metro di lunghezza appariva caratterizzata da un contrasto appariscente giallo sulla lunga pinna dorsale e blu/violetto nel resto del corpo, per un mera coincidenza non troppo diverso dai colori della bandiera dell’Ucraina. Ma anche dotata di una grande bocca quasi sempre aperta, con la mandibola inferiore di lunghezza minore, e quella soprastante ulteriormente ornata dal possesso di un paio di narici tubolari, con la forma approssimativa di un’infiorescenza o altra parte di vegetale. Ragion per cui vengono identificate convenzionalmente in Cina con l’espressione poetica di anguille della foglia di salice, o qualche volta drago d’acqua in forza della vaga somiglianza con l’essere supremo che domina i flussi oceanici ed i venti soprastanti, secondo il folklore di una buona parte dell’Asia. Particolarmente quando la si vede nuotare, con un caratteristico movimento sinuoso e ondulatorio, attività spesso compiuta successivamente al crepuscolo per le abitudini largamente notturne di questo carnivoro predatore. La cui preferenza resta ad ogni modo quella di giacere in agguato, nello stesso pertugio dove trascorre sonnecchiando il corso principale delle proprie giornate, con soltanto la testa sporgente assieme a qualche centimetro di coro e pronta per ghermire i piccoli pesci che costituiscono la parte principale della propria dieta. Nella maniera istantaneamente riconoscibile di un tipico ostacolo dei videogames…

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Scoprendo per due volte la tentacolare società sommersa di Jervis Bay

Da un punto di vista evolutivo l’assoluta realizzazione tangibile del bisogno di essere lasciati stare, il timido mollusco nel suo guscio ha lungamente atteso il giorno della sua rivalsa sullo spietato sistema naturale di sopravvivenza. Questo finché attorno al Medio Cambriano (all’incirca 500 milioni di anni fa) ad un particolare ramo divergente dal corso principale di quel phylum non venne in mente di abbandonare totalmente ogni possibile strumento di protezione. Il che, per una creatura dal corpo totalmente molle nonché flessibile, significava lasciarsi alle spalle qualsiasi limite dato per acquisito in merito agli obiettivi da essa perseguibili, creando un vasto spazio da riempire con i propri sogni ed ambizioni terrene. Arti che si allungano e moltiplicano, mentre la capacità cogitativa cresce allo stesso tempo con il fine di massimizzarne un impiego sufficientemente utile nella costante ricerca della più importante materia prima dell’esistenza. L’energia, in forma di cibo, nel pratico formato di prede inconsapevoli e incapaci di salvarsi la vita. Perciò in tal senso, è possibile affermare che il cefalopode in quanto tale rappresenti la perfetta manifestazione di una creatura abile nell’attacco ma del tutto incapace di difendersi da un aggressore, una volta che dovesse essere stata colta coi tentacoli, per così dire, “nella biscottiera dei mitocondri”. SE d’altronde riuscirà a qualcuno, o qualcosa, di trovarla. Non è dunque molto complicato comprendere per quale ragione un essere che fa primariamente affidamento sul mimetismo e la furtività per riuscire a vivere un altro giorno, sia anche naturalmente scorbutico nei confronti dei propri simili, preferendo l’assoluta solitudine per la maggior parte del tempo, con l’unica necessaria eccezione dell’accoppiamento, che comunque non si estende per il maschio oltre i pochi minuti necessari per fecondare le uova precedentemente deposte dalla consorte. Dopo di che, grazie e arrivederci, a meno in base alle cognizioni largamente date per buone dal mondo accademico sulle linee guida del know-how guadagnato dai biologi all’interno di questo settore non propriamente incline a generare significative sorprese. Che di per se non restano, d’altronde, totalmente sconosciute nella maniera chiaramente esemplificata dalla scoperta della piccola “città” nota col nome di Octlantis, di per se una replica, piuttosto che versione sovradimensionata, della già nota Octopolis all’interno della stessa baia di Jervis. Un’insenatura marittima ragionevolmente protetta dai predatori, situata non troppo distante dall’omonimo villaggio sulla costa dell’Australia sud-orientale (Nuovo Galles del Sud) e famosa per il possesso di quella che viene convenzionalmente definita la sabbia più bianca del mondo. Assieme a una nutrita popolazione del cosiddetto polpo cupo di Sydney o Octopus tetricus, un tipico rappresentante della sua classe con lunghezza complessiva di 60 cm di cui soltanto 14 rappresentanti dal mantello centrale, con operosi tentacoli che s’irradiano in tutte le direzioni. Utili per raccogliere ed aprire le proprie prede principali, varie tipologie di molluschi bivalvi e qualche granchio, i cui gusci vuoti tende tradizionalmente a rigettare tutto attorno alla propria tana, generando un letterale cerchio rivelatore largamente ignorato dai pesci di passaggio. Ma non dalle persone, e di certo non da Matthew Lawrence, il primo sub a notare nel 2009 la presenza di un accumulo eccezionalmente grande di tale materiale di scarto, tanto che difficilmente poteva essere la risultanza dell’operato di un singolo esemplare di questa specie. Dal che, osservando attentamente il sito nel corso di diverse ore e giornate, scoprì attorno ad esso l’inaspettata convivenza di almeno 15 tentacolati abitanti degli abissi, intenti a fare quello che tanto strettamente siamo soliti associare alla vita condominiale: discutere, combattere, scacciarsi via a vicenda. Una chiara dimostrazione, se mai ce ne fosse stato il bisogno, dell’effettiva somiglianza della loro mente alla nostra…

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