Apollo IE, iniziate le consegne: dura scorza di carbonio e un cuore da Batmobile ruggente

Se come si usa dire, il Diavolo trova la sua residenza nei dettagli più insignificanti, per la modica cifra di 2,3 milioni di euro sarà lecito aspettarsi la presenza di Lucifero, Belial e Asmodeo perfettamente sull’attenti, pronti ad accogliere con gentilezza il nuovo coinquilino di un così “veloce” appartamento. Nato come il punto di arrivo di parecchi mesi di tribolazioni e perfezionamenti, ma in un senso ancor più ampio il culmine degli ultimi 14 anni, trascorsi dal momento in cui l’allora Gumpert GmbH, azienda fondata nel 2004 dall’ex direttore della sezione sportiva Audi Roland Gumpert, smise di produrre l’omonima ed iconica vettura, famosa tra le altre cose per aver detenuto per ben cinque anni il tempo record sul circuito del Nürburgring, nonché aver battuto tutti gli altri contendenti, inclusa la Bugatti Veyron, sull’iconico tracciato aeroportuale del programma inglese Top Gear. Eppure niente, in definitiva, avrebbe mai potuto prepararci a questo: la vettura presentata con grande rilievo mediatico lo scorso aprile, sotto gli occhi di una stampa del settore letteralmente estasiata dinnanzi a uno stile progettuale che semplicemente, no aveva mai raggiunto tali vette d’esagerazione. Ragion per cui alla fine non sorprende, il fatto che a disegnarlo siano stati due colleghi freschi d’università di soli 27 e 28 anni, dai rispettivi nomi di Joe Wong e Jakub Jodlowski; perché già, parecchie cose sono cambiate alla Gumpert. A partire dal proprietario, dopo l’uscita di scena del fondatore tedesco esattamente tre anni fa, in seguito alla bancarotta dovuta al fallimento della sua ultima proposta, la bella e impossibile Apollo “Tornante”, quindi sostituito dalla figura dell’imprenditore cinese di 45 anni Norman Choi. Proprio lui che, uomo solito mettersi al volante di anonime vetture familiari, seppe tuttavia individuare il potenziale per produrre, sotto una simile etichetta, una delle più sfrenate ed incredibili hyper-cars che abbiano mai percorso le strade di questa Terra. La ferocissima Intensa Emozione (questo il significato dell’acronimo che segue il nome del marchio: smetterà mai, l’industria automobilistica, di subire il fascino innegabile della lingua di Dante?) enorme veicolo con motore V12 ad aspirazione naturale posto al centro e trazione posteriore, della lunghezza di oltre 6 metri ma il peso di appena 1,2 tonnellate, grazie all’utilizzo di materiali e soluzioni tecniche del tutto originali. Tra cui l’idea, certamente mai vista prima, di far posizionare pilota e passeggero non sopra sedili convenzionali, bensì in una sorta di culla o letto ricavato dalla stessa scocca totalmente in fibra di carbonio della vettura, grazie a una serie di cuscini e imbottiture costruiti su misura dopo una scansione tridimensionale dei 10 futuri, fortunati miliardari destinati a possedere un tale oggetto esclusivo, oltre il concetto stesso del più sfrenato e prosaico “lusso”. Nient’altro che il primo capitolo, in una serie d’incomparabili opere gradite a colui che siede sul trono solforino al centro del più occulto e minuzioso Girone…

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La pilotina elettrica: silenziosa rivoluzione degli approdi portuali?

Lo sciabordio perfettamente udibile dell’acqua che s’infrange contro il molo, più e più volte, mentre il palazzo trapezoidale con il ponte di comando in bella vista sembra muoversi spontaneamente come l’ombra di una meridiana, virando in modo perpendicolare alla torre d’osservazione portuale. Un poco alla volta, il tratto di mare oscurato diviene impossibilmente sottile, poi scompare del tutto, con l’apparizione improvvisa di una forma verde, rossa e azzurra, le antenne a protendersi ordinatamente verso il cielo. Con un sussulto sincronizzato al grido sovrastante dei gabbiani, la piccola imbarcazione ruota agilmente su se stessa ed appoggia meglio la prua contro il bersaglio. Nessun suono, fumo o vibrazione, mentre ricomincia a spingere il possente bastimento con la precisione geometrica che viene dall’esperienza…
Nello svolgimento di un viaggio spaziale tra un pianeta e l’altro o perché no, interstellare, un’interpretazione realistica della fisica newtoniana prevede un dispendio di carburante concentrato principalmente in due momenti: la partenza e l’arrivo. Così che negli effettivi spostamenti effettuati da sonde o velivoli storicamente realizzati, per non parlare delle rappresentazioni plurime opera dei molti sfoghi della fantascienza, esiste quel momento in cui il pilota accende soltanto per qualche minuto i motori principali, “bruciando” carburante in fase di accelerazione o in modo speculare, decelerazione, mentre le piccole alterazioni di rotta vengono effettuate unicamente mediante l’impiego di piccoli ugelli ausiliari. Un qualcosa che possiamo ritrovare, fatte le dovute proporzioni, anche nella navigazione acquatica sulla superficie dei mari di questa Terra. Particolarmente al termine di un lungo viaggio che potrà condurci, dopo aver attraversato buona parte dell’Oceano Pacifico, fino a un punto d’approdo sicuro presso il continente d’Oceania, in quell’isola ecologicamente felice che ospita la città di Auckland, principale porto della Nuova Zelanda. Eppure, ha davvero senso impostare meccanismi di produzione dell’energia principalmente da fonti rinnovabili, quando uno dei principali ingranaggi della propria economia, il commercio marittimo, non può prescindere in alcun modo dal più copioso consumo di carburante diesel? Al fine di accompagnare ciascuna nave container, petroliera o altro mastodonte in acciaio e metalli vari fino al punto prefissato, manovrando quell’enorme stazza tramite l’impiego di strumenti piccoli, ma potenti!
Esatto: la pilotina (o rimorchiatore) quel natante dallo scafo simile alla forma di una vettura per l’autoscontro del luna park, la cui apparente stranezza risponde invece all’esigenza di appoggiarsi alle svettanti murate di vascelli assai più imponenti, agendo in maniera comparabile alle succitate variazioni di velocità stellari da parte degli astronauti in viaggio al di là del grande vuoto interplanetario. Il che storicamente non ha procurato grandi problematiche o dilemmi di natura etica, a meno finché in epoca recente, le importanti considerazioni climatiche e sul mutamento dello status quo ambientale hanno portato all’introduzione di stringenti norme sulle emissioni prodotte da tali fondamentali strumenti, verso l’introduzione di speciali filtri anti-particolato o motorizzazioni ibride, paragonabili a quelle delle locomotive “elettriche” in uso sulla terraferma. Ma che dire di un’azienda come Ports of Auckland, amministratrice degli omonimi due punti di sbarco nella celebre città sull’istmo strategicamente fondamentale dell’Isola del Nord, che da una decade ormai ha promesso di raggiungere, entro il 2040, il difficile obiettivo di un’impronta ecologica pari allo zero? Come cancellare del tutto quel tipo di consumi carboniferi che, a discapito di chiunque, sono stati sempre inevitabili nelle operazioni di carico e scarico di un qualsivoglia porto moderno? Strano, insolito persino sorprendente: nessuno avrebbe mai pensato che la soluzione potesse venire dall’altra parte del globo, ovvero da una particolare azienda situata entro i confini d’Olanda…

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La sublime arte del cambio da trasportatore a 18 marce

In molti hanno avuto modo di sperimentarlo: quando si accetta il compito di prendere un qualcosa di grosso e pesante, assicurarlo saldamente al retro del proprio veicolo e intraprendere un lungo viaggio, soltanto tre sono i fattori da considerare: il ritmo e il regime del proprio motore, la stanchezza fisica che può condizionare la nostra soglia di attenzione e… L’infinità quantità di variabili, contrattempi, imprevisti o situazioni meno che ideali, che possono frapporsi sul sentiero verso la piazzola di scarico del nostro destinatario di giornata. Che possono variare dall’effettiva necessità di deviare dal tragitto predeterminato, per lavori in corso o la chiusura (temporanea?) causa conseguenze di un probabile incidente, alla mera disposizione fisica degli spazi, capace d’includere, in determinati casi, quel tipo di disposizioni oblique che prendono il nome di “salita” o “discesa”. Che già ci condizionano, notoriamente, quando nel corso delle nostre passeggiate o pedalate ci approcciamo alla necessità di consumare un numero maggiore di risorse, al fine di percorrere una distanza niente affatto superiore, ma quando ci si trova appesantiti da 15, 20, 30 tonnellate di un rimorchio attaccato dietro al potentissimo motore, tutto cambia e tende, molto spesso, a peggiorare.
O almeno questa è una delle possibili interpretazioni di quanto qui di preoccupa di dimostrarci Dave, camionista da oltre 35 anni, oggi titolare tra le varie cose di un canale identificato come Smart Trucking, ricco di contenuti rivolti a chiunque si ritrovi, nel mezzo del cammin della sua vita, a desiderare d’intraprendere una simile carriera. Che in quello che costituisce ad oggi il suo video più popolare su YouTube (quasi 900.000 visualizzazioni!) si preoccupa di tradurre in parole una delle faccende che maggiormente tendono ad intimidire, per non dire paralizzare causa senso di transitorio ed istintivo terrore, la maggior parte dei suoi colleghi alle prime armi: il tipico cambio di una motrice stradale di livello 8, sarebbe a dire quello che i non iniziati chiamano “grosso camion” la cui pletora di rapporti, incidentalmente pari al numero di ruote di questi veicoli, risulta l’orgoglio e il simbolo forse meno noti di un’intera categoria sociale. “È molto semplice…” esordisce quindi, in maniera analoga a quanto fatto da altri video bloggers che hanno scelto, a loro modo, di trattare un così spinoso argomento “Basta fare le cose nel giusto ordine, e non saltare nessuno dei passaggi previsti nel manuale d’uso.” Quello fornito, per l’appunto, con il suo camion Peterbilt 379, vero e proprio classico della celebre marca produttrice texana, inciso a lettere di fuoco nella cultura popolare come forma alternativa dell’eroico robot transformer Optimus Prime. Che nell’allestimento situato sotto il suo sedile, presenta la formidabile dotazione del tipico cambio manuale RT-18 della Eaton, marca forse più famosa nel mondo consumer come produttrice di gruppi di continuità per il computer, di ogni possibile foggia o misura. Uno standard dell’industria, quando si tratta di essere sicuri che il regime del proprio motore da oltre 450 cavalli sia corretto per il tipo e l’entità del gradiente che si trova a frapporsi lungo l’estendersi del nostro sentiero. A patto, ovviamente, che il guidatore sappia dimostrarsi all’altezza di una tale “belva”…

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L’idea innovativa di un monopattino a forma di sfera

Dieci soldati dalla candida uniforme, il colletto rosso, la testa bulbosa, una forma fisica che lascia intendere l’assunzione di qualche caloria di troppo prima dell’ora di colazione. Un colpo risuona sulla distanza, seguito dalla furia rotolante che avanza. Nove soldati dalla candida uniforme aspettano il proprio turno, prima di cadere. In origine, l’uomo preistorico faceva una grande fatica nell’organizzazione del suo gioco preferito, il bowling. Questo poiché, per quanto potesse risultare semplice trovare pietre dalla forma relativamente sferoidale, esse dovevano necessariamente essere impugnate con due mani sopra la testa, prima di essere scagliate nella direzione generica della pista di gioco. Il che portava inevitabilmente a una quantità piuttosto elevata di tentativi, prima che il suddetto pegno potesse realisticamente riuscire a colpire bersagli multipli, ottenendo un punteggio degno di essere annotato sulla tavoletta d’argilla di giornata. Almeno finché a un uomo, chiamiamolo “Atouk”, non venne in mente di praticare nel sasso tre fori per le dita, mediante l’impiego del suo pratico trapano a mano. Non c’è dubbio, in effetti, che la sfera sia la forma più elegante nonché efficiente in natura: una pletora di punti equidistanti dal centro, il nesso esatto della questione. E un involucro ragionevolmente resistente, in grado di deflettere gli urti e giungere rapido verso il traguardo. Ma prima che un tale solido possa dimostrarsi utile all’umanità, ciò resta innegabile, occorre che sia dotato del giusto tipo e quantità di appigli. Oppure, perché no… Sostegni.
Jyroball! Ne avevate sentito parlare? Ci avrei scommesso, dopo tutto, si tratta dell’ultima diavoleria (con campagna di finanziamento su Indiegogo) proveniente dal fervido incubatore aziendale dell’irlandese Thomas O Connell, già promotore di una serie di monopattini a tre ruote ed altri giocattoli “mobili” per bambini di ogni età, questa volta alleatosi con Marc Simeray, nient’altro che uno dei pionieri, nonché primi costruttori, di un effettivo veicolo monoruota a batteria. Poco dopo che, all’inizio degli anni 2000, il successo in campi altamente specifici del Segway bastò a dimostrare al grande pubblico come l’impiego di un giroscopio coadiuvato dal baricentro basso potesse garantire il mantenimento automatico dell’equilibrio nella maggior parte delle situazioni, fatta eccezione quella di un utilizzatore particolarmente inetto o spericolato. Ragion per cui, una volta miniaturizzati per quanto possibile batteria, pneumatico e motore, tutto ciò che sarebbe rimasto era un oggetto altamente trasportabile che poteva, a sua volta, spostare in giro il suo bipede proprietario umano.
Ora per chi conosce la storia di un tale ambito, l’effettiva presa di coscienza in merito al funzionamento dell’avveniristica Gyroball non potrà che ricordare almeno in linea di principio il veicolo personale dal ragionevole successo creato dall’inventore di origini cinesi Shane Chen nel 2010, noto col nome di marketing “Solowheel” (vedi precedente articolo sull’argomento) benché la sua forma geometrica presenti effettivamente un maggior numero di punti di forza in comune con un qualcosa di prodotto soltanto successivamente, la cui bellezza e semplicità estetica, tuttavia, potrebbero risultare soggettivamente inferiori…

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