Quando le auto volavano durante le pubblicità

Isuzu ad

Aprire una finestra sul passato della televisione è un gesto che può dare risultati inaspettati: non è affatto raro, vista la progressiva evoluzione dei canoni estetici correnti, ritrovarsi di fronte a dei programmi o pubblicità che hanno perduto la capacità di colpire la fantasia dello spettatore, semplicemente perché quest’ultimo, abituato al lustro artificiale dei moderni metodi d’intrattenimento, non ha la voglia né il tempo di lasciarsi coinvolgere da quelle immagini retrograde, percepite in qualche modo come “noiose”. Avviene però talvolta, in casi particolarmente fortunati, che i metodi e le procedure di un creativo degli anni che furono creino una propizia congiunzione, la perfetta realizzazione di un concetto, tanto privo di connotazioni o limiti contestuali, da potersi definire veramente senza tempo. Si potrebbe allora affermare, senza grossi timori di smentita, che lo spezzone in questione sia un po’ come le pubblicità degli anni ’80 dell’Isuzu Gemini, anche detta la Bellet, questa spigolosa automobile compatta originaria del Giappone, ma che riscosse un moderato successo pure negli Stati Uniti.
Ed è un montaggio che può letteralmente lasciare a bocca aperta, quello che sta nuovamente girando negli ultimi giorni sulla sfera social del web, ma che in effetti già in precedenza era stato offerto presso un qualche altro canale di YouTube (la qualità video è tutt’altro che eccelsa, quasi si trattasse di un re-upload venuto male). Una sequenza lunga più di sei minuti, durante la quale le automobiline in questione proseguono per la strada in formazione, balzano l’una sopra l’altra esplorano le strade e piazze di Parigi, scavalcando con grazia ostacoli come fontane, marciapiedi e perché no, anche il fiume della Senna, grazie all’impiego della pratica rampa sul tetto di un barcone. La composizione è quasi asettica nella sua eleganza: non ci sono voci narranti né interruzioni di sorta, non si vedono gli stuntmen e la città appare stranamente deserta, fino al momento in cui le utilitarie scendono dentro la metropolitana, sterzando all’ultimo secondo per schivare il treno in arrivo: soltanto allora, sorridendo, una ragazza gli fa l’occhiolino. Come sarà facile immaginare, osservando tali e tante situazioni differenti, il materiale usato dall’uploader originale proveniva non da una, bensì da un’intera serie di pubblicità, disseminate grossomodo per il periodo che andò dal 1985 al 1991 durante quello che rappresentò allora, e forse ancora adesso, il maggiore sforzo fatto dall’Isuzu per sfondare nel campo dei veicoli per famiglie, prima di dedicarsi a pieno nel suo principale settore d’interessi: la produzione di camion per il trasporto ed altri mezzi da lavoro.
Una scelta curiosa risulta essere la colonna sonora: per amalgamare la sua creazione, laddove il materiale originale sarebbe stato diviso in molti segmenti scollegati, l’autore ha scelto d’includere un brano pop moderno, totalmente anacronistico per l’epoca rappresentata, eppure stranamente appropriato…Non sono proprio questi, gli anni in cui il rock trovava le sue nuove derive di scivolamento, sempre più ritmiche e finalizzate all’accessibilità? Se Madonna o Karaja fossero nate negli anni ’50, forse avrebbero fatto la reclame dell’Isuzu. E oggi la Gemini ci ispirerebbe nostalgia.

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Le catacombe abbandonate sotto Washington D.C.

Washington Spaces

Porte di metallo che oscillano nel vento, strane deviazioni vanno oltre i marciapiedi del sottopassaggio. Cosa viva oltre le soglie meno percorribili della città…Quali tesori albergano nascosti dietro i limiti del nostro sguardo? Esiste, sotto il vasto svincolo automobilistico del Dupont Circle, centro storico di una delle capitali più riconoscibili al mondo, un vasto tunnel sotterraneo concepito originariamente per il trasporto pubblico, occupante uno spazio complessivo di 22 Km quadrati. Costruito negli anni ’40 è ben presto abbandonato, dopo appena una decade di sferraglianti percorrenze. Da allora incredibilmente, impossibilmente: del tutto vuoto. Neanche l’alito di un tram. Lì risuonano, con fare roboante, soltanto le scarpe dei più coraggiosi, coloro che vorrebbero trarne un’opera d’arte, un parco o un ristorante. “Qualsiasi cosa, purché ritorni ad avere un valido significato!” Parola del collettivo no-profit Dupont Underground guidato dal visionario Julian Hunt, che ha recentemente istituito una raccolta di finanziamenti su Fundable, a seguito di un permesso ricevuto dall’amministrazione cittadina. Proprio lì.
L’urbe simbolo di una nazione, il Distretto di Columbia candido e disseminato di grandiosi monumenti in marmo, il vasto viale del National Mall, dominato dalla cima dell’obelisco edificato in onore del suo rinomato nonché omonimo fondatore. Se Roma è la città dei sette colli, la fiera Washington D.C. ne vanta soprattutto uno eppure grandemente significativo, quel rilievo che i mandriani del fiume Potomac chiamavano alquanto prosaicamente la collina di Jenkins. Dal nome del suo scopritore…Esploratore? Ma che oggi, tutti quanti definiscono piuttosto “Capitol Hill”. Perché qui sorge fin dal 1793 lo svettante edificio dell’architetto-per-passione William Thornton, un tempio neoclassico della politica ispirato al Louvre francese e al nostro antico Pantheon, dove l’asino (simbolo dei democratici) si scontrerà con l’elefante (simbolo dei repubblicani) fino all’istituzione di una nuova forma di governo, oppure chi lo sa. Ma una cosa, invece, è certa: la testa di un paese, specie quando rilevante quanto questo, deve essere protetta attentamente da ogni sorta d’urto o immeritevole compromissione. Così è questo luogo, in tutto il mondo occidentale delle capitali, la fortezza per intramontabile eccellenza, dove tutto è calibrato e ben subordinato, artificiale nelle procedure, attentamente controllato dalla vista di elicotteri e precisi sorveglianti. Non ha mura, Washington, in quanto nasce in tempi in cui i cannoni erano già troppo devastanti (e ne pagò lo scotto, durante la guerra del 1812!) Ma in compenso è la sua stessa forma, costruita sulla base del progetto originario della commissione urbanistica facente capo a Pierre Charles L’Enfant, a offrire validi approcci alla difendibilità. Chiaramente, non è possibile definire questo insediamento di ormai oltre 600.000 anime come una “città artificiale” almeno non in misura superiore a quanto sia possibile farlo con qualunque sua analoga di ogni parte del mondo. Perché nonostante le apparenze, il senso dell’aggregazione dell’umana non è mai del tutto organico, come l’espandersi dei microbi o della vegetazione. Esiste il fattore della razionalità. Eppure questa specifica città di Washington, edificata nella sua forma primigenia sotto la severa supervisione di un presidente e generale (capo dell’esercito una volta, capo fino alla fine del mandato) prevedeva una spaziosa griglia, priva d’ostruzioni o baraccopoli di sorta – questione tutt’altro che scontata verso la fine del XVIII – e soprattutto di edifici che non misurassero mai oltre i 6,1 metri della larghezza della strada adiacente.
A tal punto si era giunti, nel controllo delle circostanze architettoniche, dopo la pessima esperienza dell’ammutinamento della guardia nazionale non pagata di Filadelfia, che aveva portato a spostare qui la capitale, tra le giurisdizioni congiunte dei due stati schiavisti della Virginia e del Maryland, considerati sorveglianti più efficaci.

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Come cantavano i sinceri marinai

Old Chariot

“E spingiamo, spingiamo innanzi il vecchio carro, spingiamo!” Coro: una goccia di rum non ci farebbe affatto male, oh, una goccia del sangue di Nelson*; “Ma spingiamo, gente, ancora e ancora, quel dannato vecchio carro […]” E poi di nuovo, in un crescendo di entusiasmo ed enfasi selvaggia. Del resto amici miei! Una volta passato il Corno, ci potremo infine riposare. Quindi, forza e coraggio: tirate fuori il vostro perno dal cabestano, il grande argano di babordo, e poi piantatelo di nuovo dentro al foro successivo, tutti assieme, al risuonare del tonante richiamo. Finché il ferro là gettato nel profondo della baia non risorga umido, ruvido e lucente. Allora via, verso l’orizzonte. Vele nel vento, oltre gli scogli tempestosi… Non è mai davvero chiaro, quanti dei traguardi storici di una nazione siano il frutto di un’attenta pianificazione e quanti invece, faticosamente attraversati, siano il frutto di una sequenza più prosaica degli eventi. Lo statista che dirige le mansioni di un’intera macchina governativa, il generale di stato maggiore, il presidente del convegno che traduce le giornate in decisioni. E così tutti coloro, trascinati dal bisogno, che in qualche maniera rendono palesi le delibere del giorno. Da cui deriva tutto il resto: l’opificio come l’operosa fattoria, il muoversi delle brigate. E infine poi, la nave dei commerci d’oltreoceaeno, quel micro nel macro, eppure cosmo innegabilmente ripiegato su se stesso quanto l’infinito, soprattutto perché autosufficiente, oggi estremamente, e ancor di più una volta. Estremamente britannico, nella celebrata tradizione. Anglosassone in senso più vasto. Senza radio, cellulare, senza procedure o rigidi regolamenti: quando l’unico modo per mettere il modo il meccanismo era davvero crederci e far parte. Di un qualcosa di volubile, eppure niente affatto raro. Perché funzionale, quindi replicato. E conseguentemente, bello: il canto degli stevedores (gli stivatori). Che fu brevemente citato in ambito letterario per la prima nel 1549, all’interno del componimento propagandistico del The Complaynt of Scotland (Il lamento della Scozia) scritto contro Enrico VIII, che all’epoca si era prefissato di agevolare il matrimonio politico tra Mary Stuart la cattolica e il proprio figlio Edoardo, durante la guerra fallimentare che passò alla storia come il rough wooing (brutale corteggiamento). E  già a quei tempi alcune delle fregate e le altre navi cariche di spade e cavalieri, a quanto ci è dato di comprendere dal testo, disponevano di un certo tipo di canora predisposizione, utile a cadenzare l’intenzione ed il funzionamento dello sforzo collettivo. Ma il vero fiorire di questa pratica, di accompagnar l’impegno di marina con le note musicali, si ebbe a partire solo successivamente, dal tardo diciottesimo secolo, in corrispondenza con il fiorire dei commerci (anche, ahimé, di esseri pensanti) e del colonialismo di stampo ed intento imperialista.
Risalgono a quest’epoca, in effetti, i molti curiosi resoconti degli esperti viaggiatori venuti a contatto con la cultura esportata, assieme alle braccia ed al sudore, dai vasti paesi e popoli del continente antico. Si trattava di una strana abitudine dei popoli africani; tutti quegli schiavi, dalle piantagioni nei neonati Stati Uniti ai rematori delle ultime galee, a coloro che immettevano il carbone in orride fornaci e così via, che non lavoravano in silenzio. Niente affatto. Bensì accompagnavano, ciascun singolo e sudato gesto, con le note di uno spiritual, ovvero un canto a cappella fatto per trarre un sincero beneficio psichico dal battere delle stoviglie, dal colpo ripetuto della zappa e/o del martello, perché nonostante l’avversità crudele del destino qualcuno, lassù, li amava. A margine di tale procedura, viene spesso citata l’opinione al tempo diffusa e convenzionalmente associata ad un resoconto anonimo dell’isola di Martinica (nelle Antille francesi) secondo cui: “I neri non riescono a svolgere un compito senza accompagnarsi con il canto. [E infatti] dispongono di una sterminata serie di componimenti, ciascuno designato per una specifica mansione.” Per la mentalità dei naviganti di allora, naturalmente, era assai difficile mettersi sullo stesso piano dei loro malcapitati servitori. Eppure, ciò che sapeva dimostrarsi utile, tanto spesso ritrovava significative applicazioni.

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Senza cani, gioca coi bastoni che ritornano da soli

BoomerangsbyVic

In fondo batarang non è che un nome e l’uomo pipistrello, prima di decidere di fare il giustiziere, era un primato, mica un chirottero notturno. E come tutti, nei casi in cui il bisogno usava palesarsi (tra l’alba e il tramonto del mattino preistorico ideale) andava pure a lui a cacciare, fra le siepi, oltre i colli erbosi tipici del centro cittadino, conigli, canigli, semplici consigli: ovvero come fare, signora tecnologica sulla panchina, se da orfano miliardario con problemi nel controllo della rabbia contro i criminali, un giorno assiste ad uno scippo, ma fuori della portata del proprio pugno aculeato, nero e intabarrato di rabbioso accanimento? È una storia vecchia quanto il mondo. E come tutte quelle cose, così talmente insite nel profondo dello spirito pensante, benché superata tende inevitabilmente a ritornare.
Nello sport, nell’intrattenimento. Perché no: persino nella cultura (moderna) di simili cose concepite al fine di suggestionare il movimento, senza indurre inutilmente le popolazioni dei fruitori, utenti, figli e genitori, ad uscire fuori dall’ambiente casalingo. Simulazioni digitali di battaglie senza tempo, ludismi riproposti nella forma e nel colore: l’eroe che cavalca con lo strascico nel vento, lungo mantello fiammeggiante, in pugno può tenere molte cose differenti; spada, mazza-coltello, frusto-dardo temerario. Ma talvolta, e sono poi queste le migliori volte, dispone al fianco di un aiuto inanimato, l’assistente senza sangue ne cervello, che non è un falco, non è un cane oppure un lupo, né altra bestia naturale. Bensì quel meta-droide costruito in officina per assisterlo in battaglia: l’arma quasi-pensante. Come un funnel schierato dai piloti dei mezzi robotici venuti dal Giappone. Come una sfera luminosa, fluttuante a 26 centimetri dal magico bastone di un canuto strego-barbo tolkeniano. Come lui, l’astruso, inusitato wo-mur-rang, la “ELLE” rovesciata (o “VU” davvero molto arcuata) di cui si racconta per la prima volta, nelle variegate memorie degli uomini cosiddetti bianchi, in un resoconto scritto dagli agricoltori della colonia di Farm Cove (l’odierno Port Jackson) sita nell’allora nuovo, nuovo-errimo dei continenti. Australia, terra di canguri o almeno ciò si dice. Ma ecco, dovessimo pensare, incitati in fase d’interrogatorio all’aeroporto, ad un secondo simbolo di quel paese, subito rimanderemmo il nostro repertorio immaginifico, l’inconscio collettivo, a quel distante giorno del 1804. Quando a Dicembre in piena estate guarda caso e così è scritto, le tribù native degli aborigeni intavolarono una cortese diatriba tra di loro, in merito ai confini condivisi e relativi armenti. Culminante, come tanto spesso capita, in uno scontro nella valle designata, con abbondare di mazzate, calci e pugni, colpi ben vibrati. Finché non emerse dalla mischia un certo Bungary, tale abitante che ivi è descritto come estremamente”distinto ed educato” a stagliarsi contro il sole, sfoggiando un curioso dispositivo assai probabilmente fabbricato in legno o in osso di balena, descritto dai presenti come “simile a una scimitarra turca”.
Seguì una leggera flessione del polso ma rapida come un volo d’uccelli, poi l’arma che sparisce dalle mani e vola innanzi a una distanza approssimativa di 30 yarde (27 metri) colpendo un avversario al braccio, quindi rimbalza e continua la sua corsa, per oltre il doppio della strada già percorsa. Il botto emesso da una tale unione momentanea, di guerra e marziale avvenenza, sotto lo sguardo di diverse civiltà, in certo senso ancora riecheggia nello scibile del diversivo qui rappresentato.

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