Quanto è resistente un vetro corazzato?

Vetro antisfondamento

Cercasi martellatori di esperienza comprovata. Il candidato ideale dimostra una spassionata inclinazione al vandalismo, sprezzo del pericolo e caparbietà. Caratteristiche preferenziali: conoscenza intermedia della lingua inglese, odio per le cose trasparenti. Astenersi perditempo.
Nel fantastico mondo del marketing digitale, oramai, è difficile riuscire a fare colpo. Ve lo ricordate il folle sperimentatore dei frullatori Blendtec, distruttore di costosi gadget telematici? Ne aveva comprati a dozzine, di tablet, iPhone e computer portatili di fascia alta, soltanto per polverizzarli. E cercando di raggiungere la fama internettiana, spaccando un po’ di tutto, alla fine ci è arrivato. È difficile, del resto, distinguersi tra i moltissimi competitors. Specie in campi specialistici, come questi dell’ingegneria applicata. Bisognerebbe trovare il modo di “bucare” lo schermo degli utenti di YouTube, preferibilmente solo in senso metaforico. E poi (se possibile) penetrare anche in un altro vetro, ovvero quello prodotto dagli stabilimenti concorrenti, però – stavolta – da un punto di vista prettamente letterale. La prima regola del Fight Club, in questo caso, non si applica. Di questi colpi qui, bisogna far venire voglia di parlarne. Il rombo fragoroso riecheggiava tra le mura di uno splendido edificio, accuratamente brandizzato con il marchio ESG (Essex Safety Glass). Lui era lì, rabbioso. L’assassino con gli occhiali protettivi, la tuta bianca dell’anonimato e più armi di un protagonista della serie Grand Theft Auto. In pratica, la versione antropomorfa del concetto d’effrazione. Martello, piccone, ascia, punteruolo…ciascun attrezzo usato con un chiaro scopo: fare un buco abbastanza largo, attraverso dei pannelli trasparenti, da poterci far passare il polso. O per meglio dire il braccio, tremendamente inarrestabile, della Fisica Applicata. Postulato: se passa la luce, devo passarci pure io. A qualunque costo. Non c’è molto di logico, in questa serie di devastazioni. Nessun ladro potrebbe utilizzare un tale stretto varco! Né di scientifico: dove sono l’empirismo, lo studio della causalità?  Nel complesso, comunque, la scena risulta veramente coinvolgente. Caotica, bakuniana. Vi sfido a non pensare: “Vorrei fare quel lavoro.” Almeno per un giorno. Tunnel carpale permettendo.

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Il tavolo che sboccia come un fiore

Capstan Table

Spazio: ultima frontiera. Nelle sale di vascelli stellari lanciati verso l’infinito, come pure tra le mura della nostra casa. Purché il tavolo, luogo dell’incontro conviviale, non si riveli troppo piccolino.
Purtroppo, c’è un limite all’ingombro consono per la mobilia. Pensiamo all’USS Enterprise, l’astronave che fu data in concessione, non senza rammarico, dal capitano Kirk al capo calvo degli X-Men. Porte a scomparsa, corridoi ariosi, un ponte di comando scarno, con qualche comoda poltrona e giusto un paio di pannelli luminosi. Persino gli ufficiali, in un’alta percentuale di puntate, finivano per stare in piedi. Davvero il futuro dell’esplorazione cosmica, nell’immaginario collettivo, si rivelava minimalista e razionale. Anche a pranzo, specie in questi giorni, quello Spazio diventa una risorsa ricca di opportunità. “Cosa? 10, 15 invitati dentro a casa mia? E dove li metto?” Se avessi tanti posti a tavola, non mi resterebbe dove cucinare, pensa l’anfitrione. Ben sapendo che ci sono soluzioni temporanee. Può ad esempio prendersi dei cavalletti; traballanti trespoli e treppiedi; tirare dentro qualche tavolino da esterni, magari mezzo arrugginito, da coprire attentamente, con l’intonsa e candida tovaglia. Troppo facile!
Questa è la fondamentale differenza, fra gli uomini terricoli e i fieri capitani di un’imbarcazione: poter contare sui rifornimenti nell’attimo cruciale di una grande cena. Non puoi far legna in mezzo al mare, allo scopo di erigere più lunghe tavolate. Quindi, durante un viaggio transoceanico, sperduti fra le onde burrascose, potreste un giorno ritrovarvi a ringraziare questo progettista inglese, David Fletcher, il fondatore della Fletcher Burwell-Taylor, ltd. La sua splendida creazione, che periodicamente riesce a fare il giro di mille/duemila siti web, è un tavolo da yacht, che si allarga all’occorrenza. IL tavolo. Si tratta di un oggetto che comunque, per sua stessa natura, può adattarsi ad ogni ambiente di ridotta metratura. Possibilmente circolare. La particolarità più significativa, come per un’automobile di lusso, non è l’aspetto (assolutamente notevole) ma il meccanismo che lo muove. E quello che può fare.

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La leggenda del cubo viaggiatore

Cubli

Naturalmente privi del vincolo della necessità, i robot sono liberi di assumere le forme più impensate. Grandi come montagne, striscianti come lombrichi, alati e con gambe di cavallo, pieni di lampadine colorate, oppure invisibili alla vista, percorrono le cronache dell’oggi e del domani. Hanno una caratteristica, su tutte: la riproduzione attraverso generazioni discordanti. Da cane nasce cane, per lo più, generalmente dello stesso tipo (razza) – ma da cosa, ebbene, può nascere ogni cosa; così arriva, rovesciandosi, questo cubo deambulante, prodotto nel politecnico federale di Zurigo. Che ha un solo padre, ma molte madri. Si fa per dire. Il principale creatore umano è Gajamohan Mohanarajah, studente in attesa di PhD, largamente consigliato e supervisionato dal suo relatore Raffaello d’Andrea, professore di Sistemi Dinamici e Controllo, nonché co-fondatore della Kiva Systems, un’azienda di cui abbiamo parlato precedentemente, proprio in questi lidi. Ma il vero genitore di un automa sarebbe l’artefice diretto, piuttosto che il predecessore concettuale, il papà-drone, la mamma-droide?  E soprattutto, chi mai potrebbe partorire un cubo? Giusto la terra stessa, con i suoi cristalli di pirite…
L’impossibile creatura del video soprastante, denominata Cubli – contrattura bi-lingue tra l’inglesismo cube e una desinenza diminutiva usata nel Cantone svizzero tedesco – costituisce una ragionevole approssimazione del secondo solido platonico, con 15 cm al vertice, di lato e in diagonale. Ad un secondo sguardo ci si accorge, tuttavia, che al suo interno c’è di tutto. Processori, batterie, motorini elettrici ed accelerometri, per fargli sapere sempre in che posizione è stato messo. E soprattutto, come gran finale, un coreografico trio di volani, della tipologia specifica chiamata reaction wheelQuesti ultimi, roteando vorticosamente, accumulano l’energia cinetica di un moto potenziale, poi si bloccano d’un tratto. Ed è allora, che il cubo si alza in piedi.

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Nell’arena del monaco meccanico

David Bynoe

Quattro torri, con altrettanti cavi, tengono sospesa una testina di metallo. Fluttuando da un lato all’altro del quadrato, questa fa comparire figure geometriche nella sabbia. È la macchina computerizzata costruita da David Bynoe, per un progetto del Telus Spark Science Centre di Calgary, nello stato americano dell’Alberta. Costruendo quei mandala insostanziali, l’interessante invenzione contribuirà, per mesi ad anni, a suscitare nei visitatori un senso florido della curiosità. Cerchi concentrici, quadrati, modelli bidimensionali dell’atomo di Bohr, sequenze molteplici e complesse… L’atto creativo trasformerà quei granuli monocromatici in strumenti di bassorilievi tridimensionali, attraverso la semplice pressione ripetuta di un pulsante. Niente più rastrelli, per cortili giapponesi di eleganti templi Zen. Solo se qualche ragazzo, studiando questo meccanismo, sceglierà di prenderlo a modello, imboccando l’ardua strada dell’ingegneria e della programmazione, potremo dirci veramente soddisfatti. Tutti gli obiettivi sono virtualmente perseguibili. Persino l’Illuminazione.
La mente è alla continua ricerca delle immagini più affascinanti. E c’è un’imprescindibile dualismo, nella tendenza all’astrazione pura, che può portare ad utili fraintendimenti; proprio così, rinasce quest’oggi il giardino delle rocce o karesansui (acqua, piante, pietre) fra le più celebri metafore culturali dell’Estremo Oriente. Un tempo strumento di prestigio, l’ornamento per le vaste residenze dei guerrieri. Poi presunto ausilio alla meditazione, centro disadorno dei più sacri luoghi. E infine, inevitabilmente, gadget.
Trascinato ad Occidente assieme ad altre schegge prive di contesto, negli anni del benessere economico, quando le aziende inseguivano il mito dell’efficace industria giapponese, quello stile paesaggistico è spesso ricomparso negli uffici e sulle scrivanie, attraverso la sua accezione più ridotta: il bonseki. Magari con l’aggiunta di lucette a LED e una piccola fontana. Anche il Natale vuole la sua parte.

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