Boeing inaugura una nuova generazione di tute spaziali

C’è una foto particolarmente impressionante dei membri dell’equipaggio dello Shuttle Challenger, deceduti nel fatale secondo in cui la loro nave spaziale si disintegrò durante il decollo il 28 gennaio 1986, a causa del guasto di una guarnizione di uno dei razzi a propellente solido facenti parte della missione: i cinque uomini e le due donne, tutti sorridenti, sono in posa per la telecamera. Indossano una tuta di volo azzurra, senza guanti, e ciascuno tiene in mano un semplice casco dai colori americani, non dissimile da quello che potrebbe indossare qualsiasi pilota di aereo militare. In un primo momento, ciò che colpisce nella scena è la loro spontaneità ed esplicita naturalezza: non c’è nulla della rigidità tipica degli astronauti, incapsulati nelle pesanti protezioni con visiere cupe e i grossi zaini del supporto vitale. Quindi, lentamente, si arriva a comprendere la verità: queste persone furono effettivamente lanciate verso lo spazio, a bordo di un velivolo destinato a sorpassare abbondantemente i 7.000 metri al secondo, con soltanto un tale grado di protezione personale. Ovvero sostanzialmente, nessuna. Ora, nessuno di loro avrebbe potuto fare nulla nella specifica configurazione di quel disastro, troppo improvviso e devastante, ma è chiaro che sarebbe bastata anche la benché minima decompressione in cabina, per mettere a rischio la loro immediata sopravvivenza. Del resto, a quell’epoca si faceva così: per tutte e 28 le missioni del primo orbiter Columbia (1981-2003, vittima del secondo ed ultimo disastro del programma) e le prime 10 del Challenger fatta eccezione per alcuni test di volo, a nessuno era venuto in mente d’impiegare una tuta concepita per proteggere gli astronauti durante il decollo ed il rientro. A tal punto, il concetto di un’astronave riutilizzabile più volte aveva reso consueti e banali i viaggi al di fuori dall’atmosfera terrestre.
Quindi, dopo la morte improvvisa ed inevitabile di quelli che sarebbero diventati dei veri e propri eroi americani, tutto cambiò. Entro il 1988, la Nasa si era rivolta alla David Clark Company del Massachusetts, compagnia famosa per le sue cuffie ad impiego aeronautico, affinché realizzasse una tenuta in grado di mantenere l’atmosfera indipendentemente dall’ambiente, benché non potesse nei fatti essere completamente pressurizzata. Il suo nome era LES (Launch Entry Suit) e sarebbe rimasta in uso fino al 1994, quando finalmente gli Stati Uniti guardarono indietro a quanto avevano fatto di buono in passato, decidendo di dotare l’equipaggio dello Shuttle di una versione riveduta e corretta della tuta usata per l’aereo spia SR-71 Blackbird e gli astronauti del programma spaziale Gemini, poco prima dell’invio della capsula Apollo verso la Luna. L’immancabile acronimo era ACES (Advanced Crew Escape Suit) ed essa ha costituito, fino ad oggi, quanto di meglio abbiamo avuto nel settore, fatta eccezione potenzialmente per l’ottima tuta Sokol dei cosmonauti russi. Ora, tuttavia, le cose stanno per cambiare. Del resto, i margini di miglioramento non mancavano di certo: questa intera classe di tenute spaziali presenta un elevato grado di complessità, con molti componenti il cui malfunzionamento potrebbe causare grossi problemi ai membri dell’equipaggio in volo. Dissipare il calore generato dall’occupante, ad esempio, richiede un sistema di raffreddamento liquido e la goffagine imposta dal doppio strato di protezione, per ciascuna parte del corpo inclusi i guanti, richiede un lungo periodo di addestramento per imparare ad usare i controlli dell’astronave. Prendete in analisi, per comparazione, quanto abbiamo visto attraverso generazioni di film di fantascienza. La differenza tra quanto è considerato desiderabile, e quello che si è riusciti effettivamente ad ottenere, apparirà lampante dinnanzi agli occhi di tutti noi.
Posta di fronte alla sfida di creare un nuovo sistema per il trasporto di personale fino alla Stazione Spaziale Internazionale, per un finanziamento totale giunto fino ad ora attorno ai 4.800 milioni di dollari, la grande compagnia aeronautica Boeing ha quindi ricominciato dal principio stesso, assolutamente fondamentale, di cosa far indossare agli occupanti del suo modulo orbitale. Il risultato è questa Starliner Spacesuit (dal nome della nave spaziale stessa, CST-100 Starliner) che sembra una copia più o meno diretta della stessa identica tenuta dei protagonisti di Odissea nello Spazio, fatta eccezione per il colore di un azzurro intenso (il “blu Boeing”) invece che rosso vermiglio. Le innovazioni sono numerose e tutte quasi altrettanto significative…

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Le torri indistruttibili del Terzo Reich

Che cosa devono aver provato, gli abitanti comprensibilmente preoccupati di Berlino, Amburgo e Vienna al sorgere del primo mostro grigiastro nel 1940, la vera e propria montagna di cemento concepita per costituire l’equivalente moderno di un’inespugnabile fortezza… C’è un punto, un momento neanche troppo remoto in qualsiasi grande guerra, in cui ogni preconcetto cessa di esistere, lasciando il posto al basilare istinto e ed al bisogno di un grado ragionevole di sicurezza. Credo a tal proposito che in molti, tra la popolazione civile che sperava di essere lasciata in pace, tra gli ebrei segreti e le altre potenziali vittime del regime, persino tra i pochi prigionieri di guerra trasportati fin qui dai più remoti campi di battaglia, si siano silenziosamente congratulati con colui che si era dimostrato in grado di farsi venire l’idea. Senza però sapere, perché non rientrava tra le cognizioni più frequentemente discusse, che quell’individuo altri non era che Hitler in persona. Esistono del resto i disegni, che lui stesso aveva tracciato sulla carta progettuale a guisa di castelli da incubo fuoriusciti direttamente dal Signore degli Anelli, con guglie gotiche sormontate da vertiginosi abbaini, dall’interno dei quali si affacciavano i possenti cannoni posti a difesa delle metropoli più scintillanti dell’intero territorio del Reich. Tre città, come tre coppie di torri, con tre tipi di armi, disposte geometricamente nella forma del quadrato e del cerchio. L’occultista che si nascondeva all’interno dell’uomo più spietato che il mondo abbia fin’ora conosciuto doveva trarre un sinistro piacere in tali corrispondenze numerologiche latrici di un presagio. Ma l’architetto Friedrich Tamms, uno stretto collaboratore di quel Fritz Todt che aveva diretto la creazione della linea Siegried come fortificazione al confine col Belgio, poté seguire soltanto in parte le direttive del Führer, giungendo alla conclusione che l’unico modello possibile per tali strutture fosse quello dell’architettura brutalista, in cui l’estetica si ritrovasse subordinata all’assoluta funzionalità. Ed il risultato possiamo ancora ammirarlo, per così dire, ad Amburgo e Vienna ma non più presso la capitale, dove gli Alleati attorno al 1946 e ’47, a fronte di un dispendio considerevole e svariati tentativi non riusciti di demolizione, finirono per seppellire simili giganti sotto metri cubici di terra, trasformandoli, di fatto, in colline.
Il male può essere sepolto. Ma, come ci insegnò lo stesso Tolkien, mai del tutto eliminato. E lo stesso valeva, a quanto ci è dato di comprendere, per le 16 Flaktürme, o torri contraeree, la massima espressione storica del concetto di una fortezza imprendibile, tanto che la più famosa di esse, quella dello zoo berlinese, poté resistere per quasi un mese al bombardamento dell’artiglieria e dei carri armati sovietici, fermamente intenzionati a mettere la parola fine sulla battaglia decisiva di una guerra che pareva non finire mai. Proprio così: un assedio medievale a tutti gli effetti, nel 1945, con dietro le mura asserragliate svariate migliaia dei membri residui delle SA ed SS, un contingente della gioventù hitleriana, opere d’arte inestimabili tra cui il fregio dell’altare di Zeus sottratto a Pergamo e quantità ancor superiori di civili da sfamare. Essi avevano, sostanzialmente, di tutto un po’: cibo in abbondanza, pozzi ed elettricità indipendenti, recinti sotterranei con bestiame. Ed in effetti la situazione di stallo si sarebbe estesa parecchio nel tempo, se gli ufficiali dell’esercito assediante non si fossero accordati all’interno, per non uccidere sommariamente i militari a capo dell resistenza, in cambio dell’apertura dell’imprendibile castello tedesco. Accordo che in realtà si rivelò essere uno stratagemma, quando i loro colleghi della torre di Humboldthain all’altro capo del fiume Sprea, la notte del primo maggio, approfittarono del cessate il fuoco per fuggire con un intero contingente corazzato con tanto di Tiger ancora in perfetto stato di funzionamento, poco prima che si diffondesse la notizia sulla morte di Hitler e fosse ordinata la resa totale del paese. A quel punto, tutto sembro futile, e la guerra finì.
Se le cose fossero andate diversamente, è probabile che l’unico modo di annientare le torri sarebbe stato affamare i loro abitanti. Poiché non c’era nulla nell’armamentario russo, americano e inglese salvo forse alcuni tipi di bomba sovradimensionata (incluse le atomiche, ma non scherziamo…) che potesse facilmente abbattere delle pareti di cemento spesse tra i 2 e i 3,5 metri, senza considerare l’armamento più terrificante delle Flaktürme, le quattro bocche da fuoco dei cannoni 12,8 cm FlaK 40, in grado di abbattere un bombardiere fino a 15 Km di distanza. Le quali, secondo alcune versioni della storia, all’ultimo furono puntate verso il basso e usate per forare la leggendaria corazzatura dei carri armati russi, trasformata dalla loro impressionante potenza in poco più che semplice carta velina. Wikipedia italiana cita uno studio di F. M. Puddu secondo cui ciò non sarebbe stato possibile, per l’arco di tiro limitato delle armi, mentre la sua controparte in lingua inglese riporta un articolo del War Tourist Magazine pronto a giurare sul verificarsi di questa particolare contingenza. Di certo, se ciò fosse vero, accrescerebbe ulteriormente la leggenda dei mostruosi mastodonti…

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Il pericolo di una secchiata d’acqua in gara

Tutto, negli sport motoristici odierni, viene attentamente regolamentato da un preciso codice. Ma in molti casi, il pubblico non ne comprende a fondo la ragione. Il fatto è che molti gesti compiuti con le migliori intenzioni possono finire per avere effetti spiacevoli, deleteri, persino pericolosi. Ed a volte può bastare uno sguardo indietro, agli errori compiuti dai nostri predecessori, per apprendere a priori la lezione, evitando di ripetere lo stesso sbaglio. Follie come quella compiuta da un meccanico dei box dell’Holden Racing Team durante questa gara di resistenza con le stock car del 1993 a Sandown in Australia che, probabilmente dando seguito a una precisa e collaudata strategia di gara, si apprestava a pulire il parabrezza del pilota con dell’acqua lanciata al volo da un secchio, risparmiando il tempo necessario per fermarsi ai box. Sarebbe stato piuttosto difficile, del resto, decidere di farne a meno: il polacco naturalizzato Tomas Mezera, nel corso dell’ultimo giro, si era trovato per un tempo prolungato dietro all’auto della vera e propria leggenda dell’automobilismo Peter Brock, che in quel particolare giorno aveva già avuto, dal canto suo, la sfortuna di dover gestire un’imprevisto veicolare: danni alla coppa dell’olio, con conseguenti emanazioni nerastre lungo la linea di gara del suo tragitto, tali da costituire una problematica eccessiva per i semplici tergicristalli. L’altro sportivo a questo punto, dunque, vedeva ben poco di quanto aveva davanti a se. Un rapido scambio tattico all’auricolare, la pianificazione esperta dei compagni in tuta, un salto fino alla pompa dell’acqua. In breve tempo, l’addetto alle riparazioni era in corrispondenza del muretto dei box, pronto a intercettare il suo pilota proveniente dalla pista con un intero secchio di rinfrescante H2O. Piccolo dettaglio: alla stessa maniera della maggior parte degli altri tracciati in ogni luogo del mondo, il Sandown presenta un generoso rettilineo in prossimità della linea del traguardo, tale da porre in quel particolare tratto la velocità di auto sportive di serie come la Holden VP Commodore di Mezera (ed anche di Peter Brock) attorno ai 120-140 Km/h. Qualcuno, a questo punto, avrebbe dovuto fare i calcoli. Ma così non fu.
Ora, potrà sembrare strano che appena una ventina di litri d’acqua, impattando contro il vetro di un’automobile, possano riuscire sostanzialmente a mandarlo in frantumi. Dopo tutto, quanta acqua cade durante un’acquazzone estivo? Ed è per questo che gli stessi due commentatori che si sentono parlare nel video, in un primo momento, tentano di elaborare un’interpretazione alternativa. Uno suggerisce che “qualcos’altro” sia stato lanciato per sbaglio assieme all’acqua. Forse il secchio stesso? L’altra voce incorporea concepisce nel frattempo una teoria ancora più improbabile ma straordinariamente dettagliata, secondo cui “il calore risalito dal motore” avrebbe “riscaldato il parabrezza” causando un gradiente di temperatura con l’acqua in arrivo, tale da creparsi ed andare letteralmente in pezzi. In effetti situazioni simili sono capitate in pieno inverno, a persone non troppo preparate dal punto di vista termodinamico, che avevano avuto l’iniziativa di togliere il ghiaccio dal parabrezza usando dell’acqua bollente. Ma è ovvio che a nessuno sarebbe venuto in mente di riscaldare quest’acqua. Tale ipotesi non spiegherebbe, inoltre, l’evidente rientranza del vetro spaccato in corrispondenza dell’angolo superiore sinistro, reso particolarmente evidente dalla deformazione della scritta vinilica cubitale “Holden”. No, la relazione causa-effetto di questo particolare evento fu in effetti molto più semplice, e diretta, di questa. Ma non meno impressionante.
La comune acqua, lo sappiamo fin troppo bene, può essere facilmente trasformata in un’arma. Come tecnica non letale di risposta a gravi proteste, le forze di polizia direzionano talvolta un forte getto all’indirizzo della folla, con l’intento di respingere e gettare a terra. Mentre un ugello che pressurizza questa vitale sostanza, e la concentra con tutta la forza in un unico punto, può costituire un sistema di taglio utilizzabile per forare persino il metallo. Il che, in effetti, è analogo al rapporto che esiste tra la pioggia dell’acquazzone ed il secchio di cui sopra: le goccie d’acqua formatisi naturalmente non sono particolarmente aerodinamiche, raggiungendo a malapena la velocità terminale di 24-25 Km/h. Inoltre, non pesano più di qualche grammo. Totalmente diversa è la storia di un ammasso concentrato di liquido dal peso di 20 Kg, che per di più alla velocità del lancio del meccanico, vedrà sommati quelli accumulati dal bolide veicolare in corsa. Il destino del parabrezza, rigorosamente di serie come ogni altro componente del gruppo di gare australiane 3A della FIA, era ormai segnato. La parte più difficile, tuttavia, doveva ancora venire.

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Il primo fucile a ripetizione della storia

Gli italiani, come popolo guardato dall’esterno, sono molte cose: creativi, intraprendenti, maestri del design. Ma se ora io vi dicessi che l’elite dei soldati l’Esercito Imperiale Austriaco, a partire del 1770, disponeva di un arma straordinariamente avanzata in grado di gettare nello sconforto il cuore dei loro principali nemici, situati in Turchia, non credo che vivreste un solo attimo di dubbio. Ah, la tipica capacità ingegneristica mitteleuropea! Quello stesso principio secondo cui, soprattutto adesso, si preferiscono le automobili tedesche, considerate il massimo dell’affidabilità e le prestazioni… A parte qualche piccolo problema con i test delle emissioni inquinanti. Ebbene a dire il vero, oggi siamo qui per sfatare anche un primato antecedente a questo: perché il leggendario fucile Windbüchse, un’arma in grado di sparare fino a 20 volte, senza far rumore né produrre lampi o sbuffi di fumo, fu in realtà il prodotto di un artigiano orologiaio di Cortina, Bartolomeo Gilardoni (o Girandoni a seconda delle trascrizioni) vissuto tra il 1729 e il 1799. Si trattava di un implemento bellico così straordinariamente efficace, che Napoleone in persona aveva dato disposizioni affinché chiunque fosse catturato in guerra essendone in possesso fosse immediatamente giustiziato.
Immaginate, adesso, questa scena: una colonna di fanti ottomani che valica il confine dell’Austria, con l’intento di saccheggio e potenziale preparazione alla conquista. Centinaia e centinaia di uomini, armati di moschetti d’ultima generazione, ben consapevoli dell’assenza in quella particolare regione di alcun contingente in grado di competere con loro in campo aperto. Quando a un tratto, ai margini del sentiero, la vegetazione si agita, lasciando fuoriuscire un reparto di alcune decine di Kaiserjäger, i temuti “cacciatori imperiali” che Francesco II d’Asburgo-Lorena faceva reclutare uno ad uno nelle regioni alpine del suo territorio: uniformi azzurre, alti cappelli con piuma di gallo nero e accenti dorati, nella cinta e nella nappa dell’impugnatura della spada. Ben stretti nella mano di ognuno, alcuni dei fucili più peculiari che un uomo del XVII secolo potesse mai aver visto:  lunghi 1,2 metri, sottili e privi di baionetta, la canna ottagonale dal calibro di 13 mm e un grosso calcio con la forma di un cilindro rastremato, molto più ingombrante della media. Prima che chiunque potesse avere il tempo di reagire, dunque, la prima salva parte sull’armata impreparata, mietendo vittime fra la prima e la seconda fila geometricamente più vicina. Ora, le consuetudini del tempo richiedevano, nel momento dell’ingaggio del nemico, sopratutto un’alta dose di sangue freddo e cautela. Non era semplicemente possibile, infatti, ricaricare un moschetto ad avancarica in meno di 20-30 secondi, tempo più che sufficiente a disporsi in posizione di tiro, prendere bene la mira e rispondere con calma al fuoco del nemico. Senza contare l’ulteriore tempo necessario affinché si diradasse il fumo della polvere da sparo, e fosse nuovamente possibile inquadrare nei mirini un reparto di schermagliatori leggeri. Ma simili limitazioni, come potrete facilmente immaginare, non si applicavano affatto ai Kaiserjäger, che senza perdere neanche un singolo secondo, fecero fuoco di nuovo. E ancora, senza botto né lampo di alcun tipo. Inoltre, alcuni dei cacciatori austriaci, liberati dal bisogno di ricaricare, facevano fuoco da una posizione sdraiata a terra, e risultavano quindi pressoché invisibili allo sguardo spaventato dei nemici. A questo punto, l’armata nemica sarebbe scivolata nel più totale ed assoluto caos. Poiché il concetto stesso di fuoco a ripetizione era talmente alieno, a quell’epoca, da far pensare ad una sorta di stregoneria. Eppure era assolutamente possibile, con soltanto il giusto grado d’ingegno nel cercare nuove soluzioni tecnologiche a problemi di vecchia data.
Il Windbüchse, o Sćiòpo a vento Gilardoni se vogliamo usare l’espressione dialettale della regione di Cortina d’Ampezzo, era un’arma basata su una forza relativamente nuova: quella dell’aria compressa. Intendiamoci, non fu la prima arma di questo tipo, primato spettante piuttosto ad un un fucile da caccia risalente al 1580 custodito nel museo Livrustkammaren di Stoccolma, con una molla in grado di comprimere il pistone prima di ciascuno sparo. Il che lo rendeva, chiaramente, in grado di sparare una volta sola. C’è poi tutta la vasta selezione, diffusa nel XVII secolo, di fucili usati nella caccia al cervo nei boschi europei. Queste armi avevano dei significativi vantaggi rispetto ai moschetti dell’epoca, in primo luogo quello di poter sparare anche in caso di pioggia, ma anche un tempo di sparo notevolmente inferiore dal momento della pressione del grilletto e l’incapacità di spaventare gli animali col forte rumore, a meno che questi ultimi non fossero particolarmente vicini. Ma l’idea di impiegarli in battaglia era, e restò per lungo tempo, un’invenzione dovuta esclusivamente all’ingegno di un italiano.

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