Il grande vortice alle porte del Mare di Norvegia

Anno Domini 700. O forse era 712? Potrei quasi giurare che fosse stato, addirittura, il 722. Per quattro giorni e cinque notti, i vichinghi delle isole Lofoten avevano navigato lungo la costa frastagliata a settentrione di Scandinavia, con la vela sferzata dai forti venti primaverili provenienti dalla regione dei ghiacci eterni. Un occasione imperdibile, e per di più stagionale, in cui raggiungere le terre tenere dei ricchi uomini protetti dal destino. Armati con spada e lancia, lo scudo tondo dal forte brocchiere, un paio d’elmi cornuti fra l’equipaggio (tanto per non tralasciare gli stereotipi) di cui uno situato a prua della rapida drakkar, la nave forte ed invincibile che avrebbe conquistato le più astruse correnti, allo scopo di rendere celebre e temuto il nome di Ansgar figlio di Bard, capo di guerra della sua comunità. Un fiordo dopo l’altro, con le stelle a guidarli, avevano varcato le onde più alte e feroci, scivolandoci sopra come lo spettro di un draugr, il non-morto ritornato dalla tomba, allo scopo di vendicare i torti subiti tra gli uomini del mondo. Ben sapendo che entro la prossima luna nuova, lui, assieme ai suoi fidati guerrieri, avrebbero riportato la giustizia negli equilibri di ricchezza di Midgard, la terra fra il cielo ed il regno dei giganti. Quando finalmente, sotto il cielo ombroso, si palesò la visione sperata “Ascoltate, miei coraggiosi guerrieri! C’è una barca da pesca a ponente, semi-nascosta dietro quel promontorio roccioso. Preparate le asce. Snorri, smetti di suonare il tamburo.” I rematori s’immobilizzarono come trasfigurati per un singolo secondo, prima di tirare fuori le armi nascoste sotto le loro panche in legno e pelli di pecore grigie, rese lucide dal lungo utilizzo sui sentieri del Mare. “Quest’oggi, assaggiamo il sangue della vendetta! Possa il martello di Thor guidare la nostra rivolta contro le crudeltà del Fato!” Spinta innanzi unicamente dalla vela, la drakkar continuò imperterrita lungo il suo percorso, mentre le figure indigene iniziavano ad assumere una forma più chiara, con testa, braccia e lunghi mantelli di pelo, allo scopo di proteggersi dal freddo. Almeno la metà dell’equipaggio, ancora inconsapevole della loro triste condizione, pareva intenta a tirare a bordo una rete dalle maglie piuttosto larghe. Al suo interno, il più incredibile tesoro alimentare che Ansgar avesse mai visto: merluzzi, pesci lupo dal dorso allungato, la forma larga e piatta dell’halibut atlantico, ripetuta per 20, 30 volte. Con un sorriso sghembo, il capo si rivolse al suo secondo: “Lo vedi, Snorri, le leggende erano vere. Ah, ah, ah! Cibo infinito, ricchezze infinite! Una via d’accesso alla fine del ponte stesso che conduce al Valhalla…”
Quindi, all’improvviso, la magia si spezzò: ora i pescatori gridavano, mentre ciascuno di loro correva al posto di navigazione. Adesso i vichinghi preposti impugnavano le aste dei loro arpioni, allo scopo di bloccare la preda. Prima che potessero scagliarli, tuttavia, la lunga e sottile barca da pesca parve agitarsi come il dorso di una balena, poi prese a correre all’interno del fiordo, dove due terre emerse, un’isola e una penisola, formavano una sorta di stretto passaggio verso l’entroterra. “Per il Padre degli Dei, che bisogno avevano, soltanto per prendere pesci, di una barca così dannatamente veloce! Svelti, tornate ai remi!” Per qualche decina di minuti, si trattò di un inseguimento decisamente atipico: gli uomini di Ansgar continuavano a guadagnare terreno, mentre gli indigeni continuavano a seguire una traiettoria bizzarra e curvilinea, oscillando da un lato all’altro dello spazio disposizione verso lo stretto passaggio inondato. Quindi, lentamente, apparve chiara l’orribile verità. In questo luogo, in quel momento, una feroce corrente scorreva, senza nessuna ragione apparente, verso la direzione del mare aperto. E nessuna drakkar, per quanto veloce, avrebbe potuto affrontarla direttamente. Ma c’era dell’altro: nascosti tra i flutti, una serie di gorghi terrificanti, simili ai buchi scavati dai vermi nella carne di un uomo recentemente passato all’aldilà, che per un motivo o per l’altro, non fosse stato possibile ardere sulla pira del villaggio. “Snorri, vai tu al timone. Non mi fido di nessuno di questi…” Il capo socchiuse gli occhi, mentre la preda pareva svanire tra la foschia. Una raffica di spruzzi raggiunse la prua della nave, accecandolo momentaneamente. Quando la vista tornò a funzionare, tutto quello che vide gli tolse il fiato. Un cupo valico verticale, con pareti irte e scoscese. Percorso su tutti i lati dalle forze del mare stesso, che vi disegnavano volute arabesche e l’accenno di rune prive di alcun significato. La luce del Sole, filtrando da attraverso la vela della drakkar, creava infiniti baluginii contrastanti, chiara metafora per le ultime volontà degli Dei. “È…Magnifico!” Esclamò, con un tono mai sentito prima, il nostro Snorri, mentre strappava la benda dell’occhio sinistro, rivelando la cavità vuota rimasta dall’ultima scorribanda. Senza voltarsi indietro, quindi, egli gettò l’elmo, e si tuffò nel moskenesstraumen, la leggendaria corrente del giorno finale. La maggior parte degli uomini lo seguirono. Chiaramente, preferivano sfidare la morte in solitaria, affidando ad Odino le ragioni del proprio futuro. Ma questo, Ansgar non avrebbe mai potuto accettarlo. Le braccia conserte, il mantello slacciato che volava nel vortice, si preparò all’esito finale di un tale crudele momento: c’erano soltanto due possibilità. Tutto poteva finire sugli scogli sommersi. Oppure riemergere dall’altro lato, gli occhi infuocati dal profondo desiderio di vendicarsi. Sussurrando un’incantesimo, strinse il ciondolo sottratto all’interno di un villaggio del meridione, che sembrava rappresentare il martello sacro del Primo Guerriero, benché avesse una strana estrusione sopra la parte usata per colpire il nemico. Come una testa di lancia. Qualcuno, tra i suoi uomini, usava chiamarla la Vera Croce. Nonostante tutto, oggi si sentiva…Fortunato.

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Il mistero polacco dei cento alberi sbilenchi

“Che cosa diamine sta succedendo, Lord Sqweework III, cos’è questo rumore assordante?” Le cima del pino silvestre si piegò vistosamente da una parte, mentre il suolo stesso pareva vibrare per l’effetto di una forza stranamente cadenzata. “Accidenti, temo proprio che questo non sia affatto un terremoto, Mr. Ratten Hazelnut! Stavolta siamo davvero nei guai.” I due scoiattoli si aggrapparono, per quanto possibile, al secondo ramo a partire dal tronco principale, laddove il nido del chiurlo pareva relativamente al sicuro alla vibrazioni. Ma i cespugli sottostanti, agitandosi come una cosa viva, parevano inscenare l’ultima battaglia del Macbeth Shakespeariano. “Io devo dirtelo, devo dirti l’unica tremenda verità: l’ho saputo dal duca Corvus di Czarnowo… Lui l’ha visto l’altro giorno, mentre sorvolava le pianure dinnanzi Stralsund: sembra proprio che gli umani siano scesi in guerra, con possenti macchine d’acciaio mai viste prima. Le chiamano Pan-zer!” Quasi a sottolineare questa descrizione, da dietro una collinetta antistante la piccola radura al centro della foresta, spuntò una cupola lucente e stranamente spigolosa, con un lungo tubo simile ad un cannocchiale. Ratten rabbrividì fino all’ultimo ciuffo di peli sulla coda: “Oh. Ooooh, di nuovo? E…Che cosa ci fanno da queste parti? Che abbiamo fatto di male?” Il suo nobile compagno col monocolo, seduto a zampe incrociate dentro la nido ormai da tempo privo di occupanti, pareva decisamente meno terrorizzato dalla situazione. Del resto, ne aveva viste di campi di battaglia, lui. E poi trincee, con la piccola maschera antigas e il suo fucile con la baionetta lunga 3 centimetri e mezzo. Sgranocchiando la migliore nocciola possibile verso la fine di questo autunno del 1939, Sqweework III socchiuse gli occhi, quindi esclamò: “Eccoli che arrivano, stai pronto!” Il mostro di ferro e compatta ingegneria tedesca era ormai del tutto al di sopra della linea dell’orizzonte, con la corazza lucente e i grossi cingoli completamente ricoperti di fango. Il cannocchiale-cannone cominciò a spostarsi lentamente verso la parte posteriore del mezzo, allo scopo di evitare eventuali danni, mentre il pilota accelerava al massimo potenziale del suo motore Maybach a 12 cilindri. Fu evidente, a quel punto, che non avrebbe mai deviato per evitare la foresta. Ma intendeva, piuttosto, passarci attraverso. Il fumo dei tubi di scappamento, a questo punto, raggiunse il duo arboricolo, spinto innanzi da un minaccioso spostamento d’aria. Con un sonoro CRACK, il primo tronco ricevette l’impatto delle 22 tonnellate, lanciate a 35-40 Km/h sul suolo ricoperto di foglie morte. “È terribile… Amico mio. La nostra casa…Questi alberi non si riprenderanno mai più.”
Ecco, tuttavia, la più nobile realtà della faccenda: non tutto ciò che muore, muore per davvero. Scegliendo di entrare piuttosto in uno stato intermedio, in cui l’esistenza si rifugia presso le pieghe dell’inusitata possibilità. E qualche volta, se le condizioni sono giuste, qualora il fato venga trascinato verso il migliore fiumiciattolo nella pianura alluvionale degli eventi, ciò che era prossimo a spezzarsi, si piega. Lasciando ai posteri l’ardua sentenza. Quella bellica, in realtà, non è che una delle numerose diverse teorie elaborate in merito a Krzywy Las, la foresta polacca degli alberi sbilenchi, in merito alla quale biologi, naturalisti e storici s’interrogano da 3 abbondanti generazioni. Una vista inspiegabile, che tuttavia spiega se stessa, nella sua immediatezza ed apparente inamovibile presenza. Nel mezzo di un fitto bosco, nei pressi del villaggio di Nowe Czarnowo in piena Pomerania, c’è un gruppo di pini. Il cui tronco, invece che crescere verticalmente, si produce in un’ansa, come la curva a gomito di un rally pedemontano. I più creativi potrebbero definirlo un punto interrogativo, oppure l’accenno di una chiave di violino. Fatto sta che mai nessuno, in effetti, è riuscito a dimostrarne il perché. La spiegazione del carro armato è ovviamente invitante, intanto per la data di origine degli alberi (il conteggio dei cerchi li ha datati tutti attorno al 1930) ma anche per farne una parabola storiografica di ciò che abbia dovuto soffrire, in epoca moderna, uno dei più centrali ed antichi paesi europei. Ma non convince a pieno: se davvero la piegatura fosse il frutto accidentale del passaggio di una colonna di mastodonti sferraglianti, perché mai gli alberi sono piegati tutti dalla stessa parte, verso nord? La logica vorrebbe che essi avessero formato come una sorta di tunnel, da una parte e dall’altra della rotta impostata nel verde oceano dalle post-landship tedesche. No, c’è qualcosa di chiaramente intenzionale, nell’intera faccenda. Il marchio infernale della mente e della mano dell’uomo. Ecco, dunque, una possibile alternativa: qualcuno ipotizza che le genti della regione avessero un’usanza, relativa nell’imporre la strana curvatura ai giovani virgulti di pino. Ben sapendo che quelli, crescendo, avrebbero fornito dei lunghi tronchi già curvi, da impiegare per costruire botti, navi o navi a forma di botte e così via. Il che non spiega, tuttavia, perché non si abbia notizia formale di una simile attività in alcun luogo e da nessuna parte: in fondo, non sono passati neanche cento anni! Ovvio, prosegue il teorico ottimista: poco dopo che gli alberi sono stati piegati, da queste parti il carro armato ci è venuto veramente. E i vecchi arboricoltori, per una strana “coincidenza” sono tutti morti, d’emblée. Oppure…

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Se un barattolo di lievito può conquistare una nazione

Successe all’incirca un paio di anni fa. L’attore australiano Hugh Jackman, a.k.a. Wolverine l’X-Man invulnerabile dai lunghi artigli, che durante un’intervista dello show di Jimmy Fallon si sentì in dovere di tirare fuori un tostapane, col caratteristico barattolino dal tappo giallo. “Voi [americani]…” esordì sottintendendo la seconda parte, con tono bonario ma realmente esasperato: “Voi… Non la capite, solamente perché la mangiate nel modo sbagliato. Vegemite non è soltanto un qualche cosa che il medico prescrive, per alleviare una carenza della vitamina B. Questa cosa la si mangia a colazione, perché è veramente BUONA. Yum!” Segue la scena tipica, ripetuta in mille video di YouTube, dell’esperto che apre la confezione, permettendo alla controparte di giornata di annusarlo. E l’espressione visibilmente sconvolta del conduttore Jimmy, che storce gli occhi e arriccia il naso, di fronte al possente e inevitabilmente spiacevole aroma di carne salata. L’estratto di lievito è un qualcosa che si assume con moderazione. Eppure, chiedete voi a un anglosassone del Vecchio, oppure Nuovissimo mondo: c’è all’incirca un 50% di probabilità che lo troviate pienamente allineato con l’opinione di Mr. Logan “Ossa d’Adamantio” Howlett. Per poi lanciarsi in una lunga disquisizione sule perché, esattamente, la versione del SUO paese sia sensibilmente superiore. E per quanto concerne la restante metà della popolazione… Beh, lasciamo perdere. Ma la faccenda chiave, che di certo potrebbe condizionare anche noi italiani trovandoci di fronte ad una simile pietanza, è che una tale cosa non va spalmata sulla fetta della colazione come fosse marmellata, miele o (Dio non voglia) dolcissima Nutella. Bensì centellinata con la punta del coltello, e possibilmente smorzata con un sottile velo di burro. A tal punto è forte, e caratteristico il suo sapore. Tutto considerato, sembra strano che il concetto non risulti più noto al pubblico generalista. Ma a giudicare dall’opinione diffusa in merito all’impasto concentrato su scala internazionale, la persona media odia la Vegemite, semplicemente perché tenta di mangiarne troppa, tutta assieme.
E dire che qui siamo di fronte, dopo tutto, ad un qualcosa di tutt’altro che nuovo. La prima diffusione della crema avvenne in Inghilterra nel 1902, a seguito della scoperta dello scienziato tedesco Justus von Liebig, relativa al fatto che il lievito avanzato dalla produzione della birra non dovesse, in effetti, essere gettato via o impiegato come concime. Ma che piuttosto era possibile trattarlo e imbottigliarlo, per procedere alla sua consumazione futura. Si trattò di una rivelazione simile, se vogliamo, a quella del miso giapponese, la risultanza collaterale della produzione di un’altra sostanza frutto della fermentazione, la salsa di soia. E che come quest’ultima, trae l’origine dall’impiego copioso del sale. Una volta estratta e separato questo conglomerato di cellule fungine, infatti, esse vengono rese ipertoniche tramite l’aggiunta del sodio. Un processo che sostanzialmente, le uccide, bloccando ogni potenziale alterazione futura. A questo punto l’impasto fluido, ancora troppo denso e non gradevole al palato, viene filtrato attraverso una macchina vibrante, che separa e rimuove le membrane esterne del fungo microscopico. lasciando indietro il fluido scuro che diventerà, pressoché spontaneamente, Marmite o Vegemite. Già, c’è un doppio nome: perché l’irrinunciabile ingrediente della prima colazione, a dire il vero, non nasce affatto nella versione più dolce (e almeno dicono, più facile al palato) della terra emersa più estesa del continente di Oceania risalente solamente all’epoca successiva alla prima guerra mondiale, bensì presso la Marmite Food Extract Company di Burton sul Trent, nello Staffordshire d’Inghilterra. Esportata quindi nel remoto 1908 la licenza in esclusiva del prodotto verso la Sanitarium Health Food Company della Nuova Zelanda, agli australiani non restò che farne una versione propria, modificata con l’aggiunta di zucchero e caramello. Ora, chiedete ad un australiano cosa pensa della Marmite inglese, e questi vi risponderà, probabilmente, che è amarognola alla stregua di una punizione per i bambini cattivi. E se fate l’inverso con la Vegemite, sono pronto a scommettere che l’altro vi dirà che pare un snack dolce con l’orribile aggiunta di sale, oppure che semplicemente, la mistura richieda più sale. Molte faide sono nate in merito a una simile disquisizione…

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In cerca di case sui bastioni d’Islanda

È puro Oceano, signora mia. Volete avere le orche per vicine di di casa? E i pinguini al posto dei passeri, che vengono a chiedervi le briciole di pane? Ecco, questa seconda parte sarebbe un po’ difficile da organizzare. Perché dovrà saperlo, di sicuro: le onde sono alte da queste parti, così per salvaguardare l’abitazione abbiamo dovuto edificare le quattro mura in cima a un faraglione alto all’incirca 20 metri, a strapiombo sul mare distante. Fantastico: in questo modo, il cielo può essere il cortile. E suo marito non potrà mai arrischiarsi a ritornare ubriaco la sera. Stabilirsi a vivere su uno dei tre faraglioni, che in realtà sono quattro (Stóridrangur, Þúfudrangur, Klofadrangur e “Senza Nome”) ha un costo assolutamente ridicolo per chiunque sia abbastanza coraggioso da pensare di farlo. Basta, sostanzialmente, auto-nominarsi guardiani del faro. E io non credo che potrebbe mai esserci nessuno, tra l’amministrazione locale dell’arcipelago di Vestmannaeyjar (Le Isole degli Uomini Occidentali) che potrebbe mai sognarsi di opporre il suo veto. Gli abitanti delle zone limitrofe sono certamente ospitali. Né del resto, l’iniziativa dell’eclettico cambio di residenza arriverebbe alle orecchie di alcuno, prima dell’occasionale e saltuario cambio della sacra lampadina custodita quassù. Quindi portatevi un ricambio, oppure due. E i naviganti, mancando di lamentarsi dell’improvvisa scurezza della baia, saranno vostri alleati nel mantenere il segreto. Andare lì per svolgere l’operazione in questione non è del resto particolarmente facile, come ampiamente dimostrato dal presente video del pilota d’elicotteri Gísli Gíslason, che nell’estate del 2016 vi si recò per trasportare 6 operai, che si occuparono di effettuare la manutenzione generale e ridipingere il meraviglioso cubo di mattoni e malta con lanterna metallica a prova di tempeste. Anzi, bando agli eufemismi: ci saranno 2 o 3 operatori di aeromobili, in tutta l’Islanda, a poter affermare in tutta sicurezza d’essere capaci di svolgere una simile missione, anche in condizioni meteorologiche ideali. Poiché ciò che serve fare, è avvicinarsi cautamente al frastagliato faraglione e abbassare i propri pattini di un metro alla volta, cercando di trovarsi in corrispondenza del più piccolo, precario e squadrato degli eliporti. Una piattaforma tagliata nella roccia, con otto pali paralleli che si estendono ai lati, presumibilmente per attaccarvi altrettante corde di nylon rinforzato per alpinisti. Poi una volta fatto questo, tutto quello che resta è percorrere una stretta passerella di roccia, rigorosamente ricoperta di sdrucciolevole vegetazione muschiforme sopra lo strapiombo distante, prima di approdare al sicuro nello “spiazzo” in cui si trova una delle strutture più improbabili mai edificate dall’uomo.
E pensate che tutto sommato, a costoro, gli è anche andata piuttosto bene: il faro esiste in effetti dal 1939, quando fu costruito a ridosso della seconda guerra mondiale per mettere in sicurezza questo particolare sentiero di approdo, tre anni prima che l’elicottero fosse costruito in serie dal pioniere dell’aviazione Igor Sikorsky, ed almeno tre volte tanto prima che un simile approccio ai trasporti trovasse un’effettiva diffusione internazionale. Piuttosto celebre resta in effetti, all’interno di determinati circoli, la storia narrata in un’intervista da Árni G. Þórarinsson, il veterano a capo del progetto in quell’epoca ormai distante, che descrive per filo e per segno l’esperienza del team di esperti montanari al suo comando, che per primi riuscirono a costruire la “strada” (in realtà, nient’altro che una serie di catene saldamente infisse nella parete scoscesa). Punto saliente della vicenda: il punto, verso la sommità, in cui non gli riuscì più di trovare appigli, ed allora il primo di loro si dispose a gattoni, mentre il secondo gli saliva sopra. E il terzo, dall’appoggio delle sue spalle, giungeva al punto agognato come il personaggio di un cartoon. Per poi tirarsi dietro i coraggiosi (o svalvolati) compagni. E ciò non prende neppure in considerazione, purtroppo, la fatica successiva di trasportare fin quassù i materiali. Di certo, non dev’essere stato facile trovare un muratore disposto a venire per dare una mano…
Le strutture costruite nei punti più isolati di Vestmannaeyjar hanno l’abitudine di comparire all’improvviso sul web, per la costruzione di un nuovo meme o il post distratto di una persona famosa (in questo caso specifico, pare si sia trattato di niente meno che Justin Bieber) diventando all’improvviso l’antonomasia di chi desidera vivere in totale e pacifica solitudine. Non è questa in effetti la prima volta, né il primo luogo, a dare adito a un simile risvolto situazionale…

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