Esiste il caso iscritto nelle pagine della storia dell’arte, in cui i tentativi di raggiungere o ricostruire un modello possono riuscire a generare un qualche cosa d’autentico, del tutto in grado di donare un senso di continuità ai grandi maestri del passato. Che andati possibilmente perduti al declinare di un’epoca, finiranno per lasciare necessariamente spazio ai loro imitatori, destinati in questo modo ad acquisire la scintilla ragionevolmente meritoria della grandezza. Non abbiamo a tal proposito, una grande quantità di opere parietali risalenti al Medioevo Classico, inteso come il periodo che si estende nei secoli XI, XII e XIII, semplicemente troppo distanti dall’epoca odierna perché possa risultare facile una valida conservazione dei pigmenti e dell’intonaco delle pareti. Per non parlare del destino ancor più sfortunato degli arazzi, pardon, cibo per le tarme del continente europeo. E molto di ciò di cui disponiamo, per lo meno al di fuori del campo ecclesiastico, si trova concentrato in un singolo castello del Trentino Alto Adige, situato pochi chilometri a nord della città di Bolzano. Sopra uno sperone vulcanico di porfido, non molto più ampio della sua cinta muraria esterna, accessibile con uno stretto e tortuoso sentiero montano, nessuno potrebbe mettere in dubbio i trascorsi militari dello Schloss Runkelstein (alias Castel Roncolo) più volte assediato, difeso a spada tratta e custodito come chiave di volta di un intero feudo redditizio nella valle antistante. Ma l’aspetto molto interessante, ed insolito, per una residenza ornata al fine di celebrare un particolare stile di vita e i miti all’origine della nobiltà ereditaria, è che era stata commissionata da persone che sostanzialmente non appartenevano a quel mondo. Ma che più di ogni altra cosa, avrebbero desiderato farlo.
Non quei Friedrich e Beral von Wangen, che già nel 1237 si erano visti sottrarre la dimora avita a seguito dell’assalto di Mainardo II conte del Tirolo, per uno sgarbo che la storia sembrerebbe aver dimenticato. E neppure il suo servo emancipato Gottschalk Knoger, che dopo averla ricevuta in dono riuscì a trasmettere l’impervia residenza a sua figlia e i successori per oltre un secolo fino al 1385. Quando forse per l’estinguersi di una linea di sangue, o un antico affare del mercato immobiliare, ad acquisire il maniero furono i fratelli Franz e Niklaus Vintler, mercanti di vino con sede a Bolzano che pur vantando uno stemma e possibile possesso di un titolo decaduto, corrispondente all’immagine di due o tre zampe d’orso, appartenevano ormai da multiple generazioni alla “nuova” borghesia del Tirolo. Ma da sempre avevano aspirato ad un qualcosa in più. E così diedero l’inizio, grazie alle proprie considerevoli finanze, ad un lungo processo di restauro, ampliamento e decorazione del castello, destinato grazie a diventare per un gioco del destino forse la migliore capsula del tempo di cui disponiamo per quel secolo in qualche maniera perduto…
architettura
Il tempio scenografico della democrazia sul palcoscenico fluviale del Sarawak
Più volte paragonato a una tenda da circo alta 114 metri, uno spremiagrumi o una giostra da Luna Park, il Nuovo Edificio dell’Assemblea Legislativa di Kuching (Bangunan Dewan Undangan Negeri Sarawak Baru) vanta in realtà un’ispirazione soltanto in apparenza prosaica: quella della sommità di un ombrello, l’iconico payung negara usato dal capo costituzionale del suo paese. Una sorta di egida metaforica, o protezione del popolo dalle gravose avversità, al punto da aver generato l’espressione idiomatica di trovarsi sotto la sua copertura sovrana. Alimentando un proficuo senso di autocompiacimento patriottico e fiducia nei confronti dello stato. Ma il suo significato metaforico, esemplificato dai numerosi archi che sostengono la forma di una stella a nove punte, allude nel contempo all’inclinazione di una società multiculturale, capace di unire le proprie forze al fine di sostenere qualcosa di grande. Come per l’appunto, la stanza dove si riunisce il governo monocamerale di questa particolare regione a statuto autonomo della Malesia, all’ottavo piano dell’abnorme edificio.
C’è d’altra parte una storia di fraternità tra i popoli nella vicenda collegata alla modernizzazione della principale città malese sull’isola del Borneo, con i suoi 723.000 abitanti dislocati in prossimità della foce del Sarawak. Nome di un fiume e di uno stato, fin da quando il Raja Muda Hashimit abdicò nel 1841 a favore dell’avventuriero britannico James Brooke, dopo che l’esercito privato di quest’ultimo lo aveva assistito nel sedare la cruenta ribellione dei popoli Land Dayak. Se non che nel giro di anni, se non mesi, la gente dell’entroterra isolano avrebbe imparato ad ammirare questo nuovo ed a quanto si dice saggio governante, costruttore di scuole, ospedali, strade ed un sistema fognario. Rendendogli l’onore, del tutto privo di precedenti fino a quel particolare momento storico, d’inviare i propri capi a presenziare le assemblee pubbliche all’interno del suo surau di legno, l’edificio amministrativo fatto costruire in base all’usanza tradizionale dei Minangkabau, costrutto architettonico comparabile alla zawiya araba, ovvero quella parte della moschea dedicata alla gestione degli affari comunitari. Fu tuttavia nell’anno stesso della sua morte, il 1868, che l’assemblea cresciuta eccessivamente nel numero dei propri membri cominciò quindi a diventare raminga, riunendosi dapprima nel forte militare lungo il fiume, quindi nella vicina villa del governatore, poi nell’edificio del tribunale ed infine nella Sala per lo sviluppo Tun Abdul Razak. Era ormai il 1976 quando lo Yang di-Pertuan Agong, il sovrano eletto costituzionalmente del paese, inaugurò finalmente un luogo dedicato a quello che si era dimostrato capace di diventare nel frattempo un vero e proprio parlamento. Il cuboide palazzo del Wisma Bapa Malaysia (Edificio Padre della Malesia) deliberatamente ispirato alla struttura dalle funzioni simili presente presso la capitale nazionale, Kuala Lumpur. Una soluzione destinata a durare questa volta ben 33 anni, almeno finché il numero dei parlamentari, ormai cresciuto esponenzialmente, non richiese l’ennesimo miglioramento delle sale a loro dedicate. E fu così che una titanica struttura sorse, nuovamente, lungo le sponde del sacro fiume…
La testa del gigante che sorveglia le ossa del castello di Kaliningrado
Nel sistema iconografico dell’animazione fantascientifica giapponese, la squadra degli eroi decolla dall’astronave in orbita dentro la testa dei propri robot antropomorfi, per combattere le presenze indesiderate. Nella Russia sovietica, la presenza indesiderata pratica il base jumping direttamente dalla testa del robot, per girare un video pronto alla pubblicazione online. E meno male che aveva il paracadute! Questo gioco delle inversioni d’altra parte, inventato possibilmente negli anni ’30 dall’autore di musical statunitense Cole Porter, è da sempre stato utilizzato al fine d’identificare le ironiche contraddizioni di uno stato di sorveglianza. Del tipo che parrebbe voler pubblicizzare se stesso la figura della Дом Советов o “Casa dei Soviet”, il massiccio edificio che fu approvato negli anni ’70 per poi restare eternamente incompleto, venendo associato dai locali al quasi-mezzo busto di un colosso sepolto, con le balconate quadrate simili ad occhi per scrutare le tribolazioni dei cittadini sottostanti. 50 metri di cemento brutalista o “futuribile” per dare forma ad un progetto dichiaratamente ispirato al Congresso nazionale di Brasilia, di suo conto disegnato dal celebre architetto sudamericano Oscar Niemeyer. Laddove l’autore di quello che sarebbe diventato il principale avamposto del blocco orientale nel contesto geografico mitteleuropeo, il suo collega vincitore dell’appalto Yulian Lvovich Shvartsbreim, aveva palesemente deciso di premere l’acceleratore con enfasi sul tema del modernismo post-bellico impersonale ed oggettivista, finendo per creare qualcosa di drammaticamente rappresentativo della propria epoca, eccezionalmente alla moda ed al tempo stesso, facilmente discutibile con il senno di poi. L’idea di ispirarsi più o meno direttamente ad una città costruita dal nulla in epoca contemporanea, nel frattempo, sembrò da subito perfettamente calzante, data la condizione derelitta in cui si trovava ancora il centro storico della strategicamente rilevante exclave lituano-polacca, già due volte di troppo coinvolta nei bombardamenti e le battaglie della seconda guerra mondiale. Il che aveva portato, tra le altre cose, al grave danneggiamento del magnifico castello dei Cavalieri Teutonici del XIII secolo della loro omonima Königsberg, demolito infine tra il 1969-70 piuttosto che restaurato a caro prezzo, con la scusa probabilmente scelta ad arte che potesse costituire un simbolo del fascismo storico di questi luoghi (benché gli fosse antecedente di circa 6 secoli, ma tant’è).
Quale miglior luogo, dunque, per edificare un nuovo grattacielo amministrativo dell’altezza di 28 piani, dove i rappresentanti del Partito giunti da Mosca potessero risiedere ed esercitare il proprio potere, in quella che potremmo definire unicamente come una monumentale, ponderosa ed abitabile allegoria…
Il suono roboante della macchina che ricicla i tondini edili
Facile da fare, difficile da disfare, praticamente impossibile da riportare allo stato originario. Il cosiddetto rebar o tondino zigrinato, componente primario dell’armatura edile, viene creato mediante la lavorazione a freddo e taglio a misura di una letterale bobina di acciaio duttile, successivamente trasformato in una struttura rigida mediante la sollecitazione dei suoi atomi costituenti. Il che non significa che risulti essere, di suo conto, indistruttibile, come ampiamente dimostrato a seguito della demolizione di un edificio. Quando assieme al cumulo di cemento, inerentemente riutilizzabile a guisa di materiale riempitivo, si prende atto del tremendo groviglio composto da letterali decine, o centinaia di metri di queste sbarre di ferro e carbonio, particolarmente veloce ad arrugginirsi mentre si trasforma in un rifiuto buono soltanto per la fornace. Ecologia? Tutela dell’ambiente? Riduzione dell’impronta carbonica derivante? Tutte finalità difficilmente perseguibili, soprattutto in paesi in via di sviluppo, dove la spinta all’ampiamento e recupero edilizio supera talvolta i fondi a disposizione della maggior parte delle aziende. Viene infatti dal Brasile questa singolare macchina recicladora de vergalhão, che poi sarebbe un’espressione in lingua portoghese che allude al riutilizzo dei suddetti componenti, finché sono ancora “buoni” e ragionevolmente utili in un’ampia gamma di circostanze. C’è infatti una fondamentale problematica, che tende ad accomunare la maggior parte delle sbarre di rebar che vengono recuperate dal cemento d’implementazione, anche in condizioni ideali: le sinuose curve, gli angoli a gomito, le difformi piegature implementate al fine di ancorarle in posizione, così da evitare lo scivolamento e conseguente crollo (involontario) dell’edificio. Da qui l’idea della JP Botelho Máquinas, già individuabile anche nel catalogo di alcuni fornitori cinesi online, per semplificare un tipo di processo a cui semplicemente nessuno, fino ad oggi, era sembrato possibile fare affidamento. L’effettiva piegatura sul campo di questa tipologia di materiali, tradizionalmente effettuata a mano mediante l’utilizzo di attrezzi manuali simili a tridenti, aveva sempre richiesto un lungo tempo ed altrettanta perizia nell’esecuzione dei movimenti, tanto da rendere impossibile il ritorno sistematico alla situazione di partenza. Finché non si potesse disporre dell’aiuto di un particolare, ingegnoso ed automatico, coccodrillo…