L’irascibile pollo che sognava di sconfiggere i mulini a vento

Sono splendido, sono terribile, sono il Dio della radura. Sono un diavolo dal cuore d’oro. Un guerriero, un condottiero. Quando si alza la mia cresta, tremano i nemici e anche gli amici, non riescono a restare indifferenti. Uno, tre, quattro colpi di coda. Contando sul perfetto mimetismo della mia armatura, avanzo indomito verso il gigante, che pur guardando nella direzione opposta, continua ad agitare le sue grandi braccia, minacciando gli abitanti aviari del tranquillo Nulla nordamericano. A meno che… Perfetto! La distanza è quella giusta: adesso apro le mie ali e balzo verso l’alto. Gonfio il mio vessillo globulare, portato sopra il collo e simile ad un astro mattutino. Il becco sferza l’aria, mentre argute, sagge sopracciglia, si sollevano con fare minaccioso. Ed a quel punto che trattengo il fiato, mi concentro, e metto in campo la mia arma più terrificante: “Whoo-Whoo-Whoo!” riecheggia lungo l’aere, mentre il suono sale, scende, poi sconfina oltre la soglia udibile dalle persone. Il mio terribile nemico, senza un attimo d’esitazione, sembra accelerare i movimenti delle braccia, mentre mi risponde con ferocia inusitata: “Boom-Boom-Boom!”. Il mio sangue, ghiaccio nelle vene. I corvi si allontano terrorizzati. Tra i cespugli, un movimento: è un gruppo di galline che mi osservano con interesse. Ammirate, entusiaste, innamorate? Poco importa, questo è il mio segnale: danzo, balzo, faccio giravolte. Lancio ancora un grido per chiamare il mio destriero inesistente: “Whoo-Whoo-Whoo!” E con gli artigli scavo nella terra, afferro un verme, lo divoro e guardo ancora all’indirizzo del gigante. Egli non reagisce, eppure “Possibile che sia soltanto un’impressione?” Il suono che trasmette sembra essere calato d’intensità. E così anche il suo terribile gesto rotante. Mi volto: nei “loro” occhi c’è soltanto gratitudine. Chiudo le ali, taccio un’attimo, poi torno a pensieroso a mormorare: “Whoo?”
Naturalmente, se l’hidalgo “El Ingenioso” Don Quijote de la Mancha fosse nato nel nostro secolo, i suoi nemici non sarebbero stati i mulini, bensì pale eoliche costruite a lato del sentiero. Così come nel caso del feroce (nella sua mente) nonché stravagante e magnifico (ai nostri occhi) tetraone maggiore della prateria (Tympanuchus cupido) o “pollo” di quest’ultima, come lo chiamano dalle sue parti, esponente della famiglia dei fasianidi dotato di una storia, caratteristiche e abitudini decisamente interessanti. Diffuso, originariamente, nell’intero territorio degli Stati Uniti centro-meridionali ma oggi rimasto per lo più in Minnesota, Illinois, Kansas, Nebraska e South Dakota, a causa della spietata che caccia che ne è stata fatta fino agli anni ’30 dello scorso secolo, esso è stato preso spesso in considerazione come marker (specie indicativa) dello stato di conservazione del suo habitat, per l’abitudine particolarmente cauta a nidificare solamente a distanza di sicurezza dalle strade, strutture umane e strade. Tanto che, in uno studio del 2014 era stato determinato che le strutture necessarie per la trasformazione del vento in energia elettrica rientrassero negli ostacoli alla sopravvivenza di questa specie proprio perché istintivamente temute come punti di sorveglianza per gli uccelli rapaci. Se non che verso la primavera dell’anno scorso, la pubblicazione di un nuovo studio durato sette anni ad opera di Jocelyn Olney Harrison e ricercatori dell’Università di Nebraska-Lincoln, giunse a dimostrare l’esatto opposto: ovvero, che non soltanto i tetraoni non avrebbero alcun timore delle pale eoliche, ma addirittura, in loro presenza, aumenterebbero sensibilmente il volume dei loro canti di corteggiamento. Al fine di sovrastare le basse frequenze emesse dalle strutture artificiali, con conseguente prova ulteriore della loro prestanza fisica e pennuta virilità…

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La foglia che cammina quando il vento smette di soffiare

Di certo avrete già sentito il detto universalmente valido: “Sei quello che mangi”. Ma difficilmente avreste mai pensato di associarlo, in senso tanto letterale, a un piatto d’insalata… Se voi foste, in questo preciso momento, sotto il tetto umido della giungla della Malesia, spostereste a un certo punto il vostro sguardo verso l’alto. Soltanto per scorgere, come un lieve movimento ai margini del campo visivo, un piccolo corpuscolo marrone che precipita verso il terreno. Forse un seme, forse frass, tipica deiezione degli insetti erbivori, costituita dalle foglie masticate e semi-digerite all’interno di quel piccolo condotto digerente? Oppure lo speciale recipiente, come si trattasse di una capsula spaziale, di colui che giunto al culmine di un tale stratum, non può fare a meno di dimenticare ciò che è stato responsabile per la sua crescita iniziale: il duro, distante, quanto mai spietato suolo. Phyllium giganteum è il nome scientifico di quell’inusitata creatura, considerata tra le maggiormente rappresentative di un’intero ordine di fantasmi, che solo in pochi hanno provato l’emozione di vedere, all’interno dello specifico habitat di provenienza. Per lo meno, riconoscendola per ciò che veramente è: già! Stiamo parlando, dopo tutto, di un’artropode dalla lunghezza di 11-13 cm (se di sesso femminile) e largo fino a 6, nel punto piatto del suo addome frastagliato. Seghettato, dentellato, addirittura morsicato all’apparenza, per sembrare esattamente quel che maggiormente può servire a esonerarlo dal pericolo dei predatori: figlio della foglia, e foglia prima di ogni cosa. Segno sopra il foglio, di una pagina che può passare inosservata.
Naturalmente, per il più grande insetto foglia al mondo, non c’è una singola ragione al mondo per cui i propri figli non dovrebbero nascere già dotati della sua unica arma e straordinaria strategia di difesa, il mimetismo. Eppur non sempre, ciò che è conveniente risulta essere anche possibile, ragion per cui i piccoli nati dall’incontro possibile, ma non obbligatorio tra i due sessi (molti fasmidi praticano la partenogenesi facoltativa, ovvero l’autoclonazione femminile) vengono letteralmente espulsi in maniera relativamente infrequente, circa ogni 3-4 giorni, ma continua per l’intero anno. Finché al termine di un simile periodo, sotto l’albero di acacia o di melone che li ospita, si accumulano fino 400 di queste letterali pillole della vita, del tutto simili alla forma potenziale di un futuro arbusto equivalente. Almeno fino a che… Cadendo nella trappola creata dall’evoluzione, qualche inconsapevole formica non passi casualmente da quelle parti, decidendo subito di aggiungere simili oggetti alla dispensa della sua colonia. Ed è proprio allora, in mezzo all’esultanza delle moltitudini, che inizia il più importante tra i capitoli di questa storia. Poiché per 4-6 mesi, totalmente impervio ad ogni tentativo di violarne il guscio, l’uovo d’insetto foglia rimarrà sopìto nella più profonda delle stanze sotterranee. Finché un giorno prefissato, aprendo dall’interno la speciale botola biologica (opercolo) di un tale carro armato, farà proprio zampettante ingresso nel consorzio dei viventi. Con l’aspetto totalmente indistinguibile… Non certo dalla madre.
Oppur dall’eventuale padre, rispetto cui risulta, d’altra parte, avere meno di un centesimo di stazza. Bensì l’imenottero padrone di quel mondo, mirmecologico percorritore delle oscure sale: la formica. Davvero conveniente, nevvero?

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2020: rinnovata la speranza di un ritorno della tigre tasmaniana?

Prendiamo due animali che hanno una dieta simile, uno stile di vita quasi identico, dimensioni, postura e agilità piuttosto comparabili nella maggior parte dei casi. Ma mettiamo il caso che uno dei due sia (potenzialmente) addomesticabile, mentre l’altro, almeno nella sua visione più stereotipata, un ladro di galline, uccisore di pecore, potenziale rischio per i figli dei fattori e allevatori dell’outback. É davvero così difficile, a questo punto, immaginare quale sia quello avviato verso il triste fato entropico dell’estinzione? Così mentre il dingo (Canis lupus, come tutti gli altri) continuava a prosperare ed a moltiplicarsi indefesso, la sua controparte marsupiale, unico vero carnivoro di proporzioni medie del continente australiano, iniziò a vedere assottigliarsi le sue fila, ben prima che l’uomo bianco, con le sue ingombranti navi, giungesse per colonizzare queste terre straordinariamente remote. Il caso del tilacino o “tigre” della Tasmania (Thylacinus cynocephalus) costituisce ad oggi una delle più eclatanti estinzioni di una specie animale nel corso del ‘900, primariamente perché furono in molti, a torto o a ragione, a ritenere che potesse essere salvato. E secondariamente per la casistica, più volte reiterata, di avvistamenti effettuati da abitanti di entrambe le maggiori isole d’Oceania, ma in modo particolare nella regioni maggiormente rurali dell’isola che prende il nome dall’esploratore olandese Abel Tasman, l’ultimo degli habitat dove quest’animale ebbe l’occasione di sopravvivere in gruppi sparuti, la cui varietà genetica aveva iniziato ad assottigliarsi già a partire da parecchi secoli a questa parte. Della cui estinzione, in molti, non ebbero mai modo di convincersi: sono in effetti oltre 200 gli avvistamenti registrati dell’animale, dagli anni ’80, in una quantità progressivamente minore mano a mano che la sua memoria culturale svanisce dalla mente delle persone, trasformandolo in una leggenda comparabile a quella di Bigfoot o del mostro del lago di Lochness. Se non che, risale alla metà di questo mese d’ottobre l’improvvisa, quanto inaspettata pubblicazione di un completo rapporto dell’ente governativo tasmaniano DPIPWE (Department of Primary Industries, Parks, Water and Environment) con 8 casi tutti concentrati negli ultimi 3 anni, alcuni coadiuvati da prove videografiche tra le migliori raccolte da almeno una mezza generazione; ciononostante mai perfettamente a fuoco, mai abbastanza da vicino. Ma ciò sottintende la prassi internazionale in materia di criptidi, e chi mai avrebbe potuto desiderare di meglio? Due turisti in visita che avvistano la belva, con la coda erta e le strisce sulla schiena, che gli attraversa la strada mentre ritornavano alla civiltà. Un agricoltore che ne intravede la sagoma in mezzo alla nebbia, riconoscendola per l’unica cosa che, a tutti gli effetti, avrebbe mai potuto essere, date le circostanze. L’autista in viaggio lungo le strade asfaltate della Deep Gully Forest Reserve, spiazzato dalla forma “Simile a un felino, ma troppo grande per esserlo” che gli corre accanto a circa 200 metri distanza. Troppi per riconoscerne le strisce… Ma tant’è. E poi le impronte, a più riprese ritrovate e fotografate, così particolarmente asimmetriche e con le unghie perfettamente in linea, ben diverse da quelle di qualsivoglia canide di queste regioni del globo! Possibile che in una qualche sorta di Valle Perduta, il predatore sia in qualche maniera sopravvissuto? Per comprendere a pieno l’importanza di una simile affermazione, sarà prima spiegare brevemente che cosa effettivamente, la tigre tasmaniana ERA…

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L’enigma oceanico dell’albero impiegato per intrappolare le persone

AD 1790: Waru camminava curvo sotto il peso delle catene, quelle che i coloni provenienti dalle terre oltre il mare avevano assicurato alle sue spalle, al collo e ai polsi dopo che i giovani del suo villaggio si erano ribellati ad un fato eccessivamente crudele. Il guardiano capofila della carovana, composta in numero maggiore di membri del popolo Miriuwung Gajerrong della regione di Kimberley, amici, lontani parenti, compagni di caccia, stavolta condotti da coloro che amavano farsi chiamare nella propria lingua blackbirders ovvero “[catturatori] di uccelli neri”. I pirati anglofoni senza nessun tipo di quartiere per coloro che potevano servire, in qualche modo, ai loro sinistri scopi. Il che tendeva a rivelarsi doppiamente vero per coloro che facevano parte della generazione di Waru, tanto problematici nei confronti del loro dominio, con mazze, boomerang ed altre armi di una dura ribellione, quanto potenzialmente utili, una volta trasportati lungo le coste australiane fino alla baia di Kuri e Wallal Downs, località famose per la quantità di ostriche da perle presenti naturalmente sui loro fondali. Un letterale tesoro, pronto da cogliere ed almeno in circostanze ideali, soprattutto considerata la rinomata presenza di squali, lavoro perfettamente idoneo ai rappresentanti della sottomessa etnia. Mentre il gruppo procedeva sotto il pungolo di lance e canne di fucile, quindi, Waru riconobbe la sagoma che stava comparendo all’orizzonte: quella del gadawon quasi del tutto privo di foglie in questa stagione, anche chiamato l’albero sacro o albero bottiglia, per il prezioso contenuto d’acqua e le sostanze nutritive nascoste sotto la dura scorza dei propri frutti, simili a noci giganti. Due dei carcerieri si scambiarono quindi alcune parole, che a loro insaputa il guerriero Miriuwung riuscì a comprendere alla perfezione: “Tutti e 12 non entreranno sulla nostra barca. Mettine… Quattro là dentro e scegli una guardia. Torneremo a prenderli più tardi.” Oh, sacrilegio! Pensò Waru, scambiandosi uno sguardo con il suo compagno di sventura più vicino, stringendo i pugni finché le sue nocche assunsero il pallore dei morti. Perché sapeva cosa stava per succedere: molti gadawon, infatti, possiedono una cavità interna. Abbastanza grande per farci entrare un certo numero di malcapitati, nella più totale noncuranza della loro effettiva funzione nei rituali funebri e per il benessere del grande Spirito dei villaggi…
Fatto, verità storica, ipotesi o una semplice allegoria? Che l’albero-prigione di Derby, o quello quasi identico di Wyndham, cittadina situata quasi 1500 Km a nord-est, siano stati effettivamente utilizzati come prigioni temporanee per gli aborigeni costretti ad una vita di schiavitù dai coloni europei d’Australia, resta oggi una vicenda totalmente priva di conferme oltre a quella del sentito dire. Benché in effetti, sia perfettamente lecito pensare a un simile utilizzo per questi due rappresentanti della specie Adansonia gregorii, anche detta del boab o baobab d’Oceania. Un albero tendenzialmente più basso, ma per il resto quasi indistinguibile dal proprio omonimo subsahariano, noto per la sagoma riconoscibile in tante foto sudafricane. Ed in funzione di ciò dotato non di un singolo tronco bensì quello che viene generalmente definito il caudex, ovvero lo “stelo” risultante nello specifico caso da una serie di controparti verticali derivanti dallo stesso ammasso di radici, la maggior parte delle volte in grado di fondersi assieme ad anello, formando uno spazio vuoto e ombroso, accessibile soltanto attraverso un piccolo pertugio. Il quale, in realtà, poteva servire a molti possibili scopi…

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