Il cerchio magico di un ragno sconosciuto

Nel profondo dell’Amazzonia peruviana, Antichi Alieni costruiscono riconoscibili strutture: una recinzione a strati sovrapposti, invalicabile ed appiccicosa, sostenuta da paletti alti e resistenti come quelli di Jurassic Park. Una sorta di Teepee centrale dalla forma conica, perfetto luogo d’immagazzinamento per le loro uova. E al vertice di questo, ove converge il tetto, un’alta torre simile a un’antenna, in grado di offrire un metodo di riconoscimento anche a distanza, oppure un punto di riferimento per l’atterraggio dell’astronave. Ma sono piccolissime, queste creazioni. Tanto che lo studente del Georgia Tech, Troy Alexander, di ritorno in questi luoghi per assistere nelle attività di conservazione ecologica dei pappagalli, fu il primo a notarle nel 2013, abbarbicate per errore alla superficie superiore di un telo azzurro, in uso presso il centro di ricerca di Tambopata. O almeno il primo ad essere di dotato di fotocamera, e l’intento o la capacità di accendere la miccia online, per scatenare un tam tam globale di appassionati, entomologi e sedicenti esperti, ciascuno egualmente determinato nel dire la sua sul tema di “Cosa diamine è questo?” E sappiatelo, ne sono state dette molte: si è parlato di funghi, muschio e muffe mucillaginose. Si sono nominate le falene, ipotizzando che l’insieme di costrutti fosse in realtà soltanto l’inizio di un bozzolo lasciato incompleto, per l’opera di un bruco ritrovatosi a fuggire (oppur fagocitato) da uno dei suoi molti predatori. Ipotesi presto scartata quando, durante una seconda visita effettuata a dicembre dello stesso anno da Phil Torres, studente della Rice University di Houston nonché amico dell’originale scopritore, di questi misteriosi apparati ne sono stati ritrovati circa 45, disseminati tra i tronchi di svariati alberi della foresta. Qualunque cosa fosse la torre recintata di materiale bianco e appiccicoso, essa non rappresentava un qualcosa di incompleto, ma la forma fatta e finita del contenuto del suo progetto. A quel punto, nella comunità coinvolta del web iniziò ad insinuarsi un’insolito sospetto: che queste cose fossero in realtà il prodotto di una creatura totalmente nuova, ovvero del tutto sconosciuta alla scienza prima della fortuita convergenza del caso. A tal punto, è stato intrapreso un percorso di cui il presente video rappresenta soltanto l’ultima tappa, finalizzato all’identificazione finale della piccola, misteriosa creatura.
Sarà meglio a questo punto dirimere la finta suspence, anche perché il titolo l’avete certamente letto, ed affermare a chiare lettere che il “colpevole” è un piccolo aracnide arancione. L’avevamo, in effetti, sospettato fin dagli inizi della questione, ma la cosa è diventata inequivocabile soltanto ora, col rilascio da parte di Torres di queste fantastiche immagini, in cui alcuni graziosi ottupedi neonati fuoriescono da un pertugio ricavato sulla base del teepee, iniziando ad avventurarsi nello spazio ben delimitato del loro piccolo giardino recintato. Ecco svelato, dunque, il primo dei misteri: l’edificio centrale di quello che su Internet è stato soprannominato il Silkhenge (unione della parola che in inglese significa seta + il nome del famoso cerchio di Menhir neolitici) è in realtà nient’altro che un ootheca, o in alternativa uno spermatoforo, usato dai costruttori artropodi come luogo d’elezione per l’accoppiamento, e conseguente nursery dei nascituri. Risposta che, in realtà, solleva un grande numero d’ulteriori interrogativi: come fanno i ragni maschi, oppure le ragne, a costruire una struttura tanto elaborata? E con che scopo? Possibile che serva ad attirare il/la partner, oppure si tratta di una sorta di protezione per i piccoli al momento della schiusa, che in questo modo saranno inattaccabili da parte di formiche, millepiedi o altre fameliche creature brulicanti… Ma soprattutto, la domanda più grande di tutte: perché mai questi ragni abbandonano le uova e il relativo nido subito dopo la deposizione, quando praticamente tutti gli aracnidi, salvo rare eccezioni, hanno adottato la meno dispendiosa e più efficace soluzione evolutiva di tenerle ben strette a se e proteggerle fino al momento della schiusa? Come avvenne all’origine della disquisizione sul “cosa” anche il “perché” si sta rivelando l’invito a un tema aperto per il diffuso chiacchiericcio del web…

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Il virus che zombifica i tentacoli delle stelle marine

L’oceano è una voragine ricolma di terribili misteri e questa, fra le tante, ne è una prova estremamente chiara: cerchiamo di descriverla con un’analogia. Un individuo torna a casa dopo una giornata di lavoro, affamato perché non ha avuto tempo di pranzare a dovere. Prima di mettersi ai fornelli, tuttavia, si sdraia per qualche minuto sul divano. Durante il sonnellino, mentre la coscienza è sopita, il suo braccio assume vita propria, si separa dal corpo e inizia a camminare fino al frigorifero, trascinato in avanti dalle dita della mano contorte nella forma di un artiglio. Un metro, due metri, quindi faticosamente, l’arto autonomo spalanca lo sportello bianco e inizia ad afferrare tutto ciò che gli capita a tiro. Parte delle vivande cadono a terra con un tonfo sordo, il resto si accumula in corrispondenza di una spalla inesistente. È più o meno a quel punto, che il corpo immobile comincia a liquefarsi. Non è una puntata della famiglia Addams. E neppure un racconto appartenente al myhtos lovecraftiano di Cthulhu, in cui oscure divinità extraterrestri influenzano da millenni la storia dell’umanità. Ma esattamente come in questo secondo caso, si tratta di un orrore proveniente dal profondo, talmente inspiegabile da sfuggire anche alla scienza, benché diverse spiegazioni siano state azzardate, ed almeno un (vago) rapporto di correlazione, definito. Il fatto è che nel mare c’è QUALCOSA. Che periodicamente negli ultimi 40 anni, in almeno tre occasioni, si è scatenato sull’intera popolazione di una classe d’animali estremamente pacifica ed inoffensiva, decimandone in modo spietato la popolazione. Ed ora è dal 2013, anno più anno meno, che l’influsso malefico ha raggiunto un grado di spietatezza precedentemente inusitato, arrivando a ridurre nell’intera costa orientale degli Stati Uniti la popolazione delle Asteroidea (le adorabili stelle marine) di fino al 90% rispetto al totale pregresso.
La decorrenza di quella che viene correntemente definita SSWS (Sea Star Wasting Syndrome) è progressiva, ma estremamente rapida. Si comincia con un singolo esemplare, membro di una popolazione apparentemente del tutto in salute, sul quale compaiono delle lesioni biancastre, che coinvolgono lo strato dell’endoscheletro protettivo tipico del phylum degli echinodermi. Quindi l’animale diventa passivo, in quanto l’intero sistema linfatico che gli permette di mantenere l’equilibro, ridistribuendo i liquidi all’interno, cessa essenzialmente di funzionare. Giunti all’apice di questa fase si sviluppa la fase più inquietante della malattia, dimostrata poco più sopra grazie all’assistenza di dell’orribile similitudine umana: alcuni degli arti della stella sembrano guadagnare una propria volontà, e iniziando a tirare grazie alle centinaia di peduncoli presenti nella loro parte inferiore, si strappano via letteralmente dal corpo centrale, la parte dell’animale in è sita la bocca. Ora la capacità di alcuni appartenenti a questa particolare classe di creature di rigenerarsi, si sa, è letteralmente perfetta. Basta un singolo braccio (o “tentacolo”) affinché le istruzioni genetiche contenute all’interno delle sue cellule possa riuscire ipoteticamente a ricostruire tutto il resto del corpo, avendo effettuato a tutti gli effetti la riproduzione asessuata. Spesso, determinate specie usano una tecnica simile per sfuggire ai predatori, lasciandogli in pasto una parte di se alla maniera delle lucertole di terra. Ma non tutte le stelle marine possono farlo, e comunque, in presenza di un evento di SSWS anche questa manifestazione dell’animale tende ad avere una vita molto breve. Il tentacolo separato dal corpo, del resto, non può nutrirsi, e dovrebbe sviluppare uno stomaco in un tempo estremamente breve. Di certo, non quanto quello dello sguardo della morte in agguato.
Da osservatori guidati dalle proprie idee spontanee, molti abitanti e sub appassionati degli Stati Uniti e altrove hanno elaborato una teoria. Che nei fatti, risulta simile ad un’ammissione di colpa, elaborata in nome dell’intera umanità: l’insorgere di questa mutazione deleteria potrebbe derivare soltanto dall’incidente della centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi, colpita dal devastante terremoto e tsunami nel 2011, soltanto due anni prima dell’insorgere della nuova epidemia. Questo, tuttavia, non spiega l’insorgere di situazioni simili, benché meno gravi, verificatosi nel ’72 e nel ’78, a meno di non voler ricorrere a un generico “I mari sono inquinati, è naturale che stiano morendo.” Che è un pensiero utile, a suo modo. Ma non risolve la questione in oggetto….

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Le due armi segrete del gambero ninja

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Prima del moderno perfezionamento dell’intelligenza artificiale e l’introduzione della grafica tridimensionale calcolata in tempo reale, ciò che caratterizzava ciascun particolare ostacolo nei videogames era un diverso tipo di movimento predeterminato: da destra verso sinistra sullo schermo (una freccia? Un missile? Una palla di fuoco?) Dall’alto verso il basso (una stalattite? Un incudine? Un falco in picchiata?) e così via… Fra tutte le diverse possibilità, ricorreva poi alquanto spesso il tema della “cosa” che fuoriesce dal pavimento. Questo ruolo veniva generalmente occupato un mostro misterioso, del quale persino il manuale d’istruzioni si limitava a dare una descrizione piuttosto vaga. Talvolta insettile, spesso simile ad un ragno, più raramente robotica o comunque di metallo, la creatura presentava sempre un aspetto del tutto imprescindibile: piuttosto che colpire, afferrava. Il che voleva inevitabilmente dire, nel mondo delle tre vite concesse ad ogni inserimento di gettone nel bar, l’immediata (ennesima) dipartita del personaggio principale. Ora chiunque abbia mai approfondito l’argomento, dovrebbe sapere molto bene come il media digitale interattivo, fin dalle sue origini, abbia tentato d’imitare la natura. E per quanto concerne un certo tipo di giochi a scorrimento, ovvero gli sparatutto nel senso classico ambientati spesso nello spazio, l’ispirazione effettiva è sempre stata data dalle profondità azzurre dell’oceano sconfinato. Nel quale, tra i tanti organismi predatori che afferrano le cose di passaggio, c’è n’è uno che spicca per il fascino estetico e le notevoli doti innate. La sua letalità estrema, del resto, ricorda molto da vicino quella di un mostro finale della serie R-Type. Il suo nome è gambero mantide (ordine: Stomatopoda) ma potrebbe altrettanto essere chiamato gambero Ninja Gaiden o gambero Assassin’s Creed.
Per definirne in termini d’assoluta immediatezza le terribili capacità, vorrei provare a riassumerle in un singolo suono. Penetrante e ripetuto, come il battito di un martelletto da calzolaio sulla suola di un stivale privato di suola: TAP-TAP, TAP-TAP. Immaginate, da acquaristi ovvero proprietari di un recipiente per pesci con tutti i crismi, di svegliarvi la notte con questa sensazione che stia per succedere qualcosa di terrificante. Per raggiungere immediatamente il salotto buio, dove alquanto stranamente, vi riesce di scorgere un fievole scintilla; TAP-TAP, eccola di nuovo! È lui non c’è dubbio, può essere soltanto lui. Luce accesa, occhi spalancati per scorgere l’imprevista verità: tra le rocce vive che avete acquistato per dare un habitat più variopinto ai vostri amici pinnuti, dovevano esserci delle uova. Nascosto nella sabbia del fondale, quindi, il mostro è cresciuto, afferrando qualche piccolo pesce di passaggio di cui nessuno avrebbe notato l’assenza, fino a raggiungere misura tutt’altro che trascurabile di 10, 15, forse addirittura 20 cm. Ed ora… Infastidito dalla sensazione di prigionia…Sta BATTENDO sul vetro dell’acquario. TAP-TAP-CRAAK! Con un suono stridente, all’improvviso, si forma la prima crepa. Acqua copiosa inizia a spargersi sul parquet! I due occhi sferoidali in equilibrio su altrettanti peduncoli sembrano focalizzarsi su di voi. Sottolineando l’intenzione, l’animale inclina lievemente la testa di lato. Quindi batte ancora, per l’ultima volta.
Sembra una leggenda metropolitana ma fidatevi, non lo è affatto: questi artropodi possono rompere il vetro degli acquari. Proprio per questo, nonostante la bellezza degli stomatopodi che può raggiungere vette estreme, soprattutto nel caso di specie come il gambero mantide pavone (Odontodactylus scyllarus) dai molteplici colori, l’effettiva addomesticazione di simili animali risulta nei fatti piuttosto rara. Aggiungete poi il problema che tutti questi esseri sono carnivori, nonché dei voraci predatori in grado di far piazza pulita di pesci anche molto più grandi di loro, e comprenderete perché sia molto meglio non avere nulla a che fare con loro. Ci sono casi registrati di sub esperti, che muovendosi per i fatti loro in un qualsivoglia recesso degli oceani tropicali e temperati, hanno inavvertitamente disturbato la tana di un gambero, ritrovandosi tagli sanguinanti sulle mani o gli avambracci colpiti. La ragione è da ricercarsi nel temibile secondo paio di appendici toraciche del crostaceo in questione, che non a caso presentano una forma ed articolazione del tutto simile a quella delle mantidi religiose. Con la sottile differenza che invece di essere fatte di un lieve e delicato esoscheletro chitinoso, tali artigli sono rinforzati da uno speciale composto mineralizzato di carbonio e magnesio, in grado di resistere all’urto con i più solidi involucri di conchiglia. O strati rinforzati di vetro.

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Perché il picchio pileato può sconfiggere un serpente

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La visione dei cartoni animati ma anche le naturali associazioni delle cose piccole alle idee, ci hanno portato alla cognizione che il suono del picchio all’opera nella foresta corrisponda grosso modo a quello di una lieve ballerina sulle punte, intenta a ad occupare uno dei ruoli secondari nella danza del lago dei cigni. Il che da luogo al dubbio reiterato, spesso vissuto dagli escursionisti nelle foreste boreali del Canada e dei Grandi Laghi, che può essere riassunto in breve nella frase: “Cosa diamine è questo frastuono… Infernale?” E già, che sarà mai? Sembra quasi che un cantiere edilizio, trasferito tra le fronde e resosi invisibile, giunga per manifestarsi come il fantasma di un castello vittoriano. Pare che un falegname alto due metri, preso dal raptus del lupo mannaro, si nasconda in mezzo ai tronchi e si diverta nel prenderli a martellate, a martellate. Bam, bam, BAM, BAM: foglie cadono dai rami, scoiattoli si lanciano verso la salvezza. Un piccolo pioppo americano, perforato da parte a parte, con l’aiuto del vento inizia gradualmente a piegarsi, quindi con lo schianto e un vortice di schegge si spezza in due. Dalla scena del delitto, un paio d’ali nere, con striature bianche e un ciuffo rosso sulla testa, grande grosso modo come un corvo, se ne vola via. Il suo aspetto è grazia ed innocenza. Il suo nome, puro terrore per le piante.
Dryocopus pileatus è fra tutti i picchi americani, quello che si è saputo adattare meglio alle necessità di un ambiente mutevole, continuamente condizionato dalle necessità d’espansione e conseguente disboscamento umano. Territoriale come i suoi fratelli, anch’egli soggetto alla necessità di aggredire una pluralità di tronchi alla ricerca di nuove larve o formiche sempre nuove da fagocitare, si tratta ad ogni modo di un uccello sufficientemente prolifico ed opportunista nel suo nutrimento, da riuscire a sopravvivere in praticamente ogni situazione. Capacità che gli ha permesso di fregiarsi all’attivo dello stato di diffusione graduato dalla IUCN di Least Concern (rischio d’estinzione minimo) ovvero tutto l’opposto di almeno due altre specie simili ma più specializzate, che per quanto ne sappiamo, ad oggi potrebbero anche essersi estinte. Il che sarebbe un vero dramma, nel caso del picchio pileato: perché è proprio questa creatura associata nella fantasia all’indole dispettosa e distruttiva di Woody, il picchio antropomorfo che folleggiò nei cartoons americani degli anni ’50, a consentire nei fatti la sopravvivenza di un alto numero di specie di uccelli e mammiferi, tra cui gufi, anatre dei boschi, scoiattoli e persino procioni, che arrampicandosi occasionalmente sugli alberi non mancano mai di apprezzare il foro tondeggiante, perfetto ed accogliente, ricavato in origine dal piccolo pennuto per custodire le sue uova.
Allo scoccare della stagione riproduttiva infatti, il pileatus cessa il suo vagabondare scriteriato, ed inizia a picchiettare un solo, specifico albero. Con insistenza estrema e all’apparenza crudele, tanto da perforare la corteccia, disintegrare letteralmente il legno all’interno e accumulare un letterale cumulo di segatura e frammenti, lasciati a depositarsi sulla base del tronco come una sorta di macabra paccianatura. Ciò viene fatto, tuttavia, con uno scopo assai specifico. E quello scopo è attirare la femmina, così come avviene per la danza combattiva del gallo cedrone, oppure l’apertura rituale della coda del pavone. Inizierà, quindi, quel riconoscibile richiamo quasi degno di un uccello tropicale, nei fatti simile alla risata stridula del succitato personaggio, finché una lei di passaggio non ceda all’evidenza, e non venga ad accoppiarsi e qui deporre le sue preziose uova. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Non proprio. Perché può capitare che il cumulo di legno sminuzzato, nei fatti, finisca per attrarre l’attenzione di un qualcosa di pericoloso e spiacevolemnte famelico. Un sinistro mangiatore delle cose bianche, tonde e ssucculente…

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