Il pesce combattente, fiore d’acciaio dello stagno del Siam

Forma variopinta che si agita nel vento, la piuma sull’alto cimiero del cavaliere al galoppo in un torneo. E se… Giunti al momento culmine della tenzone, appena sfiorato dalla lancia del suo avversario, l’ornamento si staccasse per finire dentro il fiume più vicino e se… Colpita da un fulmine d’un tratto, questa cosa prendesse a muoversi di propria stessa iniziativa, nuotando e definendo un territorio e difendendolo come se ne andasse della propria stessa sopravvivenza. Oppure quella della sua prole. Qualcuno potrebbe giungere a definirla un’ipotesi mostruosa. Il Dr. Frankenstein, una vera fortuna! Ma per gli abitanti di un’areale particolarmente ampio situato nell’intero Sud-Est Asiatico, nient’altro che la metafora più utile a definire il rissoso, magnifico, iracondo Plā kạd (ปลากัด – Pesce combattente) noto nel mondo anglosassone col nome falsamente rassicurante di betta fish.
Tipico abitante degli acquari in funzione del suo aspetto notevolmente attraente, oppure delle minuscole bocce di vetro anche usate per i pesci rossi, in funzione della falsa diceria secondo cui si tratterebbe di un “animale adattabile” senza effettive necessità di uno spazio vitale legittimamente proporzionato. Questo perché in effetti, come appartenente alla famiglia degli anabantoidei (volgarmente detti gourami) il Betta splendens presenta il vantaggio evolutivo dell’organo chiamato labirinto, un’espansione epibranchiale che gli permette di assumere l’ossigeno attraverso la stessa aria respirata dagli umani. Un’adattamento utile a vivere nelle acque stagnanti, durante il prosciugamento delle stesse nel corso della primavera o l’estate inoltrata, dove usa la sua bocca rivolta verso l’alto per fagocitare principalmente gli insetti caduti dall’alto o le larve di zanzara. Mentre un tipo diverso di qualità, ricevuta in “dono” dagli umani, è la straordinaria varietà di livree e colori con cui può presentarsi questa singola specie, in una tipica dimostrazione di quello che può fare l’allevamento sistematico a scopo riproduttivo, dietro una selezione dei geni considerati arbitrariamente migliori. Il pesce combattente presenta infatti un rivestimento di scaglie parzialmente sovrapposte, che agisce come una sorta di corazza durante le frequenti schermaglie con gli altri membri della sua genìa, la cui caratteristica è quella di presentare una serie di pigmentazioni sovrapposte a strati. Ragion per cui l’obiettivo del broker biologico diventa quello di “spogliare” parzialmente una particolare linea ereditaria dell’una o l’altra tonalità, ottenendo facilmente creature con straordinarie mescolanze di rosso, giallo, blu e azzurro, talvolta mescolati tra loro e ulteriormente impreziositi da effetti di tipo iridescente.
Il risultato, ritengo, potrà essere ammirato a pieno grazie ai veri protagonisti del video sovrastante, vecchia e famosa registrazione dell’annuale Congresso Internazionale dei Betta, tenutosi in quell’anno sotto la supervisione della componente tedesca dell’omonima organizzazione, fondata nel 1966 negli Stati Uniti. A poco più di un secolo di distanza da quando il re della Thailandia, Rama III (regno: 1824 – 1851) ebbe per primo l’idea di supportare e promuovere l’allevamento selettivo di questi animali assai meno esteticamente appaganti in natura, del tutto ignorati dalle tradizioni più antiche relative a “pesci per collezionisti” di buona parte dell’Asia, come i ciclidi o le già citate carpe sottodimensionate dalla colorazione integralmente vermiglia. Il fatto che oggi vengano istintivamente associati a queste ultime, come versione più esteticamente affascinante della stessa espressione di vita subacquea tuttavia, non del resto ha mai cessato di causare problemi a questi piccoli guerrieri dello stagno…

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Il mistero tassonomico del procione vegetariano

“Ispettore, credo che la dinamica degli eventi risulti essere piuttosto chiara.” Lo sguardo del vice si alzò un’altra volta verso il soffitto ombroso della foresta, indicando il ramo dell’albero di ficus direttamente sopra il punto in cui si stava svolgendo l’indagine di polizia. “L’animaletto stava cogliendo un frutto, quando improvvisamente ha perso la presa ed è precipitato a terra, da circa 25 metri di altezza. L’urto l’ha ucciso causando la frattura immediata della sua colonna cervicale. Una morte rapida. E indolore.” La sua controparte, vice-capo di un distretto periferico di Sorocaba, nella regione di São Paulo, si portò allora pensierosamente la mano alla lunga barba, valutando la precisa dinamica dell’incidente. L’esemplare in età evidentemente avanzata di kinkajou (Potos flavus) giaceva perfettamente immobile, in una posizione del tutto innaturale: la testa rivolta verso l’alto e il quarto posteriore ruotato esattamente di 180 gradi, con le zampe allargate sul terreno a vaga imitazione di un disegno anatomico leonardesco. La lunga coda, nel frattempo, pareva disegnare un punto interrogativo. Tra le due manine anteriori, stranamente simili a quelle di una scimmia, stringeva ancora il fico fatale all’altezza del petto orsino, sul quale erano visibili  le tacche inflitte dal paio di canini eccezionalmente appuntiti della creatura. Mentre veniva a patto con le caratteristiche della scena, l’espressione perplessa del vice-capo lasciò il posto a un comprensibile senso di rammarico per la vetusta vittima (poteva avere almeno 35-40 anni) mentre estraeva dalla tasca della divisa la macchina fotografica per le realizzare le foto da inviare alla Protezione Animali brasiliana. Fu allora che a un tratto, notò qualcosa: la lingua dell’esemplare deceduto, lentamente, era fuoriuscita dal suo muso semi-aperto e scimmiesco, avvicinandosi alla sommità del frutto. “I-Ispettore…” Sentì esclamare il suo aiutante: “Possibile… Che?”
A questo mondo popolato d’infinite variazioni sul tema di ogni forma di vita immaginabile dalla mente umana, ci sono esseri snodati e ce ne sono di MOLTO snodati. Quindi, in una categoria a parte, rientra il dorato “lemure/gatto/leone” o cercoletto, noto in buona parte del Sudamerica per le sue scorribande arboricole notturne, la pacifica grazia e la capacità di appendersi a qualsiasi ramo, non importa quanto rigido, verticale, obliquo e/o oscillante. Un traguardo raggiunto tramite un’ampia serie di adattamenti evolutivi, non ultimo dei quali la capacità d’invertire completamente, come il galletto di una banderuola segnavento, ciascuna parte terminale dei propri arti, facendo presa con le affilate unghie sulla scivolosa corteccia delle sue giornate. Per non parlare poi del suo tronco, caratterizzato dalla stessa insolita capacità funzionale. Questo in funzione del fondamentale “quinto arto” di cui è dotato, la coda della lunghezza di 40-50 cm, pari al resto dell’animale, dalla muscolatura possente e capacità prensile simile a quello di un piccolo primate o di un’altra nostra vecchia conoscenza, il binturong (Arctictis b.) del Sud-Est asiatico, l’unico appartenente all’ordine dei carnivori che condivide la stessa propensione ad appendersi a testa in giù. Chi dovesse ritenere le due creature in qualche modo simili, dimensioni maggiorate a parte, potrebbe restare tuttavia sorpreso: la piccola controparte sudamericana non ha infatti alcunché a che vedere con i viverridi (genette, zibetti etc.) rientrando invece a pieno titolo nella famiglia dell’arcinoto ladro quadrupede, con tanto di mascherina e subdola coda a strisce, che funge da antonomasia scientifica per l’intera famiglia dei Procyonidae degli Stati Uniti.

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Pleco, il pesce corazzato che minaccia l’ecosistema americano

Ombre oscure che si aggirano al di sotto delle increspature, nei fiumi, laghi e altri luoghi acquatici d’Europa, i pesci siluro costituiscono un problema anche troppo noto della globalizzazione biologica, importati originariamente dai paesi del Mar Baltico a scopo sportivo ed oggi diffusi a macchia d’olio, con conseguenze spesso deleterie sulle ampie nicchie biologiche monopolizzate dalla loro imprevista apparizione. Il problema del loro intero ordine di esseri viventi, comunemente detto dei pesci gatto, è la straordinaria capacità di adattamento che li caratterizza: nonostante le dimensioni imponenti, grazie alla capacità di respirare direttamente l’aria atmosferica, di nutrirsi di scorie ed avanzi di qualsiasi tipo e la resistenza notevole all’inquinamento, non c’è quasi nulla che possa fermare la loro proliferazione. Neppure la cattura da parte dei pescatori stessi, dato il sapore notoriamente orribile delle loro carni. È il tipico dilemma dell’uomo che influenza involontariamente il delicato meccanismo della catena alimentare, ritrovandosi improvvisamente privo d’idee sul come ritornare allo stato di grazia originario.
Quello che non molti sanno, tuttavia, è che dall’altro lato dell’Atlantico, dove simili creature non ebbero mai modo di affermarsi, un altro membro dello stesso ordine sta gettando scompiglio nell’intera parte meridionale degli Stati Uniti, dal Texas alla Florida, comparendo all’improvviso e dando sfogo alla sua notevole capacità di proliferazione. Pleco per gli amici, o più formalmente Hypostomus plecostomus, assomiglia alla nostra versione dell’invasore pinnuto più o meno quanto ciò può essere detto di una volpe siberiana, rispetto ad una iena o un licaone africano. Lungo al massimo 50 cm, laddove il Silurus glanis può raggiungere anche i tre metri e 250 Kg di peso, questo spazzino naturale originario del Sudamerica si è guadagnato il soprannome di “pesce ventosa” per la bocca rivolta verso il basso, che gli permette di aderire saldamente a qualsiasi superficie ragionevolmente uniforme, espediente usato dall’inefficace nuotatore per sfuggire al trascinamento da parte della corrente dei fiumi. Ma ciò che colpisce maggiormente la fantasia, rendendolo concettualmente simile a un qualche tipo di creatura preistorica, è il suo strato dorsale di “scuti” (placche dermiche coriacee e resistenti) da cui deriva lo stesso nome famigliare dei Loricariidae, con un riferimento alla lorica dei legionari romani. Il che costituisce un punto di distinzione altamente rilevante, visto come tutti gli appartenenti a questa genìa, diversamente dalla maggior parte dei pesci d’acqua dolce o salata, non possiedono alcun tipo di scaglia o aculeo, il che potrebbe rendere gli esemplari più piccoli, quanto meno, potenzialmente vulnerabili all’attacco da parte dei predatori nativi. Mentre l’esperienza c’insegna, come ampiamente dimostrato da una lunga serie di video online, che nelle vie idriche del settentrione americano non esiste assolutamente nulla che possa contrastare la sempre maggiore presenza di questi soldati onnivori e voraci, capaci di rimuovere completamente un intero sostrato di alghe all’interno di un lago, per poi scavare i loro nidi in prossimità delle rive, aumentando drammaticamente l’erosione e rovinando completamente l’equilibrio pre-esistente del paesaggio ripariale. E tutto a causa della momentanea disattenzione o disinteresse da parte di qualcuno..

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Il tacchino sacro che ruggisce come una moto

All’interno di un’area di 130.000 chilometri quadrati che si affaccia sul Mar dei Caraibi, tra i confini dello stato peninsulare noto come Yucatàn, può capitare di assistere a uno spettacolo naturale estremamente rappresentativo di questo particolare contesto geografico e ambientale. Così stranamente memorabile da non lasciare in alcun modo sorpresi che per l’antica civiltà dei Maya, rappresentasse per quanto ci è dato di capire un motivo di timore reverenziale, portando il suo protagonista a un ruolo di primo piano nel loro complesso sistema di divinità. Chalchiuhtotolin, erano soliti chiamarlo, che oltre ad avere un suono onomatopeico significa “tacchino di giada”, in riferimento alla particolare livrea ingioiellata di una creatura il cui aspetto generale, anche lontano dalla stagione degli accoppiamenti, risulta ancora drammaticamente affascinante. Ma è soltanto verso la fine di febbraio, quando i gruppi sociali di fino una ventina di esemplari che caratterizzano il Meleagris ocellata iniziano a dividersi, con i grossi maschi di fino a 5 Kg di peso avviati singolarmente per la propria strada, che questo fasianide del Nuovo Mondo riesce ad esprimere il suo massimo potenziale. Allora può capitare riuscire a sentirlo, prima ancora di scorgere un riflesso cangiante tra i folti cespugli delle Chiapas, mentre emerge ed in un solo movimento apre la grande coda, caratterizzata da una profusione di figure circolari che sono gli “occhi” da cui prende il nome scientifico e la sua corrispondenza nella lingua comune. Lungi dall’accontentarsi semplicemente di questo, tuttavia, l’insolita creatura inizia quindi il rituale della danza usata per attrarre e conquistare una potenziale partner, nel corso della quale batte a terra le ali ed emette a più riprese il suo particolare glogottìo, profondamente diverso da quello dei parenti nordamericani. In un crescendo al tempo stesso stridulo e melodioso, il cui ritmo ricorda da vicino quello di un piccolo motore in corso d’avviamento.
Una notazione a cui è importante dare rilevanza, per riuscire a comprendere a pieno il ruolo di questi animali nei vasti imperi delle civiltà pre-colombiane, sono i ritrovamenti archeologici dei loro scheletri, avvenuti all’interno di sepolcri e tombe sacerdotali. Dal che è stato desunto, e riconfermato in numerosi studi tra cui l’ultimo risalente a gennaio di quest’anno (Diversity of management strategies in Mesoamercan Turkeys […]Aurelie Mann et al.) che simili volatili non fossero soltanto, né con particolare frequenza, addomesticati con lo scopo di finire serviti nel corso di un pranzo o una cena. Bensì tenuti in alta considerazione come animali domestici e talvolta, persino sacrificati assieme al loro padrone per accompagnare il suo spirito nell’aldilà. Il che, incidentalmente, costituiva un grande onore per le culture native di questi luoghi, in cui la morte per il bene altrui veniva considerato l’unico modo per cancellare il naturale egoismo di ogni essere vivente, offrendo una piccola possibilità di sfuggire al crudele destino di una non-vita senza luci o alcun barlume di speranza. Persino in tale contesto inusitato, tuttavia, il tacchino ocellato trovava una posizione particolare, essendo direttamente considerato un nahual (forma animale terrena, o se vogliamo usare un termine del linguaggio globalizzato, avatar) del dio Tezcatlipoca, nume tutelare di ogni forma  di malattia infettiva e pestilenza. In altri termini, l’araldo stesso della fine di un’intera civiltà, come determinato dai microbi europei trasportati fin quaggiù dalla venuta dei conquistadores europei.

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