Non tutti hanno avuto modo di conoscere in maniera approfondita, anche qui in Italia, la figura del conduttore, comico ed autore televisivo Jay Leno, conduttore del popolare Tonight Show statunitense per un periodo di 22 anni. Ma tra tutte le attività condotte nel corso di una lunga carriera, probabilmente ciò che gli ha consentito di acquisire una maggiore fama internazionale è la sua straordinaria capacità di realizzarsi come collezionista d’auto d’epoca, attraverso un oculato investimento delle sue significative finanze, l’opera di restauro condotta, talvolta, in totale autonomia e la costituzione attraverso lunghi anni dell’ormai rinomato “garage/museo” con circa 286 veicoli, risalenti a un periodo che si estende dall’invenzione del concetto di autovettura fin quasi all’epoca moderna.
Il che gli ha permesso di essere il protagonista, tra le molte altre, di interviste altamente specifiche come questa del programma My Classic Car, in cui l’eccezionalmente baffuto Dennis Gage viene portato a conoscere in maniera MOLTO ravvicinata, e persino guidare con le sue stesse mani, uno dei pezzi in assoluto preferiti della sua collezione: l’Inside-Driven Coupé del 1910 della Baker Electric, un “tardo modello” di quella che giunse a costituire, per un importante benché fugace momento, la più grande promessa dell’automobilismo americano d’inizio secolo, in un momento di svolta tecnologica che avrebbe cambiato la storia di questo ambiente. Nella cronologia in lingua inglese viene chiamata brass era ovvero epoca dell’ottone, con un riferimento al materiale usato di preferenza per rifinire componenti come i fari, gli specchietti o l’essenziale griglia del radiatore. Non che il veicolo oggetto del video, certamente bizzarro ai nostri occhi per composizione e funzionamento, si presenti in effetti fornito di una alcuna caratteristica similare.
Dovete considerare, al fine d’inquadrare storicamente l’intera questione, come le automobili dell’inizio del secolo scorso fossero tendenzialmente oggetti sporchi, brutti e spaventosi. Il tipico “carro senza cavalli” a vapore, ancora popolare in quegli anni, creava una quantità impressionante di fumo e rendeva l’aria del tutto irrespirabile, mentre le prime vetture con motore a combustione interna avevano la pessima abitudine di espellere lubrificante o altri liquidi poco gradevoli all’indirizzo dei loro utilizzatori mentre questi ultimi s’impegnavano di buona lena a girare vorticosamente la leva del loro dispositivo di avviamento. Ciononostante, si percepiva che l’autonomia, velocità e affidabilità superiore di quest’ultime avrebbero contribuito a renderle il solo ed unico possibile futuro. lo stesso Thomas Edison, in un famoso aneddoto del 1986, passò durante una cena un biglietto al suo amico Henry Ford con la scritta “l’automobile elettrica è finita”. Eppure sarebbe stato proprio lui, soltanto tre anni dopo, a progettare il nuovo modello di batteria ricaricabile per una nascente azienda di Cleveland, Ohio, diventando successivamente il secondo orgoglioso possessore del loro nuovo approccio al problema, più che mai attuale, di riuscire a spostare le persone, possibilmente senza finire per terrorizzarle.
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L’automobile costruita vent’anni prima della Rivoluzione francese
Titolare di un periodo di regno incuneato tra quello straordinariamente significativo del suo bisnonno, il Re Sole, e il suo nipote ed ultimo sovrano di Francia, ribattezzato il Cittadino Louis Capet negli ultimi drammatici mesi prima della condanna alla ghigliottina, il monarca Luigi XV è una di quelle figure ingiustamente menzionate a margine nei libri di storia generalisti. Notoriamente influenzato, secondo le dicerie di corte, dalla sottile mente della sua amante Madame de Pompadour, nonché esimio sconfitto nella sanguinosa guerra dei sette anni per il controllo del Canada contro gli inglesi, pur trattandosi di un uomo capace di guidare il paese più influente della sua epoca per ben 72 anni, è singolare che in molti tendano a dimenticare il modo in cui favorì, e diede spazio, alla corrente di pensiero che avrebbe presto cambiato il mondo. Grande mecenate delle arti, della letteratura e filosofia, proprio grazie all’educazione ricevuta da quegli uomini di scienza, per lo più gesuiti, che avrebbe fatto perseguitare a partire dal 1764, il re ospitò a corte numerosi poeti, tra cui la stessa figura monumentale di Voltaire, primo teorico dell’Illuminismo. E come spesso avviene nella storia delle catene di comando, questa propensione alla ricerca di un nuovo metodo di fare le cose ebbe ripercussioni fino alle più remote province del regno, dove inventori e ingegneri avevano modo di farsi strada, ricevendo encomi per le loro opere più eclettiche e ogni punto di rottura con il passato. Individui come Nicolas-Joseph Cugnot, membro del genio militare che aveva ricevuto la sua formazione presso Void-Vacon, in Lorrena e del quale non sapremmo in realtà quasi nulla, se non fosse che il suo principale capolavoro, portato a termine nel 1769, esiste ancora e si trova custodito, perfettamente integro, presso il Musée des Arts et Métiers di rue Réaumur, nel pieno centro di Parigi. E non è difficile immaginare quel surreale oggetto a tre ruote, sferragliante e sbuffante in un’impressionante quantità di vapore, mentre procedeva a passo d’uomo lungo il cortile dell’Arsenale, sotto l’occhio attento del generale Gribeauval e il duca di Choiseul, suoi principali sostenitori dinnanzi alle legittime obiezioni dei militari maggiormente tradizionalisti. Con l’inventore stesso al comando, intento a manovrare la caldaia anteposta al sedile con un lungo bastone, mentre con l’altra mano roteava freneticamente, sempre più freneticamente la manovella dello sterzo. Un gesto destinato ben presto a rivelarsi inutile, quando le due tonnellate e mezzo dell’astruso veicolo impattarono fragorosamente nel muro dell’edificio antistante, causando un crollo dalle conseguenze terribili nonché immediate.
Vuole infatti la leggenda, poiché di questo si tratta in assenza di testimonianze scritte ufficiali, che l’inventore di quella che viene talvolta definita la prima automobile sia stato anche il primo ad essere incarcerato per la propria mancanza di cautela al volante, benché la colpa maggiore di cui si fosse macchiato, nell’opinione dei suoi due “angeli custodi” fosse stata quella di avergli fatto fare una pessima figura, sperperando inappropriatamente i soldi del re. Il che da un certo punto può essere anche capito: il fardier (carro pesante) à vapeur, pur essendo il frutto diretto dell’esperienza pregressa di Cugnot nel corso della guerra nelle distanti Americhe, in cui era stato inviato come parte del corpo di spedizione, presentava numerosi problemi in grado di renderlo, essenzialmente, una delusione. In primo luogo la sua caldaia, ben più piccola di quella delle prime macchine a vapore che stavano prendendo piede come metodi per pompare l’acqua fuori dalle miniere, o far funzionare i primi timidi tentativi di fabbriche parzialmente automatizzate, era sostanzialmente insufficiente a spostarne la massa indubbiamente ponderosa, donando al veicolo un’autonomia funzionale di appena 15 minuti. A seguito dei quali, ogni volta, era necessario attendere che il serbatoio dei liquidi fosse ritornato a una temperatura adatta ad essere riempito, il che limitava ulteriormente l’utilizzo del carro. L’altro problema era inerente al meccanismo stesso di trasformazione della pressione del vapore in un movimento rotatorio capace di trasportare cose o persone il quale, per quanto fosse indubbiamente rivoluzionario per l’epoca, risultava in grado di sviluppare una velocità massima di appena 4 Km orari. Ora aggiungete a tutto questo l’ovvia inesistenza all’epoca di un sistema di sospensioni realmente efficace, o pneumatici ad aria da usare per il movimento su strada o meno, e capirete presto come l’idea originaria venduta ai rappresentanti del governo, relativo all’impiego per il trasporto diretto di una bocca da fuoco sul campo di battaglia (costituendo, essenzialmente, il primo prototipo del carro armato) fosse ben più di una remota speranza, quanto piuttosto un’evidente impossibilità funzionale. Eppure sarebbe assurdo, pensare anche soltanto per un attimo, che l’opera di un tale eclettico inventore non abbia lasciato un profondo solco nella storia futura dei mezzi di terra concepiti dall’uomo…
Il vecchio sogno americano di una tartaruga da guerra
Avete mai sentito l’affermazione “Mai sottovalutare il potere della volontà e la parola”? Faceva parte, tra le altre cose, del sapere dello stregone Belgariath ne la Belgariade, il ciclo di racconti dello scrittore fantasy David Eddings risalente alla prima metà degli anni ’80. Avendo costituito, ben prima di questo, uno dei fondamenti stessi del concetto di mimesi, il processo che mira ad alterare il funzionamento della natura, attraverso la interazioni non razionali tra il mondo e la mente umana. Stiamo parlando, in altri termini, di magia. O propaganda. Poiché nella lunga storia delle guerre tra i popoli, niente ha ispirato maggiormente le imprese marziali che un’icona, un nome o un campione. E ancor più questo fu vero dopo l’invenzione dei giornali, la radio e la televisione, amplificatori della poetica di un tempo, così come lo erano stati precedentemente gli aedi, gli scaldi e i menestrelli, sempre in viaggio dal luogo di un’esibizione a quello successivo. E talvolta può persino accadere, a causa di una scelta particolarmente riuscita, che l’effetto ottenuto sia persino superiore alle aspettative di partenza, finendo per modificare il corso stesso di un conflitto, come avvenne per i tedeschi, grazie alla leggenda di quella inviolabile linea difensiva, che entro gli anni ’40, aveva preso il nome di Sigfrido.
Eroe dei Nibelunghi, condottiero vincente, uccisore di draghi nell’Alto Medioevo. E adesso… Effettivamente capace di arrestare con enfasi, nel corso degli ultimi due anni della grande guerra, l’avanzata della macchina bellica degli alleati, permettendo alle truppe tedesche di limitare i danni. Questa serie di bunker e fortificazioni si sarebbe guadagnata subito dopo l’ascesa di Hitler nel ’34 significativi potenziamenti, modifiche e adeguamenti alle nuove regole della guerra. E benché si riporti che il generale americano George S. Patton avesse affermato dopo l’inizio delle nuove ostilità, in circostanze non del tutto acclarate “Le fortificazioni inamovibili sono un monumento alla stupidità dell’uomo” è innegabile che il messaggio d’inviolabilità del fronte ovest della Germania fosse destinato a durare a lungo, ancor dopo lo sbarco in Normandia dell’estate del ’44. Quando raggiunse, come una freccia, il cuore stesso del suo bersaglio. Ciò appare chiaro quando si considera come i capi di stato maggiore, nelle loro sicure roccaforti al di là dell’Oceano, iniziarono a pensare che l’unica possibilità fosse contrapporre al cavaliere in armatura scintillante una terribile creatura, del quale pari su questa terra non aveva ancora avuto ragione di far fuoco dalle sue fauci incandescenti. Qualcosa che fosse in grado di perforare qualsiasi parete di cemento, ricoprendo di schegge incandescenti e pietra fusa i suoi pericolosi occupanti. La definizione stessa di “mostro” è creatura composita, ovvero contenente caratteristiche provenienti da più animali. E la stranezza di un tale veicolo apparve chiara già dalle prime prove tecniche effettuate presso il poligono di Aberdeen a Fort Knox, quando l’Esercito Americano non riuscì semplicemente a trovare una definizione capace di contenere una tale… Cosa. “È chiaramente un carro armato” esclamarono alcuni, per poi essere subito contraddetti da chi faceva notare che, secondo l’ottica della guerra moderna, simili mezzi da guerra dovrebbero possedere una torretta rotante. Così che, nei primi tempi, si parlò di cannone motorizzato T95, benché tale definizione sembrasse implicare una corazzatura leggera. Il che non poteva essere, nei fatti, più lontano dalla realtà. Finché la ragione prevalse lasciando attribuire allo strisciante tartarugone la nuova classificazione di “carro superpesante” e il numero di serie T28. Poco importava che questo nome già fosse già appartenuto, ben 10 anni prima, a un carro medio sovietico che trovò il suo massimo impiego durante la guerra d’inverno in Finlandia. Dopo tutto, i numeri e le lettere non sono certamente infinite…
XB-70: la tragica fine di una valchiria dei cieli
È interessante notare, quando si ripercorre idealmente la storia dell’aviazione, che il più potente e veloce bombardiere mai creato sia stato il prodotto di un particolare teatro operativo e scenario geopolitico, il quale poteva trovare le sue radici unicamente nell’anno remoto del 1954 negli Stati Uniti, costituendo la genesi remota di ciò che avrebbe volato, sotto gli occhi increduli della stampa e il pubblico internazionale, soltanto 10 anni dopo l’inizio di quel progetto rivoluzionario: spedire un carico di almeno 23.000 Kg, corrispondenti ad un paio di bombe nucleari, a 7.000 Km di distanza oltre l’oceano Atlantico, di cui almeno 1.000 percorsi in pieno territorio sovietico, schivando il fuoco antiaereo e ogni tentativo d’intercettazione. Per non parlare dell’onda d’urto devastante che sarebbe derivata dal rilascio dei suddetti ordigni. Il che avrebbe richiesto, essenzialmente, di volare più in alto e velocemente di qualsiasi altro aereo militare costruito prima di quel momento, battendo i 21.385 dell’ormai leggendario velivolo da ricognizione Lockheed U-2 e la sua velocità relativamente ridotta di Mach 0,75 (tre quarti di quella del suono) che non sarebbe comunque risultata abbastanza per lo scenario disperato di un’eventuale guerra termonucleare globale. Il prodotto di tutto questo, che avrebbe sostituito l’ormai tecnologicamente arretrato bombardiere degli anni ’50 B-52 Stratofortress della Boeing, noto per la sua capacità di carico e affidabilità, avrebbe ricevuto l’appellativo preliminare di B-70, accompagnato dalla dicitura velatamente wagneriana di Valkyrie, scelta attraverso un concorso indetto tra il personale dell’USAF indetto nel 1958. Ciononostante, a causa della sua storia difficile, l’elevato costo il numero relativamente elevato di incidenti tra cui l’ultimo letale e una serie di sfortunate contingenze, il suo destino sarebbe stato quello di passare alla storia con il nome di XB-70, dove la prima lettera indicava, secondo l’usanza, il suo ruolo di aereo sperimentale. Mai terminato e fortunatamente mai utilizzato, il bombardiere appare tuttavia caratterizzato da un design straordinariamente moderno e persino futuristico, vagamente simile al celebre Concorde, che non sfigurerebbe in alcun modo all’interno di un hangar contemporaneo allestito come istituzione di prima risposta nel caso in cui dovesse verificarsi l’inconcepibile. E la ragione di tutto questo è che nessuno, a partire da quel momento, ha mai avuto modo o ragione di eguagliare le sue straordinarie caratteristiche operative, neanche i russi quasi 20 anni dopo, con il loro Tupolev T-60 capace di raggiungere appena il Mach 2.05 (2.220 Km/h) contro l’inconcepibile 3.1 (3.309 Km/h) dell’insigne predecessore americano. Circa 1.000 in più per intenderci, del più veloce aereo da caccia dell’epoca, l’iconico e performante MiG-21.
Tutto ebbe inizio esattamente 11 anni dopo la fine della secondo conflitto mondiale, all’apice del conflitto silenzioso e multi-generazionale che sarebbe passato alla storia come guerra fredda, tra le due potenze un tempo alleate che si erano trasformate nelle pietre di paragone di due stili di governo, percezione dei diritti della popolazione e metodi diplomatici internazionali. Quando le forze aeree americane, con l’ordine N. 38, indirono un appalto del tutto radicale nella sua apparente semplicità: progettare e successivamente costruire un aereo che avesse una velocità superiore al Convair B-58 Hustler, bombardiere dal peso a vuoto di appena 25.200 Kg, unito alla capacità di carico e la portata operativa del già citato B-52. Non proprio un obiettivo semplice da perseguire, tanto che a rispondere alla chiamata si presentarono soltanto due aziende: la stessa Boeing in collaborazione con il think tank militare RAND e la North American Aviation (NAA) di Los Angeles, già famosa per l’eroico P-51 Mustang che aveva saputo fare la differenza sul fronte del Pacifico, contro le possenti flotte e l’aviazione dei giapponesi. Entrambi i team ingegneristici quindi, protesi verso gli standard operativi richiesti e il massimo della tecnologia disponibile all’epoca, crearono delle proposte che avevano dei fondamentali punti in comune: l’aereo avrebbe avuto un muso appuntito per accrescere le prestazioni aerodinamiche e una configurazione con ali trapezoidali, con potenti motori a reazione alimentati grazie agli avveniristici carburanti di tipo Zip fuel o HEF (High Energy Fuel) creati a partire da composti di idro-borone. La collocazione dei quali variava a seconda dei casi, con la Boeing che li aveva piazzati al termine di una serie di piloni sotto le ali, mentre NAA prevedeva un singolo condotto aerodinamico nella parte posteriore del bombardiere. In una convergenza talmente strana da sembrare tutt’altro che accidentale, entrambi i concorrenti proposero inoltre un qualcosa che avrebbe trovato futura realizzazione soltanto nel campo dell’esplorazione spaziale: serbatoi che potevano essere staccati e abbandonati durante il volo.