Un computer non può sbagliare: mai astrazione fu più apprezzata dall’uomo, benché inerentemente soggetta ad una vasta gamma di eccezioni. Talvolta terribili, nelle conseguenze a cui diventa impossibile sottrarsi. Le tre colonne grigiastre spuntavano dall’acqua del Gandsfjord per 6 metri, come altrettanti costole di un colossale dinosauro. Circondate da gru, piattaforme e una piccola flotta di navi da trasporto, tra cui le più grandi apparivano appesantite, a dir poco, da una sovrastruttura dal peso di 57.000 tonnellate, sufficiente ad ospitare comodamente una quantità approssimativa di 200 persone. Era il 23 agosto del 1991, quando il personale della Norwegian Contractors, assolvendo al più importante appalto che fosse mai stato emesso dalla compagnia di bandiera Statoil (oggi Equinor) stava per fare la storia dell’ingegneria marittima e l’edilizia offshore. Lentamente, un centimetro alla volta, l’elemento apparentemente più imponente venne spostato sopra quelli che avrebbero costituito i suoi sostegni per un periodo di almeno 5 decadi a venire, presso il vasto giacimento di petrolio e gas naturale di Sleipner, nel Mare del Nord. Quindi, contrariamente alle più lecite aspettative, non fu quest’ultimo ad essere abbassato, bensì le colonne stesse, come mosse da una forza titanica, a sollevarsi dal fondale marino, entrando in contatto e “raccogliendo” letteralmente il ponte superiore dai suoi portatori di giornata. D’un tratto, ciò che si trovava soltanto a contatto con il fondale iniziò a dover sopportare al tempo stesso l’impressionante peso e la pressione degli abissi a una profondità di 220 metri. Ogni singola persona coinvolta sapeva che quello era il momento supremo della verità e trattenne il fiato, fino a che… Un boato imprevisto, sollevandosi dalle profondità, risuonò fino ai recessi più remoti della costa rocciosa antistante. Quindi un fremito sembrò sollevarsi tra le onde, mentre l’oggetto titanico, improvvisamente, iniziò a piegarsi da un lato. La peggiore delle ipotesi stava per realizzarsi: a causa di un errore nei dati elaborati dal software di calcolo strutturale NASTRAN, concepito originariamente per simulare lo sforzo dei velivoli della NASA al rientro nell’atmosfera terrestre. Così la solidità dei serbatoi di zavorra e sollevamento era stata sottostimata del 47%, provando in maniera drammatica quello che in molti avevano sospettato: il sistema consistente nel costruire piattaforme petrolifere che poggiano su massicce colonne di cemento vuote, non era scalabile in maniera indefinita. Portato a rendere conto di fronte alla commissione della Statoil, tuttavia, il direttore della compagnia responsabile si vide rivolgere piuttosto che l’atteso rimprovero la famosa domanda: “È successo, c’è soltanto un modo di rimediare. Potete costruirne un’altra identica prima dei termini contrattuali?”
Tentare l’impossibile una volta e fallire, nella maggior parte dei casi, viene considerato abbastanza. Ma esistono risultati talmente desiderabili, con margini di guadagno tanto significativi, che lo sprone a perseverare è semplicemente troppo significativo da poter dimenticare l’obiettivo di partenza. Ed è questa, sostanzialmente, la narrativa di fondo del progetto condeep (concrete deep water structure) concepito per la prima volta dall’ingegnere Olav Mo della compagnia Hoeyer-Ellefsen, nell’ormai remoto 1973. Un modo per collocare gigantesche strutture, finalizzate all’estrazione di alcune delle più basilari sostanze della civiltà moderna dell’energia, nei tratti di mare più agitati e pericolosi dell’intero emisfero settentrionale. Grazie al principio di quella che potrebbe essere considerata una pluralità di capsule cave, il cui involucro esterno è una parete di cemento spessa oltre un metro, e la forma paraboloide possa estendersi dal fondale oceanico fino i raggi splendenti dell’astro solare. Sostanzialmente un approccio migliore e più sofisticato del metodo precedentemente impiegato di una torre in metallo, o l’alternativa inerentemente instabile delle piattaforme semi-sommergibili, impiegate nel più tranquillo e marittimo meridione. Che permette di proteggere l’impianto di trivellazione, assieme agli altri macchinari sommersi, dalla furia insistente delle correnti sottomarine, ponendolo all’interno di quelli che possono soltanto essere descritti come dei veri e propri grattacieli sommersi. Uno, tre o quattro a seconda dei casi, poggiati sopra un sistema di ancoraggio al fondale capace di renderli le più imponenti strutture gravitazionali (GBS) ovvero prive di fondamenta che siano mai state costruite. Al verificarsi del disastro della Sleipner A, questo concetto non era certamente nuovo, essendo stato impiegato con successo già dodici volte, in altrettante piattaforme dislocate tra i giacimenti di Beryl, Brent, Frigg, Stratfjord, Gullfaks, Oseberg e Draugen. Sarebbe tuttavia possibile affermare, senza alcun timore d’esagerazione, che il più importante rappresentante di categoria non fosse ancora stato portato a termine, dalla collaborazione di alcune delle più fervide menti ingegneristiche dell’intero settore delle risorse delle prime. Un traguardo che sarebbe stato raggiunto soltanto nel 1995, in quello che sarebbe diventato il più imponente oggetto a portare il nome della più fraintesa creatura mitologica di queste terre, il grosso e talvolta pericoloso Troll.
Europa
Gli echi di Dunnottar, castello contro cui s’infrangono le onde della Storia
Navigare attraverso le gelide acque del Mare del Nord, saccheggiando villaggi e monasteri lungo l’intera costa dell’isola d’Inghilterra. Esplorare in lungo e in largo, attraverso una conoscenza delle stelle che possiamo soltanto iniziare ad ipotizzare. E sconfiggere le armate dei Sassoni, dei Danesi, persino del solo ed unico imperatore di Frankia. Tra tutte le imprese mitiche dei Vichinghi, tuttavia, c’è n’è una che pare esulare dal regno stesso del possibile, entrando nella più pura regione del mito: annientare, durante le loro campagne in Scozia del 900 d.C, le forze militari del rí Alban Domnall mac Causantín, quello che oggi potremmo definire il sovrano di quelle terre. Questo poiché egli, secondo le cronache coéve possedeva un castello, le cui mura imprendibili avrebbero potuto rivaleggiare con alcune delle invenzioni architettoniche più creative di George R. R. Martin, l’autore letterario de Il Trono di Spade. Costruito in cima a una scogliera a picco sul mare come Roccia del Drago, e accessibile lungo uno stretto sentiero di montagna, allo stesso modo del Nido dell’Aquila (con tanto di abisso in gettare i prigionieri!). Strategicamente rilevante quanto le Torri Gemelle, eppure oggi in rovina come Harrenal, il luogo in cui la giovane Arya Stark incontrerà, nel romanzo, il suo futuro insegnante nelle arti notturne dell’assassinio. Eppure all’epoca dell’alto Medioevo effettivamente esistito, la guarnigione di questo luogo doveva essere formidabile, se è vero che ancora 34 anni dopo, lo stesso grande sovrano Athelstan, primo unificatore delle genti d’Inghilterra, avrebbe fallito nel catturarlo di nuovo, dovendo a malincuore lasciarne il controllo alle feroci genti del Nord.
E sarebbero passati altri due secoli prima che un tale luogo, secondo alcune legende sacro per la presenza di una cappella sotterranea costruita da San Ninniano di Whithorn circa 300 anni dopo la nascita di Cristo, tornasse nuovamente in possesso delle genti di Britannia, attraverso le mire espansionistiche del re di Scozia Guglielmo I, detto non a caso il Leone, che proprio qui avrebbe costituito a partire dalla seconda metà del XII secolo il centro amministrativo dell’intera regione dei Mearns (oggi il Kincardineshire). Di nuovo conquistata pagando il prezzo col sangue degli uomini coraggiosi, nel 1297 la fortezza diventa quindi un obiettivo fondamentale delle guerre d’indipendenza scozzesi, famosamente attaccata, con successo, dall’eroe William Wallace, che una volta catturati gli ultimi strenui difensori li fa radunare tutti all’interno della cappella. E secondo alcuni storici dal punto di vista particolarmente cupo, gli da fuoco. Proprio mentre il barone di Roslin tornava per ricostituire le difese su ordine del re inglese Edoardo III, quindi, il reggente di Scozia Sir Andrew Murray assale nuovamente queste possenti mura. Restituendole, finalmente, al popolo che tanti secoli prima le aveva edificate. Dopo un breve incidente di percorso da parte del Maresciallo di Scozia William Keith, che riceve il controllo il castello e il titolo attraverso un’unione dinastica con la nipote di Roberto I detto the Bruce, finendo per costruire il suo torrione proprio sopra l’antico sito della cappella di San Ninniano, e una frettolosa lettera indirizzata a papa Benedetto XIII per far revocare la conseguente scomunica da parte delle autorità ecclesiastiche locali, inizia finalmente la fase di ammodernamento e fortificazione che avrebbe concesso a questo sito il bastione invincibile che avrebbe sempre dovuto essere. Una sorta di punto fermo, destinato a costituire lo scenario d’innumerevoli importanti episodi nella storia di Scozia e Inghilterra…
Bocca-di-Falce, il ragno pacifico dall’aspetto infernale
L’associazione della lingua greca allo studio della scienza ha un’origine cronologicamente remota. Un tempo lingua franca della cultura, come l’inglese odierno, l’antico idioma ellenico presenta importanti vantaggi anche a livello sintattico: una terminologia coniugabile, declinazioni per cancellare l’ambiguità (laddove la sintassi anglosassone è spesso invariabile) e il fatto che, almeno in Europa, essa venga spesso studiata come parte del percorso scolastico dei più prestigiosi curriculum liceali. Quello a cui lo stesso Linneo, tuttavia, non ebbe modo di fare caso quando classificò la famiglia tassonomica dei ragni Tetragnathidae, era l’associazione inerente tra le sue quattro (τέσσερα) mandibole (Γνάθος) e l’espressione, questa volta più che mai latina, di “Si vis pacem, para bellum” ovvero “Se vuoi la pace, preparati alla…” Guerra. Un conflitto armato, generalmente umano, tra due o più entità collettive distinte, ciascuna organizzata sotto un vessillo simile, ma diverso. Eppure sarebbe quanto mai ingenuo, nonché superficiale, immaginare che la forma più elevata di vita animale sul pianeta Terra sia l’unica in grado di veicolare il proprio bisogno di soverchiare ed annichilire il prossimo attraverso dei terrificanti implementi d’uccisione. Quando basta osservare talune specie più piccole, e prolifiche, per notare l’evidente presenza nella loro dotazione congenita di attrezzature d’uccisione, sviluppate attraverso lo strumento più lento e mostruosamente flessibile dell’evoluzione.
Fortuna vuole che oggi esistano culture, come quella statunitense, maggiormente portate ad evidenziare una simile associazione. Come emerge con enfasi da questo drammatico segmento dello show televisivo Monster Bug Wars, in cui un esponente della suddetta genìa aracnide viene posto “accidentalmente” a confronto con un piccolo appartenente al genere Portia, parte della vasta famiglia dei Salticidae, ragnetti noti per la loro agilità, relativa intelligenza e la propensione quasi fratricida a cacciare e uccidere gli altri esseri dotati di occhi multipli ed otto zampe. Così mentre la voce fuori campo trascorre qualche minuto a descrivere ciascun contendente, riuscendo a creare persino lo spazio per un utilissimo intermezzo pubblicitario, appare fin troppo chiaro quale sia la creatura che costui vuole darci per favorita: il suo rivale, ovvero quello che in tali luoghi prende il nome di Long Jawed Spider (ragno dalla lunga mandibola) e nella fattispecie un appartenente probabile alla specie piuttosto comune dei Tetragnatha extensa. Del resto esso presenta, tra i due, l’aspetto senza dubbio maggiormente intimidatorio. Un corpo dalla caratteristica forma allungata, zampe lunghissime con una testa larga esattamente quanto il corpo centrale del cefalotorace. E dinnanzi ad essa, la più grossa e terrificante pinza arcuata, dotata di artigli terminali, apparentemente progettata per ghermire e fare a pezzi prede più piccole di lui, come il suo temibile avversario di giornata. Terminati gli ampollosi preamboli e raggiunto finalmente l’attimo del confronto, dunque, lo spettatore non potrà che provare un senso di sorpresa e spiazzamento: in meno di un attimo, Portia salta sopra il nostro amico dotato di attrezzatura ninja. Lo paralizza con un rapido morso velenoso e serenamente, inizia a fagocitarlo vivo.
Un’arma spaventosa, sinonimo di abilità in battaglia? Un aspetto mostruoso, evidente corrispondenza della più chiara ferocia? Questo potrebbe essere del tutto vero, se la natura non amasse sorprenderci ed agire spesse volte, con metodologie misteriose. Così per quanto gli impressionanti cheliceri di dei Tetragnathidae siano un caso di evoluzione convergente con gli arti raptatori a falce della mantide religiosa, essi non presentano affatto la funzionalità primaria di afferrare al volo alcunché (dopo tutto, per questo esistono le ragnatele, giusto?) quanto piuttosto un’impiego concepito per assistere l’attività diametralmente opposta agli scontri spietati tra i singoli individui: sto parlando, se non fosse evidente, dei rapporti amorosi tra lui e lei. Un ambito, questo, inerentemente pericoloso tra i ragni parlando sopratutto per il cosiddetto sesso forte, vista l’arcinota propensione alla novella sposa di accedere allo stato di vedovanza pressoché immediata, usando colui che offriva lo sperma nuziale come fosse un delizioso e nutriente spuntino. A partire… Dalla testa. Un’attività, questa, che risulta decisamente più complessa tra i Tetragnathidae, quando i partner si trovano impegnati in un rituale d’accoppiamento che assomiglia più che altro a un’incontro di lotta greco-romana, in cui le reciproche pinze s’intrecciano vicendevolmente fornendo un chiaro ostacolo a qualsivoglia tipo di mossa affrettata. Amore, piuttosto che odio. E un’indole pacifica che porta ad alcuni straordinari eccessi…
Indovinello tedesco: quanti motori servono per far volare una nave?
Dodici. Esattamente dodici luftschraube, ciascuno dotato di sternförmig accoppiato, rispettivamente, con la sua controparte rotativa in configurazione di spinta o trazione. E se la risposta a questo enigma può sembrare un mero passatempo dalla terra di Germania, è solamente perché il mondo, suo malgrado, ha finito per dimenticare quello che noi stessi italiani definimmo il primo ed ultimo “idrogigante” nella storia dell’aviazione. Il Dornier (dal nome del suo inventore) Do X, senz’altri appellativi né soprannomi, costituendo in tal modo massima espressione dell’assoluta compostezza d’intenti, funzionalità e valore progettuale oggettivo. E questo nonostante il senso della propaganda, in se stesso, fosse destinato a costituire fin dall’inizio una ragione d’esistenza primaria di questo titano da 53 tonnellate, con 48 metri di apertura alare. Fin da quando, in un momento imprecisato negli anni tra il 1924 e il giugno 1928, data di decollo del prototipo, l’allievo ed aiutante del grande Ferdinand von Zeppelin riuscì ad interessare il Ministero dei Trasporti del Reich, ottenendo il finanziamento che l’avrebbe condotto, dopo oltre 240.000 ore di lavoro svolto per lo più in Svizzera, al giorno in cui le restrizioni in campo aeronautico imposte dal trattato di Versailles sarebbero state finalmente aggirate. Scrissero quindi i giornali, in quel momento carico d’elettricità ed orgoglio nazionale: “Do X, l’hotel dei cieli. Un miracolo della Tecnologia Tedesca. Questo non è più un aereo ma una nave, capace di sollevarsi dall’acqua e volare in aria. Capace di dare forma tangibile a visioni che sembravano impossibili soltanto tre anni fa.”
Niente di altrettanto grande, ovviamente, si era mai sollevato prima di allora. E nulla di così potente, per un totale di ben 6.288 cavalli, forniti dalla succitata e notevole quantità di motori Siemens, costruiti sul progetto radiale inglese dei Bristol Jupiter, montati a coppie su sei gondole montate nella parte superiore, interconnesse tra di loro con una piccola ala ausiliaria. Talmente tanti che, in effetti, l’analogia nautica trovava ulteriore espressione nella presenza di un ingegnere della “sala macchine” che avrebbe regolato la potenza sulla base degli ordini ricevuti via telegrafo a corto raggio dal suo pilota e “capitano”. L’esistenza stessa del Do X era resa possibile dall’invenzione del 1903 del duralluminio, una lega d’allumino temprato, rame, manganese e magnesio, con un rapporto estremamente vantaggioso tra peso e resistenza. Com’era ancora l’usanza e necessità ingegneristica di quei tempi, una parte considerevole delle superfici aerodinamiche erano costituiti da semplici teli di stoffa, tesi e ricoperti ad arte con la vernice. Nonostante tali accorgimenti, tuttavia, il peso dell’impressionante macchina era tale da non permettergli di sollevarsi al di sopra dei 400 metri, facendone in effetti un esempio ante-litteram di ekranoplano, aeromobile capace di librarsi a bassa quota sfruttando la portanza restituita dall’effetto suolo. E mentre già la voce dei detrattori iniziava a farsi insistente, affermando con enfasi che un tale mostro non avrebbe mai potuto sollevare “altro peso che il proprio” lo stesso Claude Dornier ebbe modo di organizzare un impressionante volo dimostrativo, in cui un totale di 169 persone, tra membri dell’equipaggio, passeggeri e circa una decina di “clandestini” interpretati da attori furono posizionati all’interno della carlinga ancora priva di elementi di arredo, sopra un grande numero di sedie pieghevoli ed altri implementi similari, poco prima di un giro panoramico a tutto tondo dei dintorni di Untersee. E si dice che il peso delle persone a bordo fosse talmente ingente, da richiedere che queste dovettero spostarsi letteralmente a destra o a sinistra durante le virate, pena l’incapacità dell’aereo di manovrare. Ragione per cui, in seguito, esso avrebbe ricevuto la certificazione per il trasporto confortevole di circa 60-70 passeggeri, oltre a 11 membri dell’equipaggio tra cui navigatore, operatore radio e meccanico di bordo. Per non parlare degli addetti all’assistenza di bordo: sfruttando lo spazio ed il peso recuperato, si decise infatti di trasformare il Do X nel più lussuoso spazio che avesse mai lasciato il contatto col suolo. L’aereo era dotato di tre ponti, tra cui quello superiore era completamente dedicato al personale, quello inferiore conteneva il bagagliaio ed i serbatoi di galleggiamento; mentre in mezzo, trovava posto la più fedele e ragionevole interpretazione del concetto di Grand Hotel. Tappeti, lampadari e un vero e proprio ristorante, collocato in asse con l’area dei sedili, che potevano essere reclinati nel caso in cui i passeggeri volessero dormire (benché i voli notturni fossero all’epoca piuttosto rari). Dopo alcuni voli di prova riservati alla stampa, lo stesso Dornier e i suoi dipendenti per un totale di 37 ore di volo, dunque, il primo esemplare dell’impressionante aereo fu consegnato al Ministero dei Trasporti, che per qualche tempo non seppe che cosa farsene. I motori Siemens della prima versione, in effetti, erano propensi a surriscaldarsi con l’uso, rendendo voli a lungo raggio decisamente poco praticabili mentre la sostituzione con altri modelli di provenienza estera veniva considerata controproducente dal punto di vista primario dell’immagine nazionale. Entro il 1930, con un colpo di scena decisamente significativo, Dornier riuscì a farsi prestare gratuitamente l’aereo per utilizzarlo in quello che doveva essere un giro dimostrativo d’Europa. Immediatamente, fece quindi sostituire i propulsori con 12 performanti Curtiss-Conqueror, prestati dall’omonima compagnia americana con scopi pubblicitari, dando inizio a quella che sarebbe diventata, ben presto, una straordinaria quanto travagliata avventura.